Partendo da Odessa

 

di Paolo Maria Mariano

Ci sono molti motivi per comprare libri. Quello principale è leggerli o farli leggere. Degli altri probabilmente non vale la pena parlare. Anche nel caso principale, però, la lettura non è sempre immediatamente conseguente all’acquisto. Quest’ultimo è talvolta impulsivo, suggerito da una frase sul retro della copertina o in qualche pagina aperta a caso, dal consiglio di qualcuno che si stima, espresso sia in forma di recensione sia di dialogo, dalla vulgata pubblicitaria, dall’immagine che accompagna il titolo, dalla percezione tattile del libro stesso, forse da tante altre possibili sollecitazioni. La lettura, quando non è resa obbligatoria da motivi di lavoro e/o di studio, è invece un’esigenza interiore espressa dalla mancanza di un certo tipo di cibo che non s’ingerisce per via orale, ma è l’espressione dei concetti, delle immagini, della musica delle parole. Proprio per questo la lettura di un testo specifico ha bisogno del momento giusto, del tempo in cui il lettore sente, cominciando a scorrere le righe, di essere ricettivo al testo stesso perché esso soddisfa quella “musica” di cui egli/ella ha in quel momento bisogno. E il proseguire nella lettura, diversificando libri e autori, spaziando tra essi anche casualmente, diventa in genere concime, uno strumento che permette di distinguere la qualità in maniera quasi istintiva e porta ad avere bisogno di qualità.

Mi capita spesso di comprare un libro e di leggerlo in un secondo momento, anche dopo averlo cominciato e lasciato lì non per delusione (che comunque talvolta non riesce a mancare anche quando la cultura e l’esperienza aiutano a discernere con un numero limitato d’informazioni: righe lette qua e là), ma perché non era il suo tempo, semplicemente. A volte sono passati anche anni. È successo così, per esempio con Un’eredità di avorio e ambra, di Edmund de Waal, che ho comprato nel 2011, anno della prima edizione italiana, pubblicata da Boringhieri, e che ho letto solo in questa estate del 2014, dopo aver scorso poche pagine l’anno precedente. È stata una sorpresa, superate quelle prime pagine, proprio come accade per quei cibi che si è indecisi se mangiare o no e quando si assaggia un po’ con palese scetticismo, si è invasi dal gusto e si ammira la perizia del cuoco.

Edmund de Waal non è uno scrittore di professione. È un ceramista di fama e di valore, di cittadinanza inglese. È un discendente di una di quelle famiglie i cui membri, nelle successive generazioni, sono stati sempre presenti in maniera non marginale nei luoghi dove si faceva la Storia d’Europa. Non si ammanta di titoli de Waal, sebbene si contino baroni tra i suoi avi, perché non ne ha bisogno: l’ostentazione pomposa di titoli, spesso storicamente ormai inutili, è l’ultimo rifugio di chi condisce di boria la sua inconsistenza; quest’ultima non è un peccato, la boria invece non è scusabile. Per de Waal basta e avanza la sua qualità di ceramista e di scrittore, sebbene le sue prove letterarie si siano per ora limitate a questo saggio narrativo, Un’eredità di avorio e ambra, pubblicato in prima edizione in Gran Bretagna nel 2010, dopo tre anni di gestazione (all’inizio pensava gli bastassero tre mesi), e subito diventato un successo editoriale foriero di premi e di permanenza nel tempo. Ed è proprio la permanenza nel tempo il vero crivello per la massa di carta stampata che è riversata giornalmente nelle librerie. D’altra parte non è la quantità che determina il valore. Può a esso contribuire quando molte sono le opere di qualità, ma non di più.

Il libro era nato da una commissione. Nel giugno 2007 de Waal aveva parlato in un’intervista apparsa sul Guardian del modo con cui erano giunti in suo possesso, per vie di famiglia, 264 netsuke. Sono minuscole statuine, di solito in avorio o in legno, che dal XV al XIX secolo erano utilizzate in Giappone per fermare il cordone di seta che chiudeva la cintura del kimono, dove erano appese piccole borse che sopperivano all’assenza di tasche nel vestito tradizionale. L’intervista aveva suscitato la curiosità di Chatto & Windus, una casa editrice inglese che aveva commissionato un libro sulla storia di questa collezione. Non so se quest’operazione sia stata casuale o organizzata, data la vicinanza all’editoria di due tra i fratelli dell’autore. Comunque sia ne è valsa la pena. La storia della collezione è diventata, infatti, per de Waal un pretesto per parlare della storia della sua famiglia, partendo dal patriarca, Charles Joachim Ephrussi, mercante di granaglie a Odessa, poi banchiere, che mandò i suoi due figli del primo matrimonio nei gangli nevralgici dell’Europa della metà dell’Ottocento (Charles Joachim ebbe altri quattro figli, dopo essersi risposato a settant’anni): Léon a Parigi, Ignace a Vienna, entrambi banchieri, tesi ad estendere e consolidare l’impresa di famiglia. Nel 1860, infatti, gli Ephrussi erano diventati i più grandi distributori al mondo di frumento. Fu uno dei quattro figli di Léon, Charles, il nome del nonno, ad acquistare i netsuke: era il periodo del japonisme, come diceva Philippe Burty, la mania delle cose giapponesi – si voleva dévaliser le Japon (svaligiare il Giappone) e i netsuke, questi bijoux–joujoux lilliputiens, ne portavano interamente il sapore. Charles Ephrussi, da giovane rampollo di una famiglia ricchissima, si dedicò alla critica d’arte e al collezionismo. Scrisse prima sulla Gazette – Courrier Européen de l’art e de la curiosité, poi la diresse. Aiutò gli impressionisti, indirizzò in parte il gusto della società bene dell’epoca, ispirò il personaggio di Swann a Marcel Proust, più di altri, e forse per tutte queste cose fu inviso a Edmond Huot de Goncourt. La collezione viaggiò verso Vienna in occasione del matrimonio di Viktor Ephrussi, cugino di Charles, bisnonno di de Waal, un intellettuale prestato alla finanza. A Vienna i netsuke risiedettero in una vetrina nello spogliatoio di Emmy Schey von Koromla, la moglie di Viktor, di lui molto più giovane, nel Palais Ephrussi, ricco d’arte e di tesori, che Ignace aveva fatto costruire sul Ring e che fu sottratto alla famiglia come tutti i beni, nazionalità austriaca compresa, dalla brutalità burocratica che i nazisti applicarono a tutti gli ebrei. I netsuke furono nascosti in un materasso dalla domestica personale di Emmy, Anna, che sempre rimase a lavorare nel Palais. Intanto tutta la famiglia fu dispersa dagli eventi e poté mantenere i contatti e poi riconsolidare la sua posizione, soprattutto grazie alla prima figlia di Viktor ed Emmy, Elisabeth, la nonna di de Waal. Elisabeth non aveva il gusto della madre per i vestiti, ma possedeva l’intelligenza degli avi, era diventata avvocato e aveva intrattenuto corrispondenza con Rainer Maria Rilke per cinque anni, prima che il poeta perisse. Consegnò i netsuke al fratello Ignace, Iggie per la famiglia, che li riportò a casa in Giappone, dove cominciò una sempre più fiorente attività commerciale dopo la guerra, dopo aver provato a fare lo stilista negli Stati Uniti. La famiglia riprese floridezza nel tempo, animata da un senso del costruire che appare in stridente contrasto con quei modelli propagandati da serie televisive fin troppo ottusamente seguite, nelle quali, purtroppo, la famiglia è rappresentata solo come un ambiente chiuso dove si consumano battaglie per una sterile e presunta supremazia di qualcuno sugli altri membri, piuttosto che essere un organismo che cerca di crescere e migliorarsi. Altro emerge dalla storia della famiglia Ephrussi, questa sì reale, non la stupida invenzione televisiva di alcune serie decennali con attori mediocri che alcuni ascoltatori portano ad esempio delle loro vite. E quella storia concreta è trattata da de Waal con una levità che gli permette di affrontare con grazia straordinaria anche i momenti più tragici o imbarazzanti, essendo per questo letterariamente molto più efficace di quello che sarebbe potuto essere se avesse scelto (ma non l’ha fatto, intelligentemente) una cruda ostentazione come cifra stilistica. Anche da questo si misura il valore dello scritto e la qualità di un autore.

A de Waal i netsuke arrivarono da Iggie, e ora sono in una vetrina di bronzo, alta più di due metri, base di mogano compresa, acquistata da una svendita del Victoria & Albert Museum – de Waal vive a Londra – e per loro (parafraso l’ultima frase del libro) è un nuovo inizio.

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