Dialogo fuoritempo con Vittorio Bodini (alla presenza di Oreste Macrì)

di Antonio Prete

C’è qualche volta una dissimmetria tra le generazioni anche prossime – un’esegeta delle generazioni come Macrì lo sapeva benissimo-, c’è un balzo di anni e una distanza di luoghi e di esperienze che  impedisce l’incontro. Quando una sera di fine settembre del 1959 salii sull’espresso che da Lecce mi avrebbe portato a Milano, Bodini non era più nel Salento. Una comunanza c’era, però, tra la generazione sua o di Macrì e quella dei nati con la guerra : il desiderio di abbandonare un paese che tuttavia si amava fortemente, la necessità dell’addio, insomma l’impulso a emigrare. Accanto alle immagini della miseria propria del Sud agivano le immagini di un’Europa che stava per dissipare le tenebre della sua notte. Nella sera della mia partenza, il corridoio del vagone, affollato di emigranti, era animato da voci che modulavano i dialetti salentini nelle loro varianti di suono e di cadenza :  in quella animata  koiné linguistica, in mezzo alle valigie di cartone, le parole, inseguendo storie stralunate di paese, cercavano di distrarre dall’assedio dell’addio. Di là dai finestrini, dall’acqua scura, occhieggiavano le luci delle lampare.

Così il dialogo con Bodini ha battuto le vie silenziose della pagina, crescendo ai margini dei versi e della prosa. Leggere Bodini è stato un movimento d’ascolto, dentro il quale crescevano le rispondenze, e prendeva forma come una zona di fantasmagorica consistenza, un luogo dove familiari erano voci e figure in cammino, paesaggi campestri e urbani, colori e pietre, credenze e orizzonti, ma anche simile a quello dell’autore appariva il ritmo della partenza e del ritorno, della prossimità interiore e della lontananza geografica, oltre che il tentativo di non trasformare in elegia la civiltà magico-rurale dell’infanzia, ma viverne, anche nelle scelte politiche,  la condizione di esclusione, e leggere, per questo, le venature, espresse o silenziose, di rivolta.

Il visibile dai versi di Bodini mi veniva incontro portando con ogni particolare una sorta di suo doppio che saliva dalla mia infanzia e dall’adolescenza. Così il bianco delle case di calce, il grigio dei muretti a secco tra gli ulivi, il guizzo delle lucertole sul pietrame, i folletti che nottetempo annodavano le code ai cavalli, le foglie di tabacco appese a seccare, le ombre dei balconi sostenuti da sirene e satiri corrosi, l’odore di menta nei vicoli, le bocche viola delle raccoglitrici di ulive, il grido dei carrettieri sotto il sole, i pomodori secchi attaccati allo spago, i carri col tufo delle cave, le siepi di fichi d’India, i lenzuoli al vento sulle terrazze, i santi sotto le campane di vetro posate sui comò,  i palmizi tra i palazzi di tufo, e tutte le altre figure che abitavano i versi, persino il fermento dei cieli, appartenevano  a quell’ arrière pays del mio teatro interiore preservato con cura, contro ogni minacciata rimozione, non abraso né sfigurato dalla sopravvenuta esperienza del Nord, e neppure consegnato all’inerte mito di un Sud immobile nel suo incantesimo.

Di questa materia si è alimentato il dialogo con Bodini, estendendosi poi dalla poesia alle prose e  alle traduzioni : ma anche in questo esercizio che ha nella poesia, nella prosa e nella traduzione tre colori dello stesso ventaglio, il dialogo ha trovato, via via nel tempo, sue particolari modulazioni  e rispondenze (poesia e prosa innestate nell’esperienza del tradurre, da questa motivate e in certo senso sostenute).

A Oreste Macrì, con il quale invece, per diversa congiuntura temporale, la conversazione fu possibile, almeno qualche volta, e proprio qui al Vieusseux –lui rivolgendosi a me con frasi  in dialetto magliese, io in dialetto copertinese – a Oreste Macrì avrei voluto chiedere per quali sottili e indecifrate corrispondenze era accaduto che proprio quella stagione di pensiero e di fervida scrittura e di traduzione della cui rete egli fu parte attiva ed esegeticamente ordinatrice, avesse avuto nel lontano Salento rifrazioni e corrispondenze così assidue da oltrepassare la vulgata opinione che voleva Lecce la Firenze del Sud. Poteva giocare in questa corrispondenza il definirsi di una bellezza architettonica della città che nel passaggio delle epoche ha conservato una sua forte identità? Aveva un peso l’analogo rapporto tra la teatrale e abitata geometria degli spazi cittadini e una metafisica che riconduce lo sguardo al suo orizzonte terrestre mentre tenta domande estreme? Il barocco leccese, lontano per il suo delirio di luce e di forme dal  rinascimento fiorentino, era di fatto prossimo a questo quanto a irrequieta iscrizione della visione nella figura, dell’impossibile nel disegno,  della luce nella pietra?

Quando mi recai a studiare a Milano con Mario Apollonio (autore già nel 1945 di un saggio dal titolo  Ermetismo), laureandomi poi con lui con una tesi intitolata a una rivista fiorentina – Lacerba e la crisi dell’espressionismo – tra le mie letture ricorrenti c’erano autori della fiorentina Vallecchi (il primo Papini, Viani, Pea, Cicognani, Lisi, Landolfi, Bargellini e altri), i cui libri trovavo sulle bancarelle, e leggevo nei pomeriggi sulle liame, cioè sui tetti-terrazze, subendo la fascinazione di una lingua che fu in gran parte responsabile  della mia vocazione alla scrittura.

Tornando, ora, al libro poetico di Bodini messo insieme con fraterna e vigilisssima cura da Macrì, da lui introdotto e ordinato in quattordici folte sequenze biografico-poetiche e fitto di prospezioni esegetiche, trovo che alcuni luoghi avrebbero certamente fatto parte del mio dialogo con il poeta. Tra questi luoghi, la figura del “monaco rissoso” che vola tra gli alberi. E ancora, la disposizione a fare della luna la sorgente di fantasmagorie che possano difendere dall’incantamento e insieme possano contrastare la solarità che dilaga sulla pianura e incendia pensieri e favorisce dionisiache esplosioni di ritmi e di estenuati deliqui. Su questi due passaggi della poesia di Bodini qualche breve considerazione.

 

Il verso “Un monaco rissoso vola tra gli alberi” conclude la sezione Foglie di tabacco de La luna dei Borboni. Da quel verso giungeva a Bodini anche il suggerimento di un titolo (Un monaco vola tra gli alberi), dato nel novembre del ’49, ci ricorda Macrì, poi sostituito nell’edizione del 1952 con la Luna dei Borboni (titolo riferibile all’impresa della Terra d’Otranto, una mezzaluna nella bocca di un delfino). Ancora Macrì ricorda quanto essenziale sia per la comprensione della Luna la figura di San Giuseppe da Copertino, nell’interpretazione che ne dà lo stesso Bodini in una nota di Zibaldone leccese, nella quale si oppone all’agiografia edificante del santo il ritratto fattone dal Fremautius : un ragazzo rissoso, irrequieto, non visitato dalla luce dell’intelligenza, ma che poi, una volta divenuto frate, stupiva con le sue frequenti estasi accompagnate dal volo (la fonte citata da Bodini novera più di settanta voli, plus quam septuaginta). Nella figura del francescano detto poi il santo dei voli si compendiano di fatto, per una sorta di condensazione antropologica e mitografica, elementi propri di una cultura popolare ripensata dal punto d’osservazione della poesia, in particolare il richiamo della leggerezza, della élevation così come Leopardi prima e poi Baudelaire l’avrebbero descritta : vista dall’alto, ascolto del linguaggio muto delle cose, critica dell’atrofia dei sensi, della loro terrestre gravità, fascinazione di una angelicità che è sogno di trasparenza, forzatura del limite temporale e  spaziale, prossimità a una lingua priva di lingua, prossimità all’impossibile. Senza dire di quel nesso tra incantamento e conoscenza, tra ascesi e sentimento dell’appartenenza popolare, tra condizione stralunata  e povertà, tra insofferenza e stravaganza, tra ignoranza e santità che la figura del frate copertinese poteva assumere in sé, riflettendo alcuni aspetti di una sorta di antropologia poetica del Salento. Macrì ricorda la forte identificazione di Bodini con questo singolare esempio di liberazione dalla gravità (volare sopra la “fossa dei leccesi”), di levitazione oltre la prigione della malinconia, pur nella consapevolezza che il volo per il poeta accade solo nel linguaggio, e la sua grazia è solo nell’orizzonte della parola.

Carmelo Bene, anche lui sulle tracce di un impossibile e di un eccesso in grado di forzare il limite della convenzione, avrebbe tentato una rappresentazione del santo francescano sia nel film Nostra Signora dei Turchi sia nella sceneggiatura mai diventata film A boccaperta,  del ’76 (dedicata appunto al santo francescano e ambientata in una Copertino secentesca, stralunata e barocca, abitata da mercanti e trafficanti e pellegrini di passaggio verso l’Oriente). Aggiungerei un particolare : la figura del ragazzo discolo, distratto, impetuoso, ignorante, che divenuto frate attinge l’estasi e il volo, diventa sorgente di un’affabulazione popolare assidua e diffusa. Una narrazione che modula, con fantastiche variazioni, il sogno di un’alterità favolosa, di una grazia che possa alleggerire la povertà, e declina, evocando i fioretti e i prodigi del santo francescano, una dimensione creaturale  dell’esistenza.  Con le cadenze e i timbri di una di queste voci popolari, quella di mia madre che racconta i prodigi dell’irrequieto e incantato ragazzo copertinese diventato poi santo, aprivo anni fa  L’imperfezione della luna.

 

E alla luna torniamo, che diventa, nel primo libro di Bodini, impresa ed emblema di un cammino poetico.  Non è, quella di Bodini, ce lo ricorda Macrì, una luna di matrice leopardiana. Certo, potremmo aggiungere, la luna salentina non è quella appenninica, non ha il dialogo con le ombre e con le linee nere dei colli, non ha il ritmo che vela e a un tempo disvela le cose (semmai il tirrenico Tramonto della luna potrà avere corrispondenze visive nei tramonti lunari della costa ionica, e andrebbero da sé le corrispondenze meditative e interrogative). E tuttavia, in quella stessa desertica notte del domandare, in quell’affanno che vorrebbe scrutare l’enigma, sapendo la prigione della finitudine, si leva anche la luna di Bodini. Tant’è che la prima dischiusa presenza lunare in Foglie di tabacco si modula sull’allocuzione leopardiana : “Ma tu, luna, le incognite finestre / illumini del Nord, /mentre noi qui parliamo, / nel fondo di quest’esule provincia /ove di te solo la nuca appare”.  Il nascondimento del volto della luna dice quel nesso tra luce lunare –ingannevole, obliqua- e disvelamento d’una irredimibile condizione propria delle terre del Sud. Anche sul paesaggio l’ apparizione lunare non è epifanica e incantatoria ma suscitatrice di ombrose e malinconiche parvenze. Sin da subito : “Appena la conchiglia lunare /suscita falsi monti che paiono uccisi / e un luccicare sordo sulle rotaie / …”, cui segue, più oltre, una bellissima relazione pittorica tra la luce lunare e le sagome di donne sulle soglie delle case : “Sulle soglie, in ascolto, antiche donne sedute /- o macchie che la luna ripercuote nell’aria-  /socchiudono pupille  d’una astratta durezza / dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi”. Nella poesia di Bodini non è la luna che rivela ma la luce del giorno che allo stesso tempo però cancella, annulla per dir così le linee del paesaggio, per lasciare  il dominio  a quel “tutto è evidenza e quiete” nel quale  “si vedrebbe anche un pensiero, / un verbo”. O per poter osservare le apparizioni inquietanti di capre e spettri e dentature di cavalli uccisi, nell’aria piena di sangue. Un espressionismo tutto figurativo, o forse  un novecentesco e disforico ritorno dello spleen, che si estende anche alla rappresentazione lunare. La quale, nelle sue apparizioni, non esige l’atto contemplativo, perché mostra il suo volto oscuro, il suo “viso sfregiato” che porta sbigottimento al gufo delle monache Scalze e ai gerani. Non è più il notturno romantico che agisce ma semmai quell’obliqua e destinale presenza di una luna ironicamente benefica e perversa rivelatrice dell’umano declino : Les bienfaits de la lune del poème-en-prose baudelairiano e del fiore del male La lune offensée, o certi notturni lunari di Rimbaud e Mallarmé (presenti anche  –ecco un altro dialogo salentino- tra le versioni metriche dei simbolisti, che nel ‘57 l’altro Vittorio leccese, Vittorio Pagano, pubblica presso le edizioni dell’Albero e dedica a Girolamo Comi). Ma ecco che la presenza lunare in Bodini contamina il numinoso con l’elemento ctonio e turbativo (sullo sfondo il Leopardi della “caduta della luna” non il Leopardi dell’allocuzione lunare), accostandosi così a quel mutamento della rappresentazione lunare che da Pirandello va fino a Landolfi, il Landolfi della Pietra lunare (“pietra lunare” è sintagma che appare nella poesia di Bodini), della luna nera e del racconto Voltaluna. Ma questo orizzonte ha un’altra variante, quella che a Bodini giunge dal suo assiduo esercizio di traduzione e di frequentazione della poesia spagnola. La luna di Lorca o di Jimenez o del Machado tradotto dall’amico Macrì invita alla libertà di un movimento metaforico, a una figurazione  libera dalle declinazioni simboliche, anche se ancora confidente e prossima. Ecco i capelli corti della luna ghiotta d’angurie. O “ la testa d’un lutrino dalla spina scarnita” che ride nel cerchio lunare. Anche se tornerà a campeggiare nel cielo –con un verso d’incipit (“L’allodola e la luna sole nel cielo”) – sarà soglia e custode di un silenzio che è solitudine, senso amaro del vuoto. Annuncio di quella luna che alla fine della storia veleggerà, fredda, mandando il suo raggio sopra un tempo cenere, sopra i “ secoli inerti” che “daranno  smorti riflessi d’alluminio”. E nel volgere degli anni Sessanta rara apparirà nei versi del poeta la luna: in Ostaggio, per una singolare equivalenza col nulla (“O se il nulla non fosse solo il nulla / ma nuvolaglia polvere poltiglia /nella luna /senza colore /senza nulla); o infine in una poesia di fine d’anno 1968,  Per un volo nei pressi della luna, che comincia col verso “Vedi la luna rider della luna” : si tratta di una luna “calva e grigia” (memoria degli ultimi versi della baudelairiana “lune offensée”?).

La luna di Bodini, guardata in un paese del Salento o in un paese dell’Andalusia, si leva severa  sopra le pietre, sopra le palme e gli ulivi, ma anche sopra un paese interiore spazzato dal vento pungente di una irredimibile, tutta novecentesca, malinconia.

[Discorso pronunciato nella Sala Ferri, venerdì 31 ottobre 2014, nell’ambito del Convegno internazionale di studi L’Ermetismo e Firenze, 27-31 ottobre 2014, presso il Gabinetto Vieussseux di Firenze]

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