Di libri, sui libri

di Antonio Errico

Ciascuno di noi ha un libro dentro sé: anche una sola pagina, una frase, un rigo appena. Forse anche un libro lontano di scuola elementare, uno di quei libri con le immagini irreali, quelli che seguivano l’avvicendarsi delle stagioni. Ma ciascuno di noi ha un libro dentro, intimo, profondo, anche se a volte lo ricorda a malapena, perché il tempo è passato e ha fatto fascine di memorie.

Forse il libro che conta in fondo è quello: il proprio libro dei libri, quello dal quale tutti gli altri sono stati generati, che ha provocato la curiosità, il piacere, forse anche il vizio della lettura. Conta quel libro che si è fatto lievito di un’avventura a volte continua, altre volte rara. Ma il numero dei libri letti davvero non importa; non è la quantità che determina la sostanza. Mi pare che sia stato Gustave Flaubert ad aver detto che saremmo certamente molto colti se leggessimo solo quattro o cinque libri. Perché probabilmente nei quattro o cinque libri ci possono essere tutti i libri scritti in ogni tempo e in ogni luogo. Allora quello che davvero conta è la profondità che si riesce a raggiungere, quello che resta della lettura, che si stratifica, si sedimenta e al tempo stesso si rinnova costantemente, in relazione alle esperienze che si attraversano, alle emozioni che si provano, alle ragioni che maturano. Forse bisognerebbe leggere i libri giusti. Ma quali possono essere i libri giusti, e poi giusti per chi, giusti per cosa? Chi potrebbe consigliarci i libri giusti? Diceva Virginia Woolf all’inizio di un saggio intitolato “Come si legge un libro”, che “l’unico consiglio sulla lettura che si possa dare a una persona è di non accettare consigli, di seguire il proprio istinto, di usare il proprio cervello, e di trarre le conclusioni da soli”.

Come si fa a sapere se un libro è giusto o sbagliato – per sé – se prima non lo si legge.

Ci sono libri, pagine, versi, che ritornano dopo anni e anni e si comprendono solo nel momento in cui ritornano, in una condizione di urgenza o di riflessione. Si comprendono nella sintesi esistenziale che rappresentano, nell’espressione essenziale con cui si manifestano, nel grumo di senso che hanno tenuto nascosto fino a quando non è venuto il giusto tempo per rivelarlo.

Si legge Il sabato del villaggio a tredici anni. Poi lo si legge un’altra volta a diciotto. Ma è soltanto dopo, molto tempo dopo, quando fiumi d’acqua sono passati sotto i ponti, quando si è fatta fitta la trama della propria storia, quando l’intreccio si è aggrovigliato, che si riesce a scoperchiare la botola segreta del significato di quella reticenza terribile e stupenda: “ altro dirti non vo”.

Ecco, Leopardi. Uno che a vent’anni aveva letto un oceano di libri. A un certo punto dello Zibaldone scrive d’essersi accorto “che la lettura de’ libri non ha veramente prodotto in me né effetti o sentimenti che non avessi, né anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da sé: ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente”. Probabilmente è davvero così: ogni uomo ha già tutti i sentimenti, forse anche tutte le passioni; ha già sensazioni, percezioni, emozioni, sogni, suggestioni, quello che appartiene all’istinto, al sangue, alla natura. Ha anche cognizioni e visioni della vita. Forse confuse, però. La lettura le armonizza, le dispiega, le organizza in categorie, le dispone in una rete di relazioni, ne sviluppa le prospettive. Allora non si vede soltanto la propria esistenza, la propria storia, non si ha confronto soltanto con la propria memoria, con le creature che si sono conosciute, con i luoghi che si sono abitati, ma lo sguardo arriva più lontano, fino alle cose e agli esseri mai conosciuti. Si scopre l’altro da sé; si rivela un universo sconfinato, nel quale ci sono tutte le storie e tutti i destini possibili, tutti i volti e tutte le voci, tutti i vivi e tutti i morti, e i paesi, e le verità, le finzioni, il bene, il male, la felicità, il dolore, tutte le meraviglie e tutte le paure, tutte le disperazioni e tutte le speranze, tutta la saggezza e la stoltezza del mondo.

Prima venne Lavorare stanca. Poi fu La bella estate, La luna e i falò, Il mestiere di vivere, Paesi tuoi. Poi non ricordo più l’ordine, neppure la misura. Lessi mattina e pomeriggio, senza interruzione, per tutto luglio e agosto. Avevo quindici anni. Forse è per questo motivo che ho sempre pensato che Pavese si legge a quindici anni o mai più, che si può leggere solo quando si hanno quindici anni, perché a quell’età penetra nelle ossa, e le indurisce. Una pregiudiziale autobiografica, indubbiamente. Un convincimento maturato nell’inconscio. Non ho più letto Cesare Pavese, dopo quell’estate. Non ne ho più sentito il desiderio, l’attrazione. Può anche darsi che ne abbia avuto paura. Perché Cesare Pavese può fare paura. Ma ricordo passaggi nitidi, scene precise, descrizioni, personaggi, paesaggi. Ricordo a memoria passi interi del diario, poesie straordinarie.

L’unico libro che in trent’anni ho letto una decina di volte, è stato Dialoghi con Leucò: quello che Pavese ebbe più caro. Che si rigirò tra le mani alla fine, in quegli istanti della notte tra il ventisei e il ventisette di agosto del millenovecentocinquanta, in una camera dell’albergo Roma in piazza Carlo Felice a Torino. L’ultima frase della sua esistenza la scrisse sul frontespizio, probabilmente quando i barbiturici lo avevano già aggredito: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”. Le stesse parole di Majakovskij. A volte si rinuncia alla vita; forse mai alla letteratura.

A quarantadue anni se ne andava via così. Forse contento dei libri che aveva scritto. Sicuramente scontento di qualsiasi altra cosa. Dopo essersi costruito la morte, giorno per giorno, e negli ultimi giorni ora per ora. Il mestiere di vivere è il resoconto di un’esperienza di autodistruzione, di un progetto di annullamento. Se ne andava via smentendo e tradendo se stesso. Aveva scritto: “Gente come noi innamorata della vita, dell’imprevisto, del piacere di raccontarla, non può arrivare al suicidio se non per imprudenza”. Dunque fu imprudente.

Si parlò dell’attrice americana Constance Dowling: l’ultima delusa passione; per lei aveva scritto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi; forse, in particolare, quei versi del venticinque marzo del cinquanta (era appena cominciata primavera, l’ultima sua primavera) che dicono così: “Sei la vita e la morte. Sei venuta di marzo/ sulla terra nuda- il tuo brivido dura”.

Si pensò che fosse stata lei la causa scatenante. Ma come si fa a sapere qual è la causa incausata, il macigno che a un certo punto provoca il deragliamento del pensiero spingendolo verso il precipizio del suicidio. Fu Cesare stesso a dire che i nomi non importano, che sono soltanto nomi di fortuna, nomi casuali. “Se non quelli, altri?”.

Si è detto che Cesare Pavese è stato uno scrittore che ha fatto della sua vita un pessimo romanzo. Forse è così. Ma che cosa importa agli altri che cosa fa della sua vita uno scrittore. Che ne faccia un romanzo bello o brutto è faccenda che riguarda solo il suo autore. Agli altri si consente solo un giudizio sulle parole lasciate nei libri. Basta. I libri di Pavese sono capolavori. Non tutti, certo, non tutti. Nessuno può scrivere solo capolavori. Forse se ne può scrivere uno, in tutta la vita, se la fortuna e una divinità ti portano la mano, come la maestra a un bambino i primi giorni di scuola.

Dialoghi con Leucò è un capolavoro. C’è il mito. L’infanzia. Il fato. Il sesso. L’audacia. La sconfitta. La tragedia. La salvezza. L’angoscia degli uomini, il loro destino, la vita, la morte. C’è un linguaggio appassionato che supera i generi.

Per fare un capolavoro di questi dialoghetti, come lui li chiamava, basterebbe solo una frase pronunciata come una sentenza definitiva, assoluta, irreversibile, irrimediabile, irreparabile; una sorta di specchio sul quale l’esistenza si riguarda e si consola, o si spaura.

A Britomarti che chiede: “Dunque accetti il destino?”, Saffo risponde così: “ Non l’accetto. Lo sono. Nessuno l’accetta”.

Dalla prima all’ultima riga del Mestiere di vivere si capisce che Cesare Pavese non accettò mai il destino. Semplicemente sapeva di essere il destino. Niente di meno e niente di più.

 

Probabilmente è vero che un classico è quel libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire, come sosteneva Italo Calvino, ma è anche quel libro che quando lo leggi ti prende a schiaffi per toglierti di dosso la sonnolenza e quando lo rileggi ti riprende a schiaffi in maniera più forte per farti accorgere che ti sei addormentato di nuovo, stupidamente, incoscientemente, per farti capire che non devi dormire. Mai. Che devi stare sempre all’erta, guardarti intorno, scrutare la bellezza e la bruttezza del mondo, sprofondare nella vita e nelle storie che la raccontano, farti stupire dagli altri, dalla sconfinata umanità che hanno negli occhi.

La morte a Venezia è un piccolo libro, in fondo. Perfetto. L’arte. La malattia. La seduzione. Il tempo. L’eleganza. La forma. La sostanza. L’amore. La morte. Il limite del corpo e del pensiero. Tutto in un piccolo libro. Nella sua essenzialità. Nelle sue descrizioni precise, accurate. Nei suoi personaggi che non hanno età. Nei loro destini irreparabili. Il mondo cambia e loro continuano a farsi rappresentazione viva del mondo. Scriveva Cesare Cases nell’introduzione all’edizione Bur del 1959 che dal 1912 in poi la società borghese occidentale si è profondamente trasformata: se la repressione degli istinti aveva dato luogo in Aschenbach alla forma più alta di sublimazione, quella artistica, noi viviamo all’epoca della “repressione desublimata” analizzata da Marcuse. Ma davvero non saprei dire quanto la condizione sostanziale di Morte a Venezia possa essere rintracciabile con uno sguardo sociale e quanto invece con uno sguardo estetico. Certo, dipende da una serie di circostanze che orientano il rapporto del lettore con il testo. Ma c’è in questo libro una realtà stilistica che forse riesce a sovrastare ogni altra considerazione e lo colloca al di fuori delle coordinate storiche e sociali, anche geografiche.

Venezia non è un luogo ma una metafora che assorbe ogni possibile luogo, reale e immaginario. Simbolo del ritorno impossibile, dell’addio. Neanche la maestria di Luchino Visconti, che ne fece un capolavoro nel 1971, poteva rendere i colori delle parole. Soprattutto non poteva renderne il silenzio.

E’ incredibile come il lessico pacato di Morte a Venezia, l’architettura della frase, riescano ad esprimere il silenzio che è custodito dentro la parola. Il silenzio dell’emozione, dello sbalordimento provocato da una sensazione e da un sentimento che allagano i pensieri.

Me ne sono accorto rileggendolo. (Un classico è un libro che ti lascia sempre qualcosa da scoprire, a seconda dell’età in cui lo leggi, del luogo, dell’esperienza che vivi. E’ un libro che non si svela mai completamente, che vive dei suoi enigmi, dell’ intrico di significati). Mi sono accorto che Thomas Mann riesce a rappresentare attraverso la parola il silenzio di cui sono fatti il desiderio e la bellezza. Come accade all’ultima pagina, dove c’è solo un fremito di schiuma nell’infinito silenzio dell’atmosfera autunnale, nel quasi deserto in cui si trasforma il luogo di piaceri, nell’assenza di qualsiasi parola che attraversi il gioco di Tadzio con tre o quattro compagni.

Anche lo sguardo di Aschenbach è gonfio di silenzio: di tutto il silenzio del presentimento della fine e forse dell’eternità.

 

C’è chi vorrebbe possedere tanti libri da non avere la possibilità nemmeno di contarli, incastrati sugli scaffali, in verticale, in orizzontale, pile di libri in ogni angolo di casa, volumi di ogni tempo e di ogni genere. C’è chi vorrebbe averne pochi, pochissimi, anche solo uno, da leggere e rileggere, fino a diventare parte di quelle pagine, personaggio tra i personaggi di un racconto.

Forse non esiste un uomo senza libri. Forse non è mai esistito da quando esistono i libri. Ognuno ha una biblioteca ideale. La sua biblioteca, costruita nel tempo, a volte con metodo, a volte casualmente, con libri cercati a lungo oppure incontrati in modo inaspettato. A volte avuti in eredità da un padre. La biblioteca ideale è fatta di quei libri da cui non si riuscirebbe mai a separarsi, che un giorno sono entrati nella vita e hanno cominciato ad accompagnarla.

Sono quei libri nei quali si cerca un riscontro, una smentita, una conferma, che in qualche caso servono da conforto, in qualche altro danno energia per andare avanti, per non preoccuparsi dell’inessenziale, per attribuire valore alla sostanza e non curarsi delle faccende che sono soltanto apparenza, che sono destinate a dissolversi in un tempo breve. Forse la biblioteca ideale è fatta di libri di saggezza. Ma si sa che non esiste una saggezza astratta, una formula generale che la contenga. La saggezza deriva dalle situazioni e dalle storie della vita, e se ogni vita e diversa, anche la saggezza è diversa. Ognuno è saggio a proprio modo e quindi ognuno ha i propri libri : quelli in cui si cerca e si ritrova. Può essere un romanzo, un saggio, un libro sapienziale, una sola poesia, un libro dell’infanzia. Non importa che libro sia. Quello che importa è che si pensi ad esso come ad una creatura con cui s’intrattiene un lungo dialogo, una relazione intima, profonda. La biblioteca ideale è fatta di quei libri con i quali s’intraprenderebbe un viaggio ai confini del reale e dell’immaginario, nella consapevolezza che neppure per un istante ci si sentirebbe soli. Se poi per il viaggio il bagaglio dovesse essere leggero per cui si potrebbe scegliere soltanto un solo libro, allora sarebbe quel libro in cui c’è scritta la nostra vita per intero: non solo quella passata ma anche quella futura; non solo come siamo stati, come siamo, ma anche come saremo. Perché la condizione unica che hanno i libri è la capacità di prefigurare, di raccontarci le cose che saranno, come saremo noi, come saranno gli altri, come diventerà un paesaggio. Allora la biblioteca ideale è fatta di quei libri che parlano di noi fingendo di parlare di altri, che raccontano il tempo che viviamo mentre raccontano un tempo già vissuto, che forse è cronologicamente lontano ma esistenzialmente vivo, che rappresentano i luoghi che abitiamo anche se descrivono luoghi sconosciuti.

Non c’è un’età per costruirsi la propria biblioteca. Qualcuno comincia dall’infanzia. Qualcuno da un’età in cui l’infanzia si è fatta remota. Qualcuno lo fa per un progetto. Qualcuno lo fa per nostalgia.

 

Chi ha letto Il Piccolo Principe, soprattutto se lo ha letto da bambino, ha un’idea del vero e del falso, della realtà e dell’immaginazione, della vita e della morte, di se stesso e degli altri, della concretezza e dell’astrazione, diversa da quella che ha chi non lo ha letto. Non è un’idea migliore o peggiore, più o meno esatta, più o meno compiuta; ma semplicemente diversa. Perché questo libello di Antoine de Saint- Exupéry ha una semplicità di linguaggio e una profondità di significati che penetrano nella dimensione esistenziale e conformano una visione del mondo. Per esempio si impara che non bisogna appassionarsi molto alle cifre: che quando ti parlano di una persona che non conosci, non devi chiedere quanto pesa, quanto guadagna, ma qual è il tono della sua voce, quali giochi preferisce, se fa collezione di farfalle. Si impara che non bisogna dire di aver visto una casa che vale centomila lire ma una casa che ha i mattoni rosa, con i gerani alle finestre e i colombi sul tetto. Si impara che se un re ordina al suo popolo di andare a gettarsi in mare, il popolo fa la rivoluzione; che è molto più difficile giudicare se stessi che gli altri ma se riesci a giudicarti bene è segno che sei veramente saggio. Si impara che l’essenziale è invisibile agli occhi. Che è il tempo che perdi per la tua rosa che fa la tua rosa tanto importante. Poi si impara che solo i bambini sanno quello che cercano: perdono tempo per una bambola di pezza , e lei diventa così importante che se gli viene tolta, piangono.

Come tutti i libri belli, Il Piccolo Principe è un libro triste. Come tutti i libri tristi fa riflettere. Come tutti i libri che fanno riflettere fa comprendere molte cose.

Non c’è niente di più sbagliato che pensarlo come un libro per ragazzi. Com’è sbagliato pensare che Pinocchio sia un libro per ragazzi. I libri non si dividono tra quelli per ragazzi e quelli per non ragazzi. Si dividono in belli o brutti, in veri o falsi.

Come PinocchioIl Piccolo Principe è un libro sapiente. I libri sapienti sono quelli fatti di parole chiare, e le parole chiare le capiscono tutti: bambini, ragazzi, giovani, adulti, vecchi. Come tutti i libri sapienti ha l’andamento di una fiaba, perché le fiabe sono metafore dei destini, dell’incognito, dell’assoluto. E’ breve, come tutti i libri sapienti, perché quando si hanno molte cose da dire, non servono premesse.

Come tutti i libri sapienti serve soprattutto in certi giorni che tutto sembra difficile, complesso, complicato, quando i problemi appaiono senza soluzione, quando si ha l’impressione che una macina di mulino passi e ripassi sulla tua esistenza. Serve a capire che qualsiasi sconosciuto può insegnarti qualcosa e che quella cosa non l’avresti mai imparata se non avessi incontrato uno sconosciuto.

Ma soprattutto: serve per capire che il tuo mondo viene dopo il mondo degli altri. Serve a capire che si può anche fare l’equilibrista sul filo dei sogni, per tutta la vita, senza cadere.

 

Forse non c’è nessuno a cui non sia capitato almeno una volta, una sola volta nella vita, di lasciarsi portare via da una lettura: un romanzo, un reportage, una poesia di quattro versi. Forse almeno una volta avrà avvertito la sensazione che gli altri si siano allontanati tutti, di essere rimasto solo in una stanza, sulla panchina di un viale, nella sala d’aspetto di una stazione, solo dentro il paesaggio di quel libro, di quel reportage, solo con i personaggi che raccontano la loro storia, solo con le parole di quella poesia da cui fiottano immagini, pensieri, colori.

E’ bella, quella solitudine: a condizione che duri poco, che dopo ricominci il brusio delle voci, l’ansioso andirivieni, il frastuono della giostra, il salto degli ostacoli, l’affanno del giorno. Ma per il tempo che è durata la lettura, si è stati in un posto dove gli altri non sono stati mai, nemmeno se hanno letto la stessa pagina, lo stesso verso, perché hanno letto in un modo diverso, in un’altra situazione, per un altro bisogno.

Ciascuno ha letto soltanto in compagnia di se stesso, e il se stesso è sempre diverso da ogni altro sé. Lo diceva Proust che in fondo si legge sempre e soltanto se stessi e che un libro è soltanto uno strumento che permette al lettore di scoprire in se stesso quello che senza un libro non avrebbe mai scoperto.

Ci sono uomini, ci sono donne, che aspettano la sera quando in casa tutti si addormentano, per mettersi sul divano con le gambe stese sul tavolino e un libro tra le mani: qualche pagina, anche una, e la casa diventa una spiaggia d’inverno, un treno nella notte, una foresta. Ci sono pendolari che nella calca dell’autobus del mattino, aprono alla pagina dove c’è il segnalibro e fanno, ogni mattino, un loro viaggio segreto.

Ci sono ragazze, ci sono ragazzi, che sognano con gli occhi aperti sui versi di Pavese o di Jacques Prèvert, magari mentre l’insegnante sta cercando disperatamente di spiegare che cosa sono gli asintoti o di rivelare la simbologia delle tre fiere dantesche.

Nella lettera a Francesco Vettori, Machiavelli racconta che dopo essersi ingaglioffato nell’osteria con l’oste stesso e un beccaio, un mugnaio e due fornaciai, giocando a cricca e a tricche trach, ritorna a casa e nello scrittoio si abbandona all’incantamento dei libri, e per quattro ore , dice, “sdimentico” (un verbo bellissimo, che dà concretamente il senso dell’oblio) “ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte”.

I libri a volte rassomigliano a quelle barchette di carta che si costruiscono da bambini, quelli che si affidano a un rivolo di pioggia che scorre lungo il marciapiede, e che si guarda andare via finché non spariscono a una svolta, mentre si immagina che siano velieri magici che portano verso terre meravigliose e sconosciute.

Ciascuno di noi, almeno una volta, in un suo pomeriggio di bambino, ha lasciato per qualche minuto i compiti di scuola per costruire una barchetta di carta mentre la pioggia batteva sui vetri della finestra.

Quando prende un libro, certe volte, fa la stessa cosa: lascia per un poco i compiti di quel giorno e s’imbarca sul veliero che lo porta per mari tranquilli, con la certezza che al ritorno quel viaggio gli servirà a fare meglio i compiti.

Longtemps je me suis couché de bonne heure. Per molto tempo sono andato a letto presto. Chissà cosa pensarono i francesi nel 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale, quando lessero questa frase brevissima, semplicissima, dimessa, con la quale Marcel Proust cominciava Dalla parte di Swann, quella prima parola che già stringeva tutta la musica di un’opera, la dismisura del tempo, il lontano e il vicino, la quotidianità e la ritualità dei gesti. Longtemps rassomigliava ad un rivolo di pioggia che scorre e si confonde con altri rivoli, e poi si sottrae allo sguardo, si perde, forse s’ingrossa, e poi si asciuga certamente. Scompare. Come il tempo. Rimane la sua memoria. Come del tempo. La Ricerca del tempo perduto ha tanti significati quanti sono stati e sono i suoi lettori. Le parole penetrano nell’esistenza di ciascuno, si consolidano, si stratificano, ritornano inaspettatamente quando uno sguardo distratto si appoggia su una macchia di paesaggio, quando qualcuno ti si rivolge con un tono famigliare e ti dice di piccole cose. Lo ha detto lo stesso Marcel che ogni lettore, quando legge, legge se stesso, che l’opera è soltanto una specie di strumento ottico offerto al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso. Proust scrisse la Recherche assediato dall’asma da fieno, recluso in una stanza foderata di sughero nella sua casa del Boulevard Haussmann, uscendo di rado e di notte. Il mondo che raccontava era tutto dentro la sua memoria, nelle figure del suo immaginare, com’erano nella memoria e nell’immaginazione tutte le sensazioni, le emozioni, le percezioni, i riflessi, i sentimenti, le inquietudini, le malinconie, che fanno della sua opera uno sterminato catalogo dell’umano. La musica si generava dal silenzio. I ricordi risalivano fino alla coscienza, si facevano nitidi, precisi, resuscitavano il passato come se anche gli oggetti possedessero il dono della magia. Così tutto quello che si era disgregato si ricomponeva. Tutto quello che era scomparso, ricompariva. Il passato e il presente sovrapponevano i confini. Tutto prende inizio da un pezzetto di maddalena inzuppato nell’infuso di tè o di tiglio, e da quell’inizio non c’è forse condizione del vivere che non ritorni, prepotente o delicata. Dopo quell’inizio un universo sommerso si disvela, si mette in scena davanti al lettore, chiede ospitalità alla sua fantasia e al suo mondo interiore,alla sua conoscenza e alla sua esperienza. Tutto ha inizio da un odore, un sapore. Perché “anche quando non sussiste più nulla di un antico passato, dopo la morte delle persone, dopo la distruzione delle cose, soli, più fragili ma più vivi, più immateriali, più persistenti, più fedeli, l’odore e il sapore restano ancora per molto tempo, come delle anime, a ricordare, ad attendere, a sperare sulle rovine di tutto il resto, a portare sulla loro goccia quasi impalpabile, l’immenso edificio della memoria”. Forse non c’è stato mai nessuno che leggendo la Recherche non si sia domandato, sbalordito, come si possa scrivere in quel modo, che non abbia avuto il sospetto che quella scrittura possa appartenere soltanto alla mano di un dio.

 

Passiamo accanto ad essi evitando di guardarli, con un senso di colpa o di disagio, con l’impressione che ci rimproverino perché li trascuriamo, con una sensazione di malinconia velata.

Uno vicino all’altro, uno sopra l’altro,vivono un’attesa senz’ansia, rassegnata, forse mortificata dalla nostra noncuranza, forse consolata dal rammarico che proviamo.

I libri che non abbiamo letto, che forse non leggeremo mai, sono come un debito che non si paga, sono un rimpianto che rimane inconsolato, una peccato che talvolta confessiamo a noi stessi, agli altri, per illuderci di una pietosa remissione.

Quel libro che un giorno abbiamo appena sfogliato, di cui abbiamo spiato il principio o la fine, di cui abbiamo intravisto distrattamente un personaggio, come dalla finestra si guarda un passante, quell’altro che non abbiamo avuto il tempo nemmeno di aprire, sono la nostra pena silenziosa, a volte anche un motivo di inconsapevole tristezza.

Allora si vorrebbe avere di nuovo quindici anni, e certi pomeriggi d’estate, o certe sere d’inverno piovose, per rifugiarsi in un angolo e attraversare le pagine come se fossero foreste sterminate, passo dopo passo, parola per parola, senza nessuna fretta, senza l’affanno di concludere, senza l’assillo di un compito da fare.

Forse si legge davvero solo a quell’età, e poi basta. Forse si fanno solo a quell’età le letture che induriscono le ossa, strutturano il pensiero, spalancano i nostri occhi sull’universo, che maturano il sentimenti e le ragioni, che accendono sogni.

Se non si è letto Dostoevskij fino ai sedici anni, se non si è letto Kafka e Joyce e Proust, se non si è letta l’Antologia di Spoon RiverIl deserto dei TartariIl Gattopardo, probabilmente non si avrà modo di leggerli mai più.

Perché dopo quell’età la giostra della vita comincia a sballottolarti come un tagadà; scompaiono gli angoli in cui puoi rifugiarti, gli spazi si fanno sempre più affollati, i richiami sempre più prepotenti.

Allora i libri che non hai letto cominciano a inquietarti: prima un’inquietudine sottile, giocosa quasi; poi si fa insistente, insolente, sfacciata. Più passano gli anni e più diventa aggressiva.

Si impasta con il rincrescimento, il pentimento. Con il disappunto per il tempo che manca.

I libri non letti sono come le storie che avresti voluto vivere e non hai vissuto. Eppure sarebbe stato possibile. Sarebbe bastato cominciare. Lasciare da parte altre cose che non sono essenziali. In fondo le cose essenziali non sono poi tante. Sarebbe bastato restare un minuto da soli. Dirsi che ne valeva la pena. Che si poteva anche evitare di uscire una sera. Che si poteva scappare in campagna o vicino al mare. O semplicemente chiudersi a chiave in una stanza. Avvertire tutti gli altri che per un po’ non ci sei, che devi fare qualcosa di molto importante.

Ma tutti i libri non si possono leggere, come non si possono vivere tutte le storie, per fortuna. Però ci sono libri e ci sono storie che fanno la differenza, che mutano il modo di pensare il mondo, di considerare la vita. Che restano per sempre dentro. Che non si dimenticano, comunque vada. Allora, probabilmente, bisogna leggere quei libri, vivere quelle storie che non hanno alternativa, non si possono compensare.

Perché ogni libro non letto è una storia impedita e ogni storia impedita un’emozione contratta e le emozioni contratte sono quelle che lasciano ferite che non guariscono mai.

 

Solo un misfatto dell’uomo sull’uomo e sulla natura è più grave di quello che si compie nei confronti dei libri e del sapere. Le biblioteche che bruciano sono millenni che s’inceneriscono, le civiltà che si oscurano, la scienza che si dissolve, la storia che si decompone, la coscienza del tempo che si fa polvere. Sempre, in tutte le guerre, l’uomo di ogni tempo e di ogni luogo, ha avuto la tentazione di violare le forme che sono testimonianza e rappresentazione della civiltà dell’altro, del nemico: le cattedrali, le biblioteche, le statue, i sepolcri, i musei, i monumenti. E’ un istinto che contagia anche, forse soprattutto, l’orda barbarica che non comprende il senso e l’importanza di quelle forme, ma che in esse percepisce la grandezza del pensiero, la vastità dell’opera dell’uomo, e vuole ridurle a maceria, distruggerle, cancellarle, perché di quella civiltà non resti memoria, perché non se ne riproduca l’espressione.

Il sapere che l’altro possiede fa paura più delle sue armi. Allora si cerca in ogni modo di appropriarsene e quando non si può lo si distrugge. Così nel gennaio del 2013 sono stati gettati alle fiamme manoscritti millenari custoditi nella biblioteca di Timbuctu, in Mali, città di moschee e di libri e meraviglie. Così in Piazza dell’Opera, a Berlino, il 10 di maggio del 1933, il ministro della propaganda del Terzo Reich, Joseph Gobbels, guardava un rogo che inghiottiva i libri non conformi e non graditi.

Ora, quel delitto è ricordato da un’opera di Micha Ullman che mostra una camera piena di scaffali vuoti. Accanto c’è una targa con una frase ripresa da “Almansor”, la tragedia di Heinrich Heine, che dice: quando i libri vengono bruciati, alla fine verranno bruciate anche le persone.

Così, nell’aprile del 2003, un incendio di vandali distrusse la sala di lettura con il catalogo di tutti i libri della biblioteca di Baghdad, e si persero i trattati filosofici di Averroè, i manuali della civiltà sumera, i trattati matematici di Omar Khayyam, le edizioni antiche delle Mille e una notte, e le mappe della Terra e del Cielo.

Prima ancora, nella notte tra il 25 e il 26 di agosto del 1992, un bombardamento appiccò le fiamme alla Vijecnica di Sarajevo.

Prima ancora i turchi distrussero la biblioteca di San Nicola di Càsole, a Otranto, forse, come dice Gregorovius, la più antica biblioteca d’Occidente, forse persino precedente a quella che Cassiodoro raccolse nel Vivarium, in Calabria, nei pressi di Squillace. Si salvarono soltanto i manoscritti che il cardinale Bessarione, metropolita di Nicea, patriarca di Costantinopoli, aveva a sua volta razziato.

Prima ancora. Forse fu Cesare ad appiccare il fuoco alla biblioteca di Alessandria, mentre bruciava la flotta di Cleopatra. O forse fu il patriarca Teofilo, a capo di un’orda di fanatici che volevano distruggere il sapere pagano. In quella follia si consumò il sacrificio di Ipazia, erede del grande pensiero greco, torre umana che si opponeva al fanatismo e al dogmatismo dei nuovi barbari: fu bruciata in una chiesa o nella stessa biblioteca di cui suo padre, il matematico Teone, fu l’ultimo conservatore.

A questa figura di donna lucida e appassionata, Mario Luzi dedicò il Libro di Ipazia, un nitido poema per un destino oscuro, la luce della parola contro il buio del silenzio: “ Il pensiero senza parola è niente/ la verità non comunicata s’inaridisce e si corrompe”. Ma se i sogni di potere finiscono inevitabilmente, e quasi sempre miseramente, quelli della conoscenza si rigenerano, si trasformano, si spandono, si propagano, risplendono.

Insieme alla biblioteca di Alessandria, ai settecentomila rotoli di papiro che provenivano da tutto il mondo conosciuto, bruciava il sogno di un luogo che contenesse il segreto di ogni scienza, la meraviglia di ogni poesia, il senso di tutti i numeri, i personaggi di tutte le storie, l’espressione di tutti gli alfabeti.

Sono solo esempi. Solo metafore. Un elenco dei roghi dei libri sarebbe probabilmente sempre incompleto. Certamente ce ne sono stati e ce ne sono in ogni focolaio di guerra, in qualsiasi piccolo conflitto.

Spesso i sogni di sapienza degli uomini muoiono per un sogno di potere degli uomini stessi, giacchè il potere e la sapienza sono due distinte cose.

 

In una pagina de Il libro del riso e dell’oblio, Milan Kundera riferisce quello che una volta gli disse Milan Hübl: “Per liquidare i popoli si comincia col privarli della memoria. Si distruggono i loro libri, la loro cultura, la loro storia. E qualcun altro scrive loro altri libri, li fornisce di un’altra cultura, inventa per loro un’altra storia. Dopo di che il popolo comincia lentamente a dimenticare quello che è e quello che è stato. E, intorno, il mondo lo dimentica ancora più in fretta”.

Chi brucia i libri, chi distrugge le opere d’arte, proprio di questo ha terrore: della condanna che per i delitti commessi in quel presente può venirgli da un futuro che conserva la memoria. Ha terrore del passato, della storia. E’ insidiato dal sospetto che la cultura che sta distruggendo possa rigenerarsi; vuole cancellarne ogni traccia in modo che non possa più seguirle per rifare il suo percorso, sbriciolarne ogni seme perché non possa riprodursi.

Ma soprattutto vuole che l’uomo di quella terra non abbia parole in cui riconoscersi, storie in cui ritrovarsi, perché le parole e le storie fanno nostalgia e la nostalgia a volte, spesso, provoca il desiderio di tornare, di ricostruire quello che si è perso, e il desiderio di tornare, di ricostruire, può anche generale ribellioni. Per questo ogni dispotismo ha sempre paura dei libri e dei racconti. Ogni dispotismo ha paura della bellezza: il fascino, la grazia, l’armonia, la perfezione, lo splendore, lo disorientano, lo frastornano. Avverte la differenza netta, il contrasto inconciliabile con la bruttezza della sua autorità arbitraria, del suo sopruso, con la violenza che esercita, con il rancore che prova.

Anche il più insipiente degli uomini sa che la memoria di un popolo sta scritta dentro i libri, e allora cerca di sottrarre ad esso quei libri, di destinarlo all’ignoranza della sua storia, all’inconsapevolezza della sua identità, di non fargli rispondere alle domande sull’origine, di non fargli ricordare le speranze, di accecargli i sogni. Solo quando lo avrà svuotato di ogni senso potrà davvero conquistarlo, asservirlo, annullarlo.

Però a volte basta un solo libro, un rotolo, una sola pagina, una riga, il verso di una poesia, la parola di una preghiera, ritrovati sotto i cumuli di cenere, per risollevare un popolo, per ridargli energia.

Di quella parola che cova sotto la cenere l’usurpatore ha paura.

 

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