Ritorno alla critica. Sui “Sentieri nascosti” di Antonio Lucio Giannone

di Fabio Moliterni

La natura profondamente dialogica della scrittura critica di Antonio Lucio Giannone, ordinario di Letteratura italiana contemporanea all’Università del Salento, emerge dal suo ultimo lavoro pubblicato nel 2016 da Milella, dal titolo Sentieri nascosti. Studi sulla letteratura italiana dell’Otto-Novecento. Si tratta in prima battuta di una disposizione al dialogo di natura metodologica, che investe le ragioni stesse e l’aspetto “etico” della ricerca nel campo degli studi e della saggistica letteraria, perché il critico riesce a tenere aperto e produttivo lo scambio tra la divulgazione e il rigore scientifico, la lettura fenomenologica dei testi letterari presi in esame e l’orizzonte più ampio della storia culturale nell’Italia tra Otto e Novecento. Nei Sentieri nascosti il restauro critico-documentario e il lavoro filologico si saldano alla chiarezza espositiva e al rigore “pedagogico” della scrittura, e questo intreccio, misurabile in ogni pagina, si configura come uno dei fili rossi che tiene assieme una rassegna di contributi dedicati a diversi scrittori e scrittrici della modernità letteraria, a una varietà di forme e generi letterari che spaziano dalla memorialistica risorgimentale di Sigismondo Castromediano ai rapporti epistolari tra Ada Negri e Michele Saponaro, da un romanzo giovanile di Bodini o dai reportage dalla Puglia di Anna Maria Ortese alla poesia dialettale di Nicola De Donno, dalla prosa narrativa di Rina Durante agli studi di tre grandi critici meridionali come Luigi Russo, Mario Marti e Donato Valli.

L’impostazione multifocale del lavoro di Giannone riguarda in seconda istanza l’orientamento geo-storico che lo guida in questi sondaggi critici, pubblicati in varie sedi e pensati per lo più in occasione di convegni e incontri di studio e ora raccolti in volume. L’attenzione dell’italianista si concentra infatti sulle zone in ombra del Canone letterario otto-novecentesco, appunto sui “sentieri nascosti” e non sulle strade maestre percorse spesso per inerzia e per puro spirito erudito dagli studiosi, sulle scritture e gli autori spesso ingiustamente considerati minori, esclusi dalle storiografie per così dire ufficiali. Si prenda come esempio il trittico dedicato all’opera di Sigismondo Castromediano, che Giannone colloca non solo nel variegato filone della memorialistica risorgimentale di tema carcerario, accanto alle scritture ampiamente canonizzate di Pellico e Bini, Settembrini e De Sanctis, non soltanto facendola dialogare nell’ambito di quella (misconosciuta) fioritura di autobiografie carcerarie di area meridionale, da Nicola Palermo e Antonio Garcea al brindisino Cesare Braico e il campano Nicola Nisco, ma riportandola anche in un orizzonte temporale a noi più vicino, prendendo spunto da un romanzo, un po’ trascurato fino a qualche anno fa, di Anna Banti, Noi credevamo (1967), che tra l’altro è stato il palinsesto dal quale è partito Mario Martone per il suo affresco cinematografico (2010), direbbe Giannone, dedicato all’“epopea risorgimentale nel Sud”. Ed è anche il caso del romanzo giovanile di Vittorio Bodini, Il fiore dell’amicizia (1942-1946), dalla complessa storia redazionale ed editoriale ricostruita con precisione dal critico, il quale con eleganza rintraccia nelle acerbe campate narrative dello scrittore salentino tessere figurali e immagini che rimandano alla tradizione del romanzo di formazione, o metafore intertestuali che si ritroveranno nelle altre prose e soprattutto nella poesia bodiniana (in particolare in riferimento al rapporto di odio/amore che lo legava alla sua città). Come anche nell’analisi del romanzo di Rina Durante, La malapianta (1964), del quale Giannone offre oggi una rilettura rinnovata di carattere per così dire trans-mediale, in linea con la vivacità e con l’eclettismo della storia intellettuale della scrittrice di Melendugno, mettendone in circolo gli aspetti meno visibili di una riflessione negativa intorno al destino umano, al di là di ogni facile realismo, con i maestri del cinema consacrato ai temi del disagio esistenziale come Ingmar Bergman e Michelangelo Antonioni.

È grazie a questo percorso polifonico nella modernità letteraria, tra Otto e Novecento, che i testi si legano al contesto storico (e viceversa), le province letterarie dialogano con i centri culturali, e vengono superate con successo le angustie del gergo astruso e specialistico. Il lavoro critico di Giannone si presenta insomma come un’indicazione di metodo per il futuro, un antidoto al vuoto “etico” e alle strettoie dell’erudizione esasperata e del filologismo troppe volte fine a se stesso.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, sabato 3 giugno 2017]

 

 

 

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