Boekenweekgeschenk

di Paolo Maria Mariano

In olandese, o forse dovrei dire nederlandese o neerlandese, per non confondere il dialetto olandese, appartenente alle varietà dialettali del basso francone, con quella lingua sovraregionale, nel gruppo delle lingue germaniche occidentali, che è ufficiale nei Paesi Bassi, la parola nel titolo, boekenweekgeschenk, indica il libro omaggio che i librai distribuiscono ai clienti che acquistano durante la Settimana del Libro Nederlandese.

L’invito a scrivere il libro, con il vincolo di limitarsi a 29000 parole, è considerato un onore. Nel 2011 l’onore in questione è stato tributato a Kader Abdolah. Il risultato è stato De Kraai, apparso in italiano nel 2013 con la traduzione letterale del titolo: Il corvo (Iperborea, pp. 128).

Kader Adbolah, un nome non propriamente olandese, direbbe anche il lettore distratto, è lo pseudonimo di Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, un persiano classe 1954, oggi diremmo un iraniano per la consuetudine dettata dalla geografia politica. Lo pseudonimo nasce dall’accostamento dei nomi di due dissidenti uccisi dal regime degli ayatollah. Anche Farahani – diciamo Kader Abdolah d’ora in poi – ha seguito la linea della dissidenza e per questo, nel 1985, con la moglie, emigrò dall’Iran prima in Turchia dove, tre anni dopo, in seguito all’incontro con una delegazione olandese delle Nazioni Unite ad Ankara, riuscì a ottenere lo stato di rifugiato politico nei Paesi Bassi. È di una storia analoga quella di cui parla ne Il corvo e il tema dell’emigrazione forzata e del rapporto con le proprie radici culturali è continua presenza nella sua opera.

Refid Foaq, il protagonista de Il corvo, è il figlio di un falegname che porta sempre con sé un libro nella cassetta degli attrezzi. Refid cresce guardando l’operare paterno e sognando di diventare scrittore. Matura avversione prima per il regime dello scià – un trisavolo di Kader Abdolah, Qhaem Megham Farahani, politico e poeta, fu assassinato nel 1875 dal regime dello scià – e poi per quello degli ayatollah. Refid pone la sua fiducia nel comunismo sovietico e con l’idea di andare a Mosca prova a fuggire dall’Iran, lasciando moglie e figlia a casa, e finendo in Turchia. “Quando sono fuggito, tutto il mio passato non era altro che un numero di otto cifre. Era un codice che mi aveva dato il partito clandestino in caso di emergenza” (pag. 48). Lì, dopo un primo contatto con l’ambasciata russa, si rende conto dell’illusione. Poi in quei giorni l’impero sovietico crolla e Refid si trova a vagare per Istanbul, degradando nella qualità dei luoghi dove può permettersi di dormire ogni notte. “Tutti i clandestini erano alla ricerca di un trafficante di esseri umani. Di tutti i trafficanti di Istanbul non ce n’era uno affidabile, ma non avevi altra scelta. Vigeva la legge della giungla, sopravviveva il più forte. Chi poteva pagare di più veniva mandato nei posti migliori. Per diecimila dollari i trafficanti ti facevano arrivare a New York nel giro di una settimana. Per novemila dollari dopo tre giorni eri a Londra. Con ottomila dollari in tre giorni eri a Parigi. Per Berlino dovevi pagare settemila dollari, per Stoccolma cinquemila, per Oslo quattromila, per Copenaghen tremila. Per chi non aveva che duemila dollari non restava che l’Olanda” (pag. 64). A Refid rimangono duemila dollari. Va quindi in Olanda, facendo il viaggio nel cassone di un camion, respirando con altri l’aria da una fenditura che permette a tutti loro di non soffocare. In Olanda viene fermato e portato in un centro profughi. “Ero finito in un mondo di cui ignoravo completamente l’esistenza. Alcune centinaia di uomini barbuti e non barbuti che fumavano e parlavano nelle più svariate lingue; donne mussulmane in lunghe gonne colorate. Donne russe in audaci minigonne, donne bulgare in avanzato stato di gravidanza; bambini mongoli in bicicletta; profughi di guerra somali; neonati cinesi in braccio alle loro madri giovani e minute; poeti iraniani, attori e attrici bosniache; turchi armeni; ribelli del PKK curdo; splendide ragazze afgane; criminali; ex guerriglieri; generali di lungo corso; trafficanti di droga; prostitute; spie; ladri; impostori; torturatori; cani e gatti olandesi: vivevano senza distinzione sotto lo stesso tetto” (pag. 72). Da lì comincia un percorso lento che lo spinge a imparare la lingua perché se vuole continuare a scrivere in quel mondo, pensa, deve farlo nella lingua di quel mondo – lo stesso Kader Abdolah ha scelto di scrivere in olandese, dopo averlo imparato da autodidatta. Refid riesce a portare in Olanda anche moglie e figlia, e diventa sensale del caffè, finendo per comprare quello che chiama palazzo e in cui possiede la casa e il negozio. Continua a scrivere, però, anche se i suoi manoscritti rimangono nel cassetto – al contrario di Kader Abdolah cui in Italia è stato anche concesso il Premio Grinzane Cavour 2009 per un altro romanzo, La casa nella moschea. “Ufficialmente sono registrato alla Camera di Commercio come sensale del caffè, ma la Camera di Commercio non può stabilire chi sono. Io scrivo! È questo il mio lavoro. Non potrei sopportare l’idea che i miei compagni di un tempo siano stati uccisi per i loro ideali e giacciano nella tomba mentre io mi limito a vendere caffè di seconda scelta” (pag. 106). Su tutta la vicenda passa un corvo a osservare, anzi, vari corvi, quelli dalla lunga vita che sono comuni nelle favole persiane e la cui presenza, per questo, impedisce di dimenticare le radici. Il corvo è un interlocutore, un gracchiante osservatore, quello che serve, proprio perché osserva, a certificare l’esistenza di chi è osservato e a sua volta osserva le piume nere, lo sguardo forse indifferente forse no. Non è solo il corvo, inteso come simbolo, l’eredità apparente della tradizione letteraria persiana. È soprattutto il tono della narrazione, la grazia della fiaba, che permette a Kader Abdolah di trattare la vicenda in tono lieve, senza indulgere in alcun modo in quell’ostentato compiacimento del narrare le disgrazie proprie e altrui che caratterizza in modo disgustoso la cosiddetta “televisione del dolore”. Quella de Il corvo è, infatti, una gradevole lezione di stile in cui l’accenno, il singolo particolare, e un certo generale pudore rendono più incisiva la percezione dei problemi di quanto l’urlo sguaiato possa ottenere. Vi è anche una visione per così dire bilaterale dell’integrazione sociale: si deve avere memoria non evanescente delle proprie radici ma è altresì necessario intendere il mondo in cui ci si viene a trovare nella sua radice culturale. In realtà non credo neanche che si debba parlare d’integrazione, parola abusata e per lo meno dal senso ambiguo (non così in matematica, dove il senso è altro e ben preciso). La questione fondamentale è il rispetto reciproco tra identità anche molto lontane che hanno la necessità di comprendere le rispettive culture se non vogliono confliggere. È questo il punto e non è semplice.

Un’altra questione puramente letteraria appare implicitamente ne Il corvo, indipendente dalle istanze più propriamente politiche e sociali che sottendono il racconto: il ruolo e il peso delle vicende autobiografiche in una qualsiasi narrazione. Ognuno, infatti, scrive attraverso se stesso e se anche le vicende che narra sono lontane dalla sua biografia – e non è il caso di Kader Abdolah, come non lo è stato, se guardiamo a un orizzonte più vasto e significativo, per Canetti, per Kertész, per Mann, per lo stesso Proust in fondo e per tanti altri – il punto di vista che ha su di esse dipende strettamente da quello che egli/ella è, dalle sue idiosincrasie, dalle sue simpatie, dalla sua cultura. In ogni caso l’autore emerge dalla sua scrittura, è sempre nel suo scritto. La questione letteraria essenziale, quella collegata con il valore estetico, è la capacità di chi scrive di estrarre da vicende particolari, se siano personali o estranee non ha importanza, quegli elementi che sono generali e che si riferiscono all’essenza dell’essere umano e del suo vivere, non a un essere umano particolare e alle sue personalissime sensazioni, siano esse angosciose o felici. Non si tratta quindi di ostentare le proprie emozioni o le proprie vicende ma di cogliere – se ci si riesce – ciò che di esse attiene ad aspetti universali della natura umana.

È meglio, però, fermarsi qui. Approfondire la faccenda porterebbe lontano. Per ora è sufficiente leggere le pagine lievi e al contempo profonde del boekenweekgeschenk su cui mi sono sin qui trattenuto: Il corvo.

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