Tempo del vedere, tempo dell’immaginare

di Antonio Prete

Il paesaggio si dispiega alla vista secondo modi, ritmi, forme che dipendono da colui che guarda. Dallo stato di quiete o dal movimento di colui che guarda. È esperienza comune. Il paesaggio osservato nello stato di quiete -il leopardiano “sedendo e mirando”- ha colori, luci, forme diverse da quelle che trascorrono nel paesaggio osservato da un soggetto in movimento. Di conseguenza anche l’ordine e la natura dei pensieri è diversa. Più il nostro corporeo movimento è veloce, più il pensiero delle cose tende a sfuggire, a sperdersi, a dissolversi nel nulla. Più il nostro movimento dinanzi al paesaggio è lento, più la percezione ha tempo per accogliere le cose,  accompagnarle col pensiero: il tempo della custodia, e dunque della memoria, si alimenta di questa percezione. Insomma, il piacere della vista ha un suo proprio tempo, un suo proprio ritmo. Non a caso, quando l’avanguardia futurista italiana esaltò la velocità, intendeva introdurre una rottura proprio nelle forme della percezione, nel tempo del pensiero, nella scrittura stessa: niente di particolarmente significativo nacque, sul piano della poesia, da quelle affermazioni programmatiche. Così, se Marinetti su “Lacerba” inneggiava all’immaginazione senza fili e alla velocità, Ungaretti, sulla stessa rivista e altrove, dilatava il tempo della parola, accoglieva i silenzi nel cuore della parola. Artificio esteriore il primo, straordinaria esperienza poetica, la seconda. Il tempo della poesia, infatti,  accoglie nella parola una “seconda vista”, come Leopardi aveva osservato (“dietro quella torre, un’altra torre…”). Questa “altra vista” suppone il rapporto con l’oggetto della prima vista, e un rapporto esige un suo tempo di percezione.

E’ vero che l’arte davvero novecentesca è il cinema, cioè un’arte fondata sul movimento, sul movimento delle immagini. Ma si tratta di un movimento che, attraverso il tempo successivo della proiezione, restituisce alla vista il tempo naturale e il ritmo della percezione, o la sua illusione, mostrando inoltre una grammatica della temporalità complessa e libera. Il cinema, poi, è un vedere secondo, il riflesso di un vedere, una scrittura per immagini, “lingua scritta dell’azione”, diceva Pasolini. D’altra parte anche questa arte, fondata sul movimento delle immagini,  richiede allo spettatore uno stato di quiete, di concentrazione della vista.  In questo si affianca a tutte le arti dette visive. Se invece ci muoviamo noi dinanzi all’immagine e non l’immagine dinanzi a noi, si sconvolge il tempo-spazio della percezione.

Se queste brevi premesse –fondate solo sul buon senso e non su considerazioni d’ordine scientifico-  hanno una qualche plausibilità, allora si potrebbe delineare una gradazione in quello che usiamo chiamare piacere della vista, una gradazione in rapporto alla maggiore o minore naturalezza dello sguardo, in rapporto all’equilibrio tra tempo della percezione e movimento del soggetto che guarda.

L’elenco -o la gradazione-  si aprirebbe con le forme di contemplazione del paesaggio che si svolgono a partire da uno stato di quiete. La storia dell’arte e della letteratura, e l’esperienza di ciascuno, potrebbero dispiegare un ventaglio estesissimo di esempi. Eccone due soltanto, classici, notissimi.  Il romantico Friedrich di un famoso “olio su tela”: il Viandante che dalla roccia osserva  il paesaggio di monti e nebbie (ma, dello stesso anno, 1818, sono anche la Donna che osserva il tramonto del sole, anche lei in piedi, immobile, con la vista rivolta al paesaggio di luce osservato dall’ombra e Le bianche scogliere di Rügen, dove le rocce e il mare sono  osservati da un uomo appoggiato al tronco di un albero). Il Leopardi de L’infinito, la poesia della nostra lingua più tradotta nel mondo: ogni ritorno interpretativo su quei versi svela ogni volta nuovi impensati sensi (a me così è accaduto, e così credo accada a molti). Il rapporto con la natura –dalla contemplazione all’osservazione alla mimesi– ha all’origine questa condizione se non di immobilità del soggetto che guarda, almeno di quiete e di concentrazione.

C’è poi il cammino, il tempo e l’arte del cammino. Il pellegrinare, con tutte le varianti medievali compendiate nella mistica peregrinatio, cerca attraverso lo sguardo sul paesaggio un accesso al teatro dell’interiorità. Oppure cerca -secondo un percorso proprio dell’ascesi- nel visibile il passaggio verso l’invisibile: per visibilia ad invisibilia. Il capolavoro della poesia occidentale, fondato su fonti latine, patristiche, arabe, cioè La Divina Commedia, è la rappresentazione di una grande peregrinatio.

All’origine della narrazione occidentale c’è, nel Medioevo, la diffusione mediterranea degli hadit, cioè dei racconti nati e tramandati lungo i pellegrinaggi che muovevano verso la Mecca.  Il romanzesco, l’avventuroso -medievale e poi moderno- nasce, dunque,  da un cammino. E nelle Mille e una notte confluiranno molte di queste storie nate per via, o lungo le soste, nelle tende, negli incontri casuali. Un film come  La via lattea di Buñuel avrebbe raccolto e interpretato alcuni particolari della grande storia di un pellegrinaggio, quello verso Santiago de Compostela.  E pensiamo, inoltre, a come per le culture nomadi sia stata e sia connaturale la  narrazione: incantamento e interrogazione legate all’ affabulazione. Alcune delle innumerevoli varianti occidentali del cammino: dalla memorabile lettera di Petrarca sull’ascensione del Monte Ventoso alle descrizioni della passeggiata (da Jean Jacques Rousseau a Robert Walser c’è una declinazione contemplativa, interrogativa, visiva ma nache per così dire metafisica della passeggiata).

Nella modernità prende rilievo la dimensione metropolitana del cammino. Nei Fiori del male, nella sezione dedicata a Parigi (Tableaux parisiens), Baudelaire  inaugura  la poesia moderna come poesia metropolitana: il poeta si muove nella folla, è il nuovo flâneur che si lascia sorprendere dalle apparizioni, cerca continue aperture di un tempo altro, di un tempo interiore, che è azzardato e sfiora l’impossibile, un tempo che ferisce e contraddice il tempo della modernità inteso come tempo della ripetizione, del sempreguale. La passante baudelairiana: alta, in lutto, sovranamente fende l’anonimia della folla, e con il lampo di uno sguardo dischiude un tempo insieme impossibile e vero. Energia di un’esperienza non vissuta che diventa più forte dell’esperienza vissuta. Proust avrebbe poi declinato in tanti modi la passante di Baudelaire. Avrebbe fatto della “fuggitiva” la figura che annuncia altre figure del tempo, anzi il passaggio del tempo stesso: “e le case, le strade, i viali, sono, ahimè, fuggitivi, come gli anni”. Ma è già il Proust che non solo mostra le relazioni con il paesaggio dischiuse nella passeggiata –quando svoltare dalla parte dei Guermantes significa incontrare le linee di un paesaggio noto- ma che descrive, tra i primi, il mostrarsi e il fuggire degli alberi alla vista di chi si muove in automobile. Il fuggitivo mostra dalla carrozza prima e dalla automobile poi ancora di più la sua evidenza, il suo patto con la sparizione. Ma si tratta, all’epoca di Proust, di una velocità non molto superiore a quella della bicicletta. Una velocità ancora compatibile con una percezione che riesce a cogliere le linee e le forme del paesaggio, degli alberi, dei campanili e le può contornare di un pensiero, accoglierle, distinte, in un pensiero (il campanile di Combray può così levarsi leggero nella memoria, come le case di  Balbec o di Méséglise, come le acque della Vivonne).

Anche la vista dal treno ha una sua straordinaria letteratura, e innumerevoli sono le descrizioni “fuggitive” del paesaggio, ma sono spesso le luci, i bagliori sul mare, le vele, le nuvole, il trascorrere di città o di laghi o di fiumi che dal treno si possono percepire. E’, diciamo, la lontananza, che si può accogliere nel pensiero.  Il farsi lontananza del paesaggio, la sua irreversibile fuga.

Infine, l’ aereo. Poco più di un mese fa, ero in viaggio da Parigi verso Città del Messico. Nell’aereo un piccolo monitor, posto sulla spalliera del sedile che m’era dinanzi, indicava la linea della rotta con un segno bianco: il disegnino aveva la forma di un aereo che si muoveva sopra la carta geografica. Una sorta di astratta mise-en-abyme. La linea saliva, di ora in ora, pianissimo, dall’Islanda verso il sud della Groenlandia, attraversava il Mare del Labrador, poi forse la baia di Hudson e scendeva verso l’Ontario e così via virando verso il Sud. La rappresentazione virtuale della percorrenza in atto era di tanto in tanto sostituita sul monitor da alcuni dati: altitudine del volo, velocità del mezzo, distanza dalla città di  partenza e da quella d’arrivo. Guardando la superficie della terra di là dal monitor, attraverso il finestrino,  l’immaginazione poteva costruirsi a partire dal pochissimo visibile, paesaggi terrestri e marini, distese immense di ghiaccio, solchi di navi abbagliate dall’azzurro, ombrose cascate, foreste inabitate dall’uomo, deserti. Ma non era molto diverso, quel processo immaginativo, da quello di chi osservando le mappe di un paese o di un continente si lascia invadere da una vista tutta mentale. Era sparito il rapporto, il dialogo con il paesaggio. Sparita la dimensione sensibile del vedere.

Il lettore che è giunto fin qui ha ragione di chiedersi quali sono, in questo catalogo, le forme del vedere preferite da colui che scrive. Ma forse non se lo chiede perché era già detto tra le righe. Sono la passeggiata, campestre, montanara o cittadina che sia, e l’andare in bicicletta. Forme che, per fortuna,  la più accelerata modernità non ha ancora abolito.

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