Su un ‘Libretto rosso’

di Fabio D’Astore

Il graditissimo invito a offrire un contributo per l’allestimento di un volume in occasione del primo secolo di vita del Maestro Marti, mi riportò subito ad un venerdì dell’ormai lontano novembre 1975, quando, nella gremita aula n. 5 di palazzo Casto, cominciava il mio cursus studiorum universitario con la prima lezione di Letteratura italiana, tenuta dal titolare dell’insegnamento, prof. Mario Marti, il quale, appena entrato, dopo il buongiorno, rivolse a noi studenti, con tono bonariamente perentorio, un “invito”1 e, immediatamente, una domanda: «Secondo voi, il pensiero critico, specie quando si tratta di esprimere un giudizio, è in qualche maniera influenzato dall’ideologia, dalle convinzioni politiche, religiose, civili del critico?».

Comprensibile lo smarrimento! Poi, alcuni timidi, abbozzati tentativi di risposta, accolti con disponibile sorriso dal domandante. Tra i non molti, il mio: «Professore, se, ad esempio, un critico è di sinistra, di scuola marxista, probabilmente guarderà all’opera in maniera diversa, credo, da come farebbe un altro, di formazione crociana o di altra estrazione».

«Beh! Ecco, lui [io] ha aperto, come dire, una piccola via», disse il professore.

Mi fece piacere, ma non capii. E, d’altra parte, chi avrebbe potuto sospettare che quella che sembrava una innocua domanda, formulata come a rompere il ghiaccio, avrebbe dato l’abbrivo ad un complesso -molto complesso- percorso, che avrebbe occupato la prima parte del corso monografico di quell’Anno Accademico, tutto incentrato sui fondamenti epistemologici della critica letteraria e su specifici aspetti di metodologia e volto a definire le coordinate entro le quali collocare la funzione del critico, anche alla luce dei radicali e significativi cambiamenti della critica dopo la stagione del crocianesimo?

Giova sottolineare subito che siffatte analisi e riflessioni si sarebbero inverate, nel corso della seconda parte dell’anno, nell’Indagine sui primi idilli di G. Leopardi2 e poi, l’anno successivo, nei due volumi intitolati La storia dello Stil Nuovo3 e ancora, nel 1978-’79, nelle Opere di Rogeri de Pacienza4, primo volume della Biblioteca salentina di cultura, divenuta in seguito Biblioteca di scrittori salentini, ponderoso progetto editoriale fortemente voluto e realizzato da Marti e da lui diretto.

I fondamenti epistemologici della scienza critica erano tutti perentoriamente fissati in un saggio dell’allora cinquantenne Mario Marti, apparso, or sono cinquant’anni, in «Lettere italiane», intitolato Il mestiere del critico, letto come prolusione nell’aula magna dell’Università di Lecce il 28 febbraio di quello stesso 1964, in occasione dell’ingresso nei ruoli universitari del suo autore, e assunto poi ad eponimo di un volume comprendente altri tre studi precedenti: Critica letteraria come filologia integrale («L’Albero», 1949); La ricerca stilistica («Nuova Antologia», 1960); Realtà biografica e schemi letterari («Cultura e scuola», 1962), pubblicato nel 1970 nella Collana Minima, per i tipi dell’editore Milella di Lecce5. Poi, a distanza di vent’anni, nel 1990, questi studi confluirono in Critica letteraria come filologia integrale6, una vera e propria summa methodologica, arricchita da altri tre significativi contributi (L’epistolario come “genere” e un problema editoriale, già apparso in «Studi e problemi di critica testuale», 1961; Il “Minore” come crocevia di cultura, già uscito nel volume che raccoglieva gli Atti del Convegno su Il “Minore” nella storiografia letteraria, 1964; L’esegesi e l’edizione del testo, pubblicato nella miscellanea La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro, 1985, raccolta degli Atti del Convegno organizzato a Lecce nel 1984) e d’una preziosa Appendice: L’ultima lezione, letta nell’aula Ferrari dell’Università di Lecce (31 ottobre 1984), in occasione del “fuori ruolo” di Marti. Questa e quelli «sempre stimolati e promossi dalla forte esigenza di riconoscere una finalità al mestiere del critico, anche mediante l’accertamento della validità dei suoi strumenti di lavoro e a comprova di una diuturna fedeltà»7.

Certo è che nel 1975 cominciò a circolare tra noi studenti un volumetto rosso (Il mestiere del critico, appunto), che, ben presto, per facile affinità con un altro libretto rosso, allora probabilmente più conosciuto, presi a definire “il libro rosso di Ma(o)rti”. All’epoca, il pubblico degli studenti al Mestiere del critico guardava con indifferenza, quasi subito divenuta fastidio per alcuni, pungolante stimolo per altri, per la densità e le difficoltà che immediatamente si coglievano in talune problematiche:

«Che cos’è la critica? A che serve la critica? Ha essa un senso, uno scopo? Che senso ha dunque questo difficile e rischioso e, tuttavia, non poco vano e provvisorio mestiere del critico?».

Qualche tempo dopo, in verità, quelle prime difficoltà si mutarono in vere e proprie insidie, specie per chi aveva creduto, in un primo momento, di potersi cimentare agevolmente col «difficile e rischioso e, tuttavia, non poco vano e provvisorio mestiere del critico»: il Mestiere cominciava a profilarsi con ogni evidenza irto di difficoltà, non propriamente accessibile, inutile, se non proprio dannoso, quando esercitato con superficialità e approssimazione. Sempre appassionati i dibattiti, che in ogni epoca hanno visto coinvolti intellettuali e studiosi, sulla ciclica e ricorrente ‘crisi’ della critica, prontamente smentita, a dire il vero, da altrettanto ciclici e, anzi, sempre più numerosi convegni, seminari, incontri, dibattiti, tesi a fare il punto della situazione e ipotizzare prospettive. Insomma, ad ogni riacutizzarsi della presunta ‘crisi’ (sulla «critica situazione dei critici» e, quindi, della ‘critica’ scriveva, ad esempio, Montale in un memorabile articolo del 21 luglio 1963 apparso sul «Corriere della sera»), le mai risolte -e probabilmente irrisolvibili- querelles sulla funzione, lo scopo, l’utilità della critica; sul ruolo dei critici; sui rischi e le difficoltà del Mestiere del critico risvegliano l’interesse degli appassionati.

Ciò che mostra con tutta evidenza la vitalità di un Mestiere che, se si adagiasse su posizioni conseguite una volta per tutte e le considerasse definitive, verrebbe meno al suo compito precipuo e lo priverebbe di quella «buona percentuale di rischio e di provvisorietà»8, che per molti aspetti costituisce la sua stessa linfa vitale. Che per il critico vuol dire essere attento e disponibile a cogliere eventuali ‘barlumi di verità’, senza però -si badi bene- lasciarsi mai aller au grè du vent, bensì operando sempre secondo «una organica visione del mondo, la quale dia un senso e un centro alla sua attività»9:

 

Tante filosofie, tante estetiche, tante critiche letterarie; la critica crociana tradizionale, il crocianesimo dei revisionisti, la critica storicistica, la critica semantica e dei campi semantici, la critica fenomenologia, la critica simbolica e simbolistica, la critica psicologica e psicanalitica, la critica formalistica, la doppia o tripla critica marxistica, la critica stilistica, che a sua volta viene distinta in descrittiva, interpretativa e storica, la critica filologica ed erudita, indicata talora anche come neo-positivistica, la critica esistenziale, la critica variantistica, la critica strutturalistica, la metacritica, e, nei riguardi dell’arte d’avanguardia, la critica dell’opera aperta, la critica dell’opera in movimento… Tanti sono i modi della critica perché tanti sono i volti della crisi che ci vede spettatori e protagonisti. Eppure è da credere che in ognuno di quei modi traluce almeno un barlume di verità, perché ognuno di essi nasce da esigenze vive, e ci riporta infine ad una integrale ed organica visione del mondo, in sostanza ad una filosofia10.

 

Dunque, “critica letteraria come filologia integrale”, perché, ammesso «che l’opera d’arte è un certum fra gli altri, e che in essa s’annida la verità, così come in ogni altra manifestazione dell’attività umana, ne consegue che la critica si risolve in integrale filologia», nel senso che il Mestiere del critico «deve allargare i propri interessi fino a comprendere quelli dello storico, nel senso più ampio del termine, perché l’arte non può essere adeguatamente intesa senza che venga inteso il contesto vichianamente filologico, nel quale opera vivamente ed attivamente»11.

Valgono ancora siffatti fondamenti etico-epistemologici -qui forse troppo schematicamente indicati (non me ne voglia il Maestro)- oggi? Alla luce, ad esempio, dell’articolato e appassionato dibattito che riguarda i rapporti tra critica e nuovi strumenti tecnologici?

Nel corso del fondamentale Convegno internazionale tenutosi a Roma nel maggio del 1998, dedicato ai Nuovi orizzonti della filologia, promosso dall’Accademia nazionale dei Lincei in collaborazione con l’Associazione Internazionale per gli Studi di Lingua e Letteratura Italiana (AISLLI) e i cui Atti sono stati raccolti in volume12, autorevolissimi partecipanti, italiani e non, hanno dibattuto intorno al magmatico rapporto tra strumenti/sistemi informatici e ricerca scientifica; rapporto non nuovo, in verità, come metteva in rilievo V. Branca già sin dalle Parole di saluto, ricordando altri precedenti Convegni dedicati e perentoriamente ammonendo:

 

Oggi la nostra preoccupazione, l’angoscia di tutti noi che usiamo questi mezzi, è che ne vediamo la forza e l’insostituibilità sì, ma non riusciamo a superare la preoccupazione di un’eccessiva facilità -per non dire faciloneria- che può provocare proprio paralisi nella ricerca scientifica di ogni disciplina13.

 

L’obiettivo dichiarato del Convegno, date queste premesse, consisteva nel tentativo di «verificare le nuove, indubbiamente sterminate possibilità che offrono questi nuovi mezzi, ma nello stesso tempo, vederne i limiti e studiare come si possano dominare»14.

Il dibattito non era nuovo -lo si è già detto-, né, ovviamente, risultò definitivo: ancora oggi le posizioni risultano distanti e non facilmente conciliabili. La questione di fondo si può così riassumere: è possibile riconoscere autonomia all’informatica umanistica?

Coloro che si dichiarano convinti in tal senso fanno risalire le prime ‘intuizioni’ a tempi remoti, ben prima della diffusione su ‘larga scala’ dei sistemi informatici: tra il 1946 e il 1949 il gesuita Roberto Busa approntò un ponderoso Index Thomisticus, con oltre 20.000 lemmi, utilizzando una macchina di calcolo per lo studio linguistico delle opere di San Tommaso. Poi, dopo le prime esperienze italiane, il dibattito sull’informatica umanistica si diffuse soprattutto nei paesi anglosassoni. Computer and the Humanities (1966) fu la prima rivista interamente dedicata all’argomento; tra il 1972 e il 1978, nacquero le prime associazioni di docenti e studiosi di materie umanistiche, sensibili alle prospettive sollecitate dall’uso dei mezzi informatici: la Association for Literary and Linguistic Computing (ALLC), la Association for computer and the humanities.

Tutto ciò, però, non bastò a conferire autonomia all’informatica umanistica, tanto da indurre Tito Orlandi, Gino Roncaglia, Pasquale Stoppelli, Nicola Tangari e altri illustri studiosi a sottoscrivere una proposta per l’istituzione di uno specifico settore scientifico-disciplinare, Informatica applicata alle discipline umanistiche, da inserire nell’area 10 (Scienze dell’antichità, filologico-letterarie e storico-artistiche) e nell’area 11 (Scienze storiche, filosofiche, pedagogiche e psicologiche)15. Dopo un lungo e faticoso iter, con D.M. del 18 marzo 200516, si determinò una modifica di alcuni settori disciplinari, con esplicito riferimento agli studi condotti con metodologia informatica nel settore L-FIL-LET, da L-FIL-LET/01 (Civiltà egee) a L-FIL-LET/15 (Filologia germanica). Ma, com’è ovvio, il D.M., emanato probabilmente anche in conseguenza dell’entusiastico fervore nei riguardi dell’informatica e della tanto auspicata diffusione delle nuove tecnologie su ampia scala, non risolse i problemi. Intanto, cos’è l’informatica umanistica, di cosa si occupa, quali sono i suoi limiti?

Secondo il Ferrarini, l’informatica umanistica è «la disciplina che studia l’applicazione del modello computazionale proprio dell’informatica alle discipline umanistiche, tanto con riguardo ai risultati della ricerca scientifica così conseguibili, quanto con attenzione alle innovazioni metodologiche indotte»17. Dunque, ricerca umanistica e innovazioni metodologiche: e fin qui, mi pare, niente di nuovo. Ma, secondo il Ferrarini, il termine informatica implica la natura epistemologica della disciplina, cioè un modo diverso di osservare il reale secondo il criterio di computabilità; un criterio epistemologico secondo il quale, «per essere trattato in modo informatico, un problema scientifico o una teoria devono essere descrivibili nella forma di un algoritmo, devono cioè essere soggetti a calcolo automatico»18. Cosicché, l’informatica umanistica si connoterebbe come una nuova scienza, non come la vecchia scienza dotata di nuovi strumenti di lavoro. Ad esempio, D’Arco Silvio Avalle evidenziava l’irrinunciabile contributo che i computer offrivano alla risoluzione dei problemi e sottolineava come essi permettevano la ‘rivelazione’ di altri problemi, mai intravisti19. Sulle stesse posizioni, altri studiosi (ad esempio, R. Mordenti, T. Numerico, A. Vespignani), tutti, però, più o meno concordi nel riconoscere che taluni obiettivi -questi davvero non nuovi: datare, localizzare, restituire l’opera secondo le ultime volontà dell’autore-, sebbene affrontati con nuove tecnologie, non potranno da queste essere risolti per la semplice considerazione che non appaiono ‘computabili’. Insomma, afferma saggiamente Ferarrini, se la «collatio può essere trattata con procedura computazionale, ossia attraverso la messa a punto di una strategia di calcolo automatico, il valore da assegnare alle singole varianti, il ritrovamento di una citazione allusiva, l’integrazione del testo attraverso una congettura sono problemi non computabili, in cui sussiste, oltretutto, la grande maggioranza del lavoro del filologo»20.

Meno male, verrebbe da dire, specie se si considerano le posizioni di altri studiosi come, ad esempio, G. Gigliozzi, convinto assertore della possibilità di creare un metodo scientifico di indagine linguistico-letteraria attraverso un attento studio delle parole e delle regole che le tengono unite e l’applicazione di tale studio ad ogni singolo autore, in modo da analizzare statisticamente l’uso che egli ne fa nelle sue opere21. Prospettiva definita da C. Cadioli, altro studioso attento agli sviluppi dell’informatica umanistica, ‘utopistica’, legata all’idea di oggettività della critica letteraria di matrice positivistica22; allo stesso modo, Ferrarini, Roncaglia e altri, pur nella diversità delle posizioni, sottolineano l’importanza e l’utilità dei mezzi informatici per i processi logico-matematici (ad esempio, per il rilevamento statistico delle varianti e la loro distribuzione nei testimoni), ma non per gli elementi interpretativi: insomma, il computer legge molto velocemente ciò che è evidente, ma non è in grado di proporre interpretazioni di tali evidenze, le sottigliezze, le ambiguità, l’ironia e quant’altro costituisce l’essenza di un testo, di un’opera, di un autore.

E allora: gli studiosi di discipline umanistiche imparino a sfruttare le risorse informatiche, le quali, come tali, non possono sostituire la capacità di confronto tra testimoni, di interpretazione delle varianti, di lettura secondo le coordinate di diacronia e sincronia e, insomma, tutto il corredo filologico del quale ogni critico dovrebbe tener conto per la sua analisi e i suoi giudizi. Né lo studioso di discipline umanistiche tenti di «riciclarsi informatico»23; insomma, come ricordava W. Benjamin, i primi fotografi non furono i tecnici, esperti di ottica e di macchine, bensì gli artisti e i pittori che s’impossessarono delle nuove tecnologie e apportarono la loro creatività e le loro conoscenze artistiche24: occorre che gli umanisti s’impossessino delle nuove tecnologie e le ‘usino’, senza farsi ‘usare’. E, dunque, oggi più che mai, il critico conviene che non sia «artifex additus artifici, né philosophus additus artifici, né philosophus additus sibi ipsi»25, né -mi sia consentito di aggiungere- peritus arte informatica additus artifici, quanto piuttosto un «vichiano philologus»26.

Dom Henry Quentin, studioso della tradizione dei testi biblici in latino, propose la rinuncia alla valutazione qualitativa delle varianti, per operare elaborazioni statistiche solo sui dati quantitativi, giacché ciò sarebbe stato sufficiente ad ottenere delle tabelle statistiche costruite sulla totalità delle varianti; le quali, messe tutte sullo stesso piano, avrebbero indicato la vicinanza e la lontananza di un codice dall’altro27. Va da sé che siffatta prospettiva, basata solo sul confronto delle varianti attraverso elementi statistici, trascurando ogni valore qualitativo delle varianti stesse, limita l’intervento del filologo ad una mera presa d’atto di dati e, per fortuna, non ha avuto seguito.

Non sono mancati, tuttavia, tentativi di mediazione, per così dire, tentativi di compromesso tra i due metodi, quello quantitativo di Quentin e quello qualitativo tradizionale, come, ad esempio, la proposta di ripartire dai ‘diasistemi’, formulata da T. Orlandi28; ma è chiaro che se il computer, da un lato, permetterebbe di ottenere una panoramica, completa e in breve tempo, a proposito della tradizione del testo; dall’altro, non sarebbe in grado di analizzare e interpretare i modelli, né tanto meno, quindi, proporre l’edizione critica del testo, intesa a restituire l’opera secondo le ultime volontà dell’autore. A meno che non si consideri -come appunto fa Orlandi- quello di edizione critica un «concetto nato con l’affermarsi della tecnica della stampa» e, quindi, come tale, bisognoso di uno spazio limitato, il libro, che, però, a suo dire, non è il testo29. Allora, la prospettiva diventa quella di edizioni ‘aperte’ e il critico, piuttosto che tentare di giungere ad un testo definitivo, si limiterà a rappresentare la sua evoluzione nel tempo, le sue diverse fasi di realizzazione: di «testo fluido» parla D. Buzzetti30; cioè, di testo dinamico, in cambiamento continuo, che il filologo dovrebbe semplicemente limitarsi a ‘rappresentare’. Bella soddisfazione! Non più edizione critica, finita nel contenuto e nella forma, bensì edizione critica informatica, cioè ‘aperta’, ‘fluida’, ‘dinamica’. Sono andato a controllare31 poco tempo fa, per verificare l’esattezza di alcuni riferimenti operati da un laureando, il lavoro che, secondo lui, «grazie al supporto informatico», ha permesso «di ricostruire e presentare il complesso apparato genetico-evolutivo» niente meno che di A Silvia di G. Leopardi. Bellissime le immagini in alta definizione, ma…: «Questo è quel mondo?» mi venne da pensare! Delusione! Qualche semplice annotazione e nessun tentativo di interpretare aggiunte, correzioni, rifacimenti: ad esempio, che so, perché pensosa invece di pudica; percorrea e non percotea?

Sia ben chiaro: non si vuol negare l’evidente vantaggio che i mezzi elettronici offrono agli studiosi, soprattutto in termini di tempo e quantità di dati raccolti. Così, ad esempio, immettendo in un computer tutte le edizioni, vivente l’autore, del romanzo Il marito di Elena (1882), ho ottenuto una tavola sinottica, a partire dalla pubblicazione a puntate su «Capitan Fracassa»: non risultano differenze. Poi, ho ritenuto opportuno controllare il manoscritto autografo conservato presso la Biblioteca universitaria di Catania con segnatura Ms.U.239.83, già segnalato e descritto da F. Branciforti32 e, più di recente e in maniera ancor più dettagliata, da T. Iermano33. Come già acutamente notato da G. Rizzo, il manoscritto della Biblioteca universitaria di Catania «rappresenta le ultime volontà dell’autore e attesta un faticoso e complesso percorso correttorio talora ricostruibile per qualche utile e interessante considerazione, […] se si eccettuano le prime tre pagine, con poche correzioni e con la sola numerazione finale, evidentemente perché riscritte in bella copia subito prima della consegna del manoscritto»34.

Ebbene, soffermiamoci brevemente proprio sull’inizio del romanzo, in particolare sulle parole pronunciate dalla madre di Elena, donn’Anna, dopo aver appreso la notizia della fuga della figlia. Da un confronto tra le varie edizioni e il manoscritto, ecco il risultato:

 

Edizioni a stampa Manoscritto

 

Donn’Anna, accosciata sul letto, seguitava ad inveire. «È stato Cesare! Bisogna andare dal Commissario e dirgli che Cesare ci ha rubata la figliuola, e andrà in galera se non la sposa!»35 Donn’Anna, accosciata sul letto, seguitava ad inveire. -È stato Cesare! Bisogna andare dal Commissario e dirgli che Anselmo ci ha rubata la figliuola, e andrà in galera se non la sposa!

Come si vede leggendo al f. 2 del manoscritto, il nome del protagonista, anche se a brevissima distanza, varia: prima Cesare, poi Anselmo (il corsivo è nostro); a ciò va aggiunto che la rielaborazione digitale al computer e, soprattutto, l’analisi diretta del manoscritto permettono di cogliere un particolare: Cesare è scritto su Anselmo. Facile pensare che il nome scelto per il protagonista fosse Anselmo; meno scontate le motivazioni del cambiamento. Forse, il Verga aveva pensato di affidarsi al collaudato ‘schema parentale’ presente nei Malavoglia (Padron ‘Ntoni – ‘Ntoni) e riproporlo, con tutte le implicazioni, nel Marito di Elena (il canonico zio Anselmo – Anselmo); poi, forse anche per lo scarso favore con cui era stato accolto il primo romanzo e per una serie di altre considerazioni -ma qui rischieremmo di dilungarci troppo e finire fuori tema-, decise, come dire, di allontanarsi almeno in parte dallo schema.

Certamente, dall’esempio su riportato, sono innegabili le agevolazioni introdotte dall’uso del computer: risparmio di tempo (la collatio tra le varie edizioni risulta rapida e sicura) e la possibilità di vedere sullo schermo, in alta risoluzione, le immagini del manoscritto autografo. Ma tali agevolazioni materiali facilitano buone edizioni critiche? La risposta dovrebbe essere affermativa, se la quantità di tempo e di fatica, diminuita dal lavoro meccanico, venisse investita con calma, lucidità e metodo sui dati raccolti in maniera esauriente.

Cioè: è sufficiente prendere atto delle varianti? Il filologo è colui che nota e segnala le varianti? Per carità, è già meritorio. Forse, però, non basta. Mi vengono in mente le parole di E. Raimondi:

 

Certo, oggi piace a molti, come forse non accadeva in passato, di usare un termine quale «filologico». Quando si vuol dire di uno che è bravo, anche fra uomini di lettere, la formula di rito è che egli «ha metodo filologico», o «preparazione filologica», con una lode che poi, al filologo di mestiere, fa pensare a certi dialoghi tra amici che, trovandosi a parlare di qualcuno e non potendo, o non volendo, riconoscergli altri meriti, concludono d’accordo, non senza un filo d’ipocrisia, che è «tanto buono»36.

 

Insomma, sia ben chiaro: non è sufficiente accorgersi delle varianti per essere filologo e pretendere di esercitare il Mestiere del critico. Né, tanto meno, affidarsi tout court al computer, il cui lavoro «non ha alcuna superiorità ontologica rispetto a quello fatto più artigianalmente. La superiorità, straordinaria, è nella quantità dei dati squadernati alla nostra riflessione e nella velocità con cui vengono richiamati»37. E tuttavia, i dati «che vengono forniti sono la totalità di quelli immessi nel computer, non di quelli reperibili»; pertanto, «il nostro dialogo col computer non deve implicare l’esclusione di ciò che, assente nel computer, esiste nella realtà»38.

Esemplare, a tal proposito, V. Branca:

 

Il bellissimo programma di Dormuth sui commenti danteschi, in cui hanno registrato un centinaio di commenti danteschi, può essere utilissimo. Però quando vedo un’espressione di un commentatore dantesco, dell’Ottimo commento, prelevata isolatamente dal testo, non posso valutare quella che è l’interpretazione di questo commentatore. Non so infatti l’impostazione di tutto il commento, non so la cultura di tutto il commento. Quella frase non me lo dice: e non mi dice neppure l’impostazione generale dell’interpretazione per l’episodio cui la frase si riferisce39.

 

E concludeva, ricordando Mac Luhan, con l’augurio di una costante e potenziata presenza dell’intelligenza e della coscienza:

 

Io non posso dimenticare la lezione di un mio Maestro, Mac Luhan, il quale diceva che quanto più si moltiplicano questi mezzi informatici tanto più dobbiamo moltiplicare la potenza e la presenza della nostra intelligenza e della nostra coscienza per dirigerli e utilizzarli per il bene dell’uomo40.

 

Che -si badi bene- non è una dichiarazione di supponenza; semmai, di umiltà, di spirito di servizio, nel segno dell’autonomia del critico e, al contempo, della consapevolezza della sua non autosufficienza:

 

Se il mestiere del critico è autonomo, esso non è certo autosufficiente. Qualsiasi lettura di un’opera d’arte, anche la più impressionistica e di gusto, presuppone una visione del mondo e la attua sotto un particolare profilo. […] Il critico, consapevole o meno, è sempre impegnato. Né si tratta di un impegno astratto o di una tensione che viva fuori della sua specifica attività, bensì della necessaria integralità nell’atto stesso dell’esser critico41.

 

 

E vien da sorridere nel pensare a talune insignificanti, davvero pretestuose, schematizzazioni secondo le quali ci sarebbero confini netti e differenze incolmabili tra critici cosiddetti militanti e non, piuttosto che tra critici e non:

 

Il vero critico non può non accettare in partenza la situazione culturale che intorno gli si presenta; ma nell’atto stesso in cui l’accetta, opera criticamente in esse e su di essa, con la sua particolare capacità, col suo gusto, con la sua singolare sensibilità e personalità. Necessario è che egli abbia una organica visione del mondo, la quale dia un senso e un centro alla sua attività42.

 

Oggi più che mai, anzi, il Mestiere necessita di capacità di discernimento, cultura, libertà, onestà: certo, il critico non può essere infallibile; ma, almeno, non gli si chiedano giudizi su opere non ancora concluse in sé; non gli si chiedano Prefazioni per raccolte poetiche, o presunte tali, e romanzi, che assomigliano piuttosto a raccolte di ‘pensierini’; quelle e questi ormai sfornati su scala industriale e a ritmi precipitosi, spesso -bisogna riconoscerlo- molto ben veicolati da abili campagne politico-commerciali. Ma talvolta occorre pure rifiutarsi! Se non stroncare, almeno risolutamente invitare a una più attenta ricerca e valutazione dei mezzi espressivi, incoraggiare ad una più sofferta ricerca dell’essenza dell’opera d’arte, qualunque essa sia. Va bene partecipare a dibattiti, firmare manifesti, interessarsi alle problematiche contemporanee, discutere in circoli, caffè, associazioni culturali; ma non basta, se si perde di vista non solo la «ricerca e l’affermazione della verità, che rimane pur sempre la suprema milizia di ogni conquista intellettuale, ma la formazione di una nuova coscienza metodologica con la severità scientifica dell’indagine, guidata da una integrale visione della vita, con la probità morale non meno che intellettuale verso le nuove generazioni»43.

Ancor oggi, a cinquant’anni dalla sua uscita, sotto queste insegne, milita in prima fila un ‘libretto rosso’.

 

 

Note

1 «Vagnuni, per favore, nu fumati ca me pizzica la gola e poi non riesco a mantenere il tono della voce!».

2 M. Marti, Indagine sui primi idilli di G. Leopardi, Lecce, Milella, 1975.

3 M. Marti, Storia dello Stil nuovo, Lecce, Milella, 1973.

4 R. de Pacienza, Opere, a cura di Mario Marti, Lecce, Milella, 1977.

5 M. Marti, Il mestiere del critico, Lecce, Milella, 1970.

6 M. MARTI, Critica letteraria come filologia integrale, Galatina, Congedo.

7 Ivi, pp. 137-138.

8 M. Marti, Il mestiere del critico cit., p. 53.

9 Ivi, p. 61.

10 Ivi, pp. 59-60.

11 Ivi, p. 68.

12 Aa. Vv., I nuovi orizzonti della filologia. Ecdotica, critica testuale, editoria scientifica e mezzi informatici elettronici, Roma, Accademia nazionale dei Lincei, 1999.

13 V. Branca, Parole di saluto, in I nuovi orizzonti cit., p. 7.

14 Ivi, p. 8.

15 Per il testo completo cfr. T. Orlandi, Proposta: informatica applicata alle discipline umanistiche (ovvero Informatica umanistica), disponibile sul sito www. griseldaonline.it

16 Il Decreto fu pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 5 aprile 2005, n. 78.

17 E. Ferrarini, Informatica umanistica oggi, 2003, disponibile sul sito www.griseldaonline.it.

18 Ibidem.

19 D’A. S. Avalle, I Canzonieri: definizione di genere e problemi di edizione, in La critica del testo. Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Atti del Convegno (Lecce 22-26 ottobre 1984), Roma, Salerno Editore, 1985, p. 380.

20 E. Ferrarini, Informatica umanistica cit..

21 Cfr. G. Gigliozzi, Il testo e il computer. Manuale di informatica per gli studi letterari, Milano, Mondatori, 1997.

22 Cfr. C. Cadioli, Il critico navigante, Genova, Marietti, 1998, pp. 22 e sgg..

23 T. Numerico-A. Vespignani, Informatica per le scienze umanistiche, Bologna, Il Mulino, pp. 246-247.

24 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 2000.

25 M. Marti, Il mestiere del critico cit., p. 69.

26 Ibidem.

27 Cfr. G. P. Zarri, Il metodo per la recensio di Dom H. Quentin esaminato criticamente mediante la sua traduzione in un algoritmo per elaboratore elettronico, in «Lingua e Stile», IV, 2 (1969), pp. 161-182.

28 T. Orlandi, Ripartiamo dai diasistemi, in I nuovi orizzonti cit., pp. 87-101.

29 Cfr. L. Perilli, Filologia classica in prospettiva: machina, ratio et res ipsa, in I nuovi orizzonti cit., pp. 137 e sgg..

30 Cfr. D. Buzzetti, Il testo fluido. Sull’uso dell’informatica nella critica e nell’analisi testuale, in Filosofia e informatica, Torino, Paravia, 1996.

31 Sul sito www.bnnonline.it/biblvir/silvia.it.

32 «Trattasi di un ms. autografo, di pp. 184, numerate dall’autore, che vi ha sovrapposto diverse numerazioni a penna e a matita colorata. Scritto originariamente solo sul recto, numerosi fogli hanno scrittura sul verso annullata con due tratti diagonali; non solo, ma parecchie pagine recano il testo scritto nell’interlinea su di una scrittura precedente totalmente annullata rigo per rigo. Portatore inoltre di numerose correzioni, il manoscritto, che reca il testo completo, è certamente quello che andò in tipografia, ché chiari sono i segni del proto e gli avvertimenti dell’autore»: F. Branciforti, Lo scrittoio del verista, in I tempi e le opere di Giovanni Verga, Firenze, Le Monnier, 1986, p. 130.

33 G. Verga, Il marito di Elena, a cura di Toni Iermano, Salerno, Mephite, 2004, pp. 27-36.

34 G. Rizzo, Filologia e critica tra Sei e Ottocento, Galatina, Congedo, pp. 118-119.

35 G. Verga, Il marito di Elena cit., p. 50.

36 E. Raimondi, Tecniche della critica letteraria, Torino, Einaudi, 1983, p. 65.

37 C. Segre, Prolusione, in I nuovi orizzonti cit., p. 15.

38 Ibidem.

39 V. Branca, Parole di saluto, in I nuovi orizzonti cit., p. 8.

40 Ibidem.

41 M. Marti, Il mestiere del critico cit., p. 60.

42 Ivi, p. 61.

43 Ivi, p. 73.

[in Una vita per la letteratura. A  Mario Marti. Colleghi e amici per i suoi cento anni, a cura di Mario Spedicato e Marco Leone, Edizioni Grifo, Lecce 2014, pp. 115-124.]

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