La maledizione della violenza in Ibn Khldun, Werner Sombart e nella storia dell’umanità. Le origini della ricchezza, degli Stati e del capitalismo (Parte seconda)

di Giuseppe Spedicato

Ibn Khaldun, il ruolo della violenza nella creazione della ricchezza

La violenza come evento fondativo dello Stato, dell’Impero e della ricchezza.

Ibn Khaldūn, “il cui nome completo è Walī al-Dīn ʿAbd al-Raḥmān ibn Muḥammad ibn Muḥammad ibn Abī Bakr Muḥammad ibn al-Ḥasan al-Ḥaḍramī, in arabo: ولي الدين عبد الرحمن بن محمد بن محمد بن أبي بكر محمد بن الحسن الحضرمي‎ (Tunisi, 27 maggio 1332 – Il Cairo, 17 marzo 1406, equivalenti al 1° Ramadān 732 – 26 Ramadān 808), è stato il massimo storico e filosofo del Maghreb, e viene considerato un sociologo ante litteram delle società araba, berbera e persiana. È uno dei padri fondatori della storiografia e della sociologia, ed è considerato uno dei primi economisti. Ha introdotto la nozione di “storia ciclica”, fondata su fattori profani generati dalla naturale tendenza ad indebolirsi delle generazioni sedentarizzate, eredi dei conquistatori nomadi, trascinate però in una progressiva e inesorabile decadenza ad opera della ricchezza e dal modo di vita urbano. Molto apprezzato in Occidente per la modernità delle sue concezioni. L’attività principale di Ibn Khaldūn fu quella di uomo politico, cortigiano e ministro, al servizio uno dopo l’altro degli Hafsidi tunisini, dei Merinidi del Marocco, degli Zayyanidi di Tlemcen, dei Nasridi del Sultanato di Granada e dei Mamelucchi burji d’Egitto. Fu anche ambasciatore presso il re di Castiglia, Pietro I di Castiglia, detto Pietro il Crudele, e presso il temibile Timur Lang (Tamerlano). Ebbe così la possibilità di conoscere da vicino e porre a confronto tra loro i diversi modi di esercitare il potere, misurandone la precarietà. A un certo punto della sua carriera politica, Ibn Khaldūn decise di dedicarsi definitivamente allo studio e alla redazione di un’opera di vasto respiro dedicata alla storia e alla filosofia politica. Il realismo acquisito nelle sue diverse attività amministrative e militari gli permise di analizzare con spirito critico le diverse tradizioni o opinioni man mano che le raccoglieva. Per esempio, a lui si deve il racconto nel modo più dettagliato delle vicende della Kāhina, la regina ebrea dei berberi, della tribù dei Ğerawa, dell’Aurès, che portò il suo popolo a resistere e a combattere chi aveva occupato il suo paese, senza omettere le vittorie che, all’inizio, ella riportò contro gli invasori arabi, e senza tacere i riguardi che ella ebbe verso alcuni prigionieri arabi, né la sua morte in battaglia. Forte della sua esperienza politica e militare, sottopose alla critica storica i fatti riportati dagli autori, anche famosi, che lo avevano preceduto: riconduce quindi a proporzioni ragionevoli le loro affermazioni esagerate, e ne mette in evidenza le storie assurde, come quella della città d’Arabia che sarebbe stata interamente costruita d’oro, argento e rubini, ma invisibile a tutti tranne che agli uomini particolarmente pii ed ai maghi.Nella Muqaddima appare tutta la ricchezza del pensiero di Ibn Khaldun, in cui le discipline tradizionali della pedagogia islamica si uniscono ad un’impassibile capacità di analisi, frutto delle sue turbinose vicende politiche e di una nitida indagine psicologica non tanto degli individui al potere ma dei gruppi sociali. L’intenzione dell’autore è, senza dubbio alcuno, lodevole e innovativa: si tratta di «una sintesi enciclopedica di ogni necessaria conoscenza metodologica e culturale che permetta allo storico di produrre un veritiero lavoro scientifico.» Criticando il metodo dei suoi predecessori, troppo pedissequi, a suo giudizio, nel trascrivere le gesta di quel o quell’altro condottiero ma privi di una sana sete di analisi critica degli eventi, si avvale di una nuova definizione della storia: in essa egli pone come punti fondamentali per la comprensione del passato gli aspetti sociali, culturali ed economici. Per finire, a differenza degli autori cristiani del suo tempo, Ibn Khaldun si sforzò di registrare gli avvenimenti con il minimo di soggettività, poiché era abbastanza alieno dal dare giudizi morali degli eventi, anche se occorre non trascurare il fatto che egli mai intese rinunciare alla sua visione del mondo, impostata sui principi-base dell’Islam”. (da Wikipedia, l’enciclopedia libera).

 

Le tesi di Ibn Khaldun.

La formazione della ricchezza non avviene spontaneamente, questa può essere creata solo artificialmente. La storia dimostra che richiede condizioni che solo lo Stato o l’Impero possono imporre.

La prima condizione è l’imposizione fiscale. Questa crea un’accumulazione di risorse finanziarie a beneficio di uno Stato centrale, che così può avviare un processo di sviluppo.

La seconda è la specializzazione del lavoro. Ovvero la nascita della città (la prima di queste è la capitale dello Stato) dove si concentrano ricchezze private (noi diremmo capitali) e risorse umane (intese come professionalità). Nella città si ha la specializzazione del lavoro attraverso la nascita dell’artigianato, delle arti e dei mestieri. Mentre nelle campagne ciascuno produce autonomamente tutti gli attrezzi di cui ha bisogno, nelle città nascono degli specialisti, per esempio falegnami e carpentieri, che sono specializzati nel lavorare il legno. Pertanto, il lavoro del legno si specializza e si qualifica, offrendo alla comunità una maggiore quantità e soprattutto qualità di prodotti in legno. Noi diremmo che questa specializzazione determina una maggiore produttività del lavoro. Ciò significa, ritornando all’esempio della lavorazione del legno, poter realizzare costruzioni, ad esempio un ponte che collega le due sponde di un fiume, che prima non era possibile realizzare. Questo ponte favorirà i commerci e quindi altro sviluppo.

La terza condizione è disarmare la popolazione che abita il territorio statale. L’accumulazione di capitali e risorse umane vi può essere solo a condizione che la popolazione che abita la città, il territorio, sia disarmata. Un popolo armato non paga le imposte e senza imposte non vi può essere Stato e senza di questo non vi possono essere città e quindi un processo di civilizzazione. Pertanto, si deve necessariamente impedire la violenza da parte dei singoli. Si deve delegittimare questa violenza e rende legittima quella dello Stato. La popolazione viene disarmata con l’uso della forza ma anche grazie all’educazione ed all’inculcare il rispetto delle leggi e ciò al fine di favorire la vita sedentaria cioè, disarmare, pacificare e privare della violenza la stragrande maggioranza delle popolazioni che lo Stato controlla; spogliarle della violenza naturale dei gruppi umani per farne dei docili produttori e contribuenti.

Il processo è quindi quello di agire con la violenza imponendo un’autorità comune (Stato o Impero) a popolazioni che vivono in un determinato territorio, fatto ciò le popolazioni devono essere disarmate e pacificate. Lo Stato, secondo Ibn Khaldun, ha una funzione pacificatrice, almeno all’interno dei suoi confini. Questo però deve necessariamente esercitare la violenza ed avendo disarmato i popoli che lo abitano (che con il tempo disimparano l’arte dell’utilizzo delle armi), deve ricorrere alla violenza di popoli che vivono ai margini dello Stato, popoli meno civilizzati: i beduini. Si vuole precisare che per beduini il nostro Autore intende popolazioni senza Stato.

Lo Stato quindi, per sopravvivere deve ricorrere al mondo tribale, a tribù armate, che fanno parte del meccanismo che consente il funzionamento dello Stato. Delegando a queste tribù, ad una minoranza armata, l’esercizio della violenza, il resto della popolazione si può dedicare ad attività produttive materiali e intellettuali. La conseguenza ineluttabile di questo processo è che lo Stato finisce per essere governato da questa minoranza armata e “barbara”. Cioè lo Stato finisce per essere governato da soggetti che non fanno parte dei gruppi maggioritari (questo processo ciclico si può osservare nella stessa storia dell’impero islamico, quando, ad esempio, il potere passò dagli arabi ai turchi ad oriente e dagli arabi ai berberi ad occidente). Quindi è necessaria la violenza per poter concentrare nelle città ricchezza materiale ed intellettuale. La violenza crea lo Stato, lo difende dai nemici esterni ad esso ed impone l’ordine all’interno dello stesso Stato. Ovviamente si impone l’ordine gradito a chi controlla lo Stato e quindi a coloro che esercitano la violenza. Fatto ciò può nascere una nuova civilizzazione.

Pertanto, la violenza, organizzata e razionale, è all’origine della creazione dello Stato. Questo orienta la violenza naturale dell’uomo verso una nuova civilizzazione.

Non possiamo che osservare che quanto descritto dal nostro Autore è quanto accaduto al tempo del Profeta Mohammed. Allora l’attuale Arabia Saudita era abitata da tribù in perenne lotta tra di loro, il Profeta orientò questa violenza interna verso l’esterno e formò l’Impero. Questo pacificò le popolazioni assoggettate, impose la sua pace, si creò ricchezza e quindi una nuova civilizzazione.

È interessante notare che la violenza ipotizzata da Ibn Khaldun è destinata a produrre solidarietà. Solidarietà nell’obiettivo di creare e controllare ricchezze. Ciò è di fondamentale importanza perché la società urbanizzata, quella che consideriamo civilizzata, è una società poco solidale. In questa società è lo Stato, inteso come autorità pubblica centrale, ad esercitare la solidarietà. É questa autorità che garantisce l’ordine, la sicurezza sociale, l’esercizio della giustizia, il sostentamento degli orfani, delle vedove e degli anziani. Le società tribali invece, non essendo urbanizzate, per sopravvivere necessitano di una forte solidarietà interna. Queste non hanno uno Stato o Impero che garantisce loro dei servizi. Pertanto, in queste società se un bambino resta orfano, per sopravvivere può contare solo sulla solidarietà della sua tribù. Quando però le società tribali si urbanizzano, con il tempo perdono questo spirito solidale perché non più utile. Ora vivono in un mondo organizzato dallo Stato, che garantisce i servizi necessari. Questo processo riduce i legami sociali all’interno di queste comunità, le rende più deboli. Essendo poi disarmate dallo Stato, con il tempo, perdono anche il loro spirito di corpo, il senso di appartenenza ad una comunità intesa come famiglia. Una volta compiuto questo processo è inevitabile che l’esercizio della violenza passi ad un altro gruppo sociale “barbaro”. Questo processo ciclico si ripete all’infinito e spiega il susseguirsi delle varie dinastie al potere ma anche la fine e la nascita di nuovi Imperi. Questo è un processo naturale, funziona così senza che i soggetti coinvolti ne siano coscienti.

Le funzioni della società sedentaria e la volontà politica del sovrano, convergono nel cancellare la forza solidale della tribù che ha conquistato il potere. Questa forza solidale è chiamata ‘asabiya. In generale, afferma il nostro Autore, occorrono due o tre generazioni, ossia centoventi anni, per annullare lo spirito di corpo della tribù sedentarizzata.

In buona sostanza Ibn Khaldun propone una teoria economica. Innanzitutto è bene precisare che quando parla di Stato, si riferisce ad un’entità capace di imporre delle imposte ad un popolo o a più popoli. La raccolta di queste imposte si concentra in un luogo geografico, la capitale dello Stato (la città) ed in una fascia sociale: l’élite politica capace di imporre e riscuotere le imposte. Questa élite ridistribuisce il prodotto dell’imposizione fiscale al popolo attraverso servizi pubblici. Più aumenta il prodotto della raccolta dell’imposizione fiscale, più aumenta la diversificazione e la specializzazione dei mestieri, più aumenta la produttività del lavoro, più aumenta la capacità di produrre nuove tecnologie, più cresce la capitale. La crescita della città ha effetti benefici sulle campagne e villaggi circostanti. I contadini versano imposte alla città, ma da questa ricevono richieste di sempre maggiori prodotti agricoli e materie prime. Malgrado le imposte le campagne si arricchiscono e si popolano e ciò permette di accrescere le entrate della imposizione fiscale. Le maggiori entrate fiscali fanno crescere la città, questa a sua volta fa crescere le campagne ecc. Si crea un circolo virtuoso del quale beneficiano tutti ma non in egual misura. Il circolo virtuoso, infatti, si basa sull’ineguaglianza tra élite e uomini comuni, ma anche tra città e campagna, tra coloro che impongono le imposte e coloro che le pagano.

L’approccio culturale del nostro Autore è piuttosto asettico. Lui studia attentamente la storia, osserva la realtà delle cose, cerca di capirne i meccanismi e riferisce solo ciò che è accaduto nel passato e ciò che accade sotto i suoi occhi. Non offre giudizi morali, sicuramente legittima la guerra e la violenza, ma è una violenza indirizzata a fini nobili. Parte dall’assunto che l’uomo è per natura violento e deve essere lo Stato, con la forza, ad incanalare questa violenza naturale verso la creazione di ricchezza e di una civilizzazione più avanzata (che però nasce ai danni di un’altra civilizzazione). La sua è una teoria che scaturisce dalla constatazione dei fatti. Per Ibn Khaldoun la storia non è però solo il racconto degli avvenimenti passati. Lo storico deve sforzarsi di accedere alla verità, spiegare le cause e le origini dei fatti, conoscere a fondo gli avvenimenti. Rimprovera agli storici di riprodurre dei fatti senza procedere ad una critica (esterna ed interna) delle fonti che questi utilizzano. Li rimprovera inoltre, di essere di parte e di riportare degli avvenimenti senza cercare di spiegarli e di riportarli nei loro contesti senza tener conto della differenza dei contesti sociali.

La storia, afferma Martinez-Gros, in molti casi ha dato ragione allo schema kalduniano, in particolare nelle vicende di Imperi come quello romano dell’epoca imperiale, bizantino, cinese e islamico. Dove sembra non verificarsi del tutto, si cita ancora Martinez-Gros, è in Europa. Ciò perché in Europa, dopo la caduta dell’Impero romano, dal VI al XIV secolo, scompare del tutto l’imposizione fiscale statale. Quindi, non vi può essere concentrazione urbana. L’economia europea in quell’epoca, seguendo lo schema di Ibn Khaldun, avrebbe dovuto presentare i tratti caratteristici di una società tribale. In effetti, sino all’anno mille la storia europea sembra seguire lo schema del nostro autore. Dopo l’XI secolo la storia europea sfugge a questo schema. Accade un fenomeno non previsto da Ibn Khaldun: nasce una civiltà urbana, che non è sotto il controllo di uno Stato e quindi non è soggetta ad un’imposizione fiscale statale. L’assenza di un’imposizione fiscale è, probabilmente, la ragione per cui nascono le banche. Gli stati nascenti e le città, per ottenere denaro sono costretti a rivolgersi alle banche. Solo a partire dal XIV secolo la storia europea ricomincia ad adottare lo schema kalduniano: vi è l’imposizione fiscale ad opera di uno Stato. Nasce un esercito professionale e la complessità del suo equipaggiamento produce una forte crescita dell’imposizione fiscale, soprattutto dal XVII al XVIII secolo. Il capitale inizia a crescere più della popolazione (in particolare in Francia), si ha la specializzazione di alcune regioni europee – come la Svizzera – nella funzione militare, seguendo lo schema kalduniano riguardo il ruolo del mondo tribale periferico. Le popolazioni che abitano gli stati vengono disarmate. Ciò che non accade secondo lo schema kalduniano, è la sottomissione totale delle popolazioni europee all’imposizione fiscale e la delega totale della violenza a gruppi “barabari” che abitano i confini dello Stato. I nobili europei non abbandoneranno mai l’esercizio della violenza, in Europa non vi sarà mai una netta distinzione tra guerrieri e produttori (di beni economici e di cultura). In Europa è la stessa nobiltà, talvolta gli stessi uomini, che dirigeranno la Chiesa e lo Stato, il pensiero e la guerra, la penna e le armi.

Con la rivoluzione industriale del XVIII secolo le teorie kalduniane non sono più utili a comprendere ed interpretare la realtà. Ormai la ricchezza non è prodotta solo dallo Stato con l’imposizione fiscale, questa è prodotta anche, se non soprattutto, da una classe di imprenditori che beneficiano della rivoluzione scientifica che si avviò a partire dal XVIII secolo. Vi è una crescita demografica e nascono molte metropoli, che non sono capitali di uno Stato, né la loro ricchezza è legata all’imposizione fiscale statale. Molti Stati inoltre, si dotano di un esercito di leva, sono gli stessi cittadini a divenire guerrieri.

Si può affermare che negli ultimi due secoli il paradigma europeo dello Stato si è affermato nel mondo ai danni dell’impero. Si sono formate delle democrazie armate, spesso aggressive nei confronti del mondo esterno ma attente alle condizioni di vita ed alle opinioni dei loro cittadini. Questi stati hanno rimpiazzato degli imperi profondamente elitisti, estranei ai loro popoli, per necessità arbitrari nelle loro decisioni ma molto prudenti nelle loro relazioni con il mondo “barbaro”. L’impero è pacifico non solo perché teme i conflitti con le tribù confinanti, ma soprattutto perché ripudia la violenza, per la semplice ragione che questa ostacola il processo di fiscalizzazione, d’urbanizzazione e di progresso della prosperità (dell’impero e soprattutto dell’élite al potere). Il paradosso del trionfo dello Stato nazionale sull’impero, è che questo si dimostra più adeguato ad assolvere i compiti che si è dato l’impero. Soprattutto perché, forte della militarizzazione del suo popolo – spesso tradotto in un servizio militare che si generalizza in Europa nella seconda metà del XIX secolo -, non ha necessità di ricorrere ai “barbari”, dei quali con il tempo ha cancellato l’esistenza e le loro funzioni.

Noi ci permettiamo di far notare che ciò è vero in parte, se consideriamo il nostro paese noteremo che l’apparato militare e quello di polizia è stato sempre composto, soprattutto nei ranghi più bassi, da cittadini di provenienza dalle aree geografiche più povere del paese. Generalmente dalla periferia del paese, dove ampie parti non sono mai state integrate nel territorio nazionale o lo sono state in modo subordinato. Negli Stati Uniti molti di coloro che si arruolano nell’esercito sono stranieri, provenienti soprattutto da Stati confinanti agli USA, e lo fanno per ragioni economiche ma anche perché viene promessa loro la cittadinanza.

Ritornando alle popolazioni “barbare”, abitanti nei confini degli imperi, queste sono state completamente cancellate grazie alle rivoluzioni tecniche, all’accumulazione di ricchezze e di popolazione, in aggiunta all’armamento e alla scolarizzazione dei popoli.

Ciò che ora abbiamo sono delle minoranze violente e solidali, nate perché la mondializzazione erode la coesione nazionale e perché le economie di molti paesi sono in crisi (in non pochi Stati lo sono sempre state). Ciò paradossalmente ridà vigore alle teorie kalduniane: la coesistenza dell’autorità pubblica con le riserve di violenza che vengono dalle sue periferie. Si fa riferimento soprattutto ai gruppi islamisti violenti ed ai cartelli della droga nei paesi latino-americani. Paradossalmente l’islamismo, che oltre ad essere violento è anche fortemente ideologico, contribuisce, più di altri, a restaurare nel mondo le condizioni dell’impero (i suoi obiettivi).

Ibn Khaldun continua ad avere ragione? Forse possiamo rispondere di sì, è vero che con la nascita degli stati moderni e democratici le sue teorie appaiono superate ma ora potrebbero riacquistare validità. La società industriale non è più in grado di produrre ricchezza sufficiente per soddisfare le esigenze della popolazione. Pertanto, deve essere lo Stato a ricominciare a creare ricchezza. Se così sarà Ibn Khaldun potrebbe ritornare ad esserci utile.

 

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