Beatrice

di Luigi Scorrano

  1. Beatrice nell’opera di Dante, dalla Vita Nuova alla Commedia, è creatura poetica della distanza. Questa distanza attiva la tensione del poeta verso traguardi sempre più alti fino a quello, definitivo, della visio Dei. Donna amata, fantasma materno, severa interprete del giudizio divino, guida sapiente e comprensiva, la Beatrice dantesca passa dalla levità incantata delle pagine della Vita Nuova alla robusta sostanza di quelle della Commedia conservando fondamentalmente il suo profilo che, però, è di continuo arricchito di nuove determinazioni.

Il rapporto Dante-Beatrice è tutto giocato e, poeticamente, risolto nel tema della distanza. L’amore del poeta, pur nelle occasioni d’incontro descritte nella Vita Nuova, è amor de lohn poiché esso non si realizza convenzionalmente nella soddisfazione erotica del desiderio amoroso ma si appaga nella loda dell’amata e, quando questa è ritenuta inadeguata, si proietta nel disegno di un’opera ambiziosa nella quale l’amante-poeta possa dire della sua donna, come spera, «quello che mai non fue detto d’alcuna» (VN XLII 1)1.2. La persona storica di Beatrice è legata a pochi dati ma più suggestivamente, e non senza qualche riserva, alle informazioni del Boccaccio che quei dati offre sia rifacendosi alle prime battute del racconto dantesco della Vita Nuovasia alla sua scaltra arte di narratore. Quel che in Dante si delinea in un sentore di miracolo e di mistica stupefazione, in Boccaccio s’inscrive nella cornice mondana d’un Calendimaggio fiorentino ricco di suoni e di colori, festa di giovinezza della quale l’infanzia, che vi partecipa, ha presagi e sentori:

“Nel tempo nel quale la dolcezza del cielo riveste de suoi ornamenti la terra, e tutta per la varietà di fiori mescolati fra le verdi frondi la fa ridente, era usanza della nostra città, e degli uomini e delle donne, nelle loro contrade ciascuno in distinte compagnie festeggiare; per la qual cosa, infra gli altri per avventura, Folco Portinari, uomo assai orrevole in que’ tempi tra’ cittadini, il primo dì di maggio aveva i circustanti vicini raccolti nella propria casa a festeggiare, infra li quali era il già nominato Alighieri. Al quale, sì come i fanciulli piccoli, e spezialmente a’ luoghi festevoli, sogliono li padri seguire, Dante, il cui nono anno non era ancora finito, seguìto avea; e quivi mescolato tra gli altri della sua età, de’ quali così maschi come femine erano molti nella casa del festeggiante, servite le prime mense, di ciò che la sua piccola età poteva operare, puerilmente si diede con gli altri a trastullare.

Era intra la turba de’ giovinetti una figliuola del sopradetto Folco, il cui nome era Bice, come che egli sempre dal suo primitivo, cioè Beatrice, la nominasse, la cui età era forse d’otto anni, leggiadretta assai secondo la sua fanciullezza, e ne’ suoi atti gentilesca e piacevole molto, con costumi e con parole assai più gravi e modeste che il suo picciolo tempo non richiedea; e, oltre a questo, aveva le fattezze del viso delicate molto e ottimamente disposte, e piene, oltre alla bellezza, di tanta onesta vaghezza, che quasi una angioletta era reputata da molti. Costei adunque, tale quale io la disegno, o forse assai più bella, apparve in questa festa, non credo primamente, ma prima possente ad innamorare, agli occhi del nostro Dante: il quale, ancora che fanciul fosse, con tanta affezione la bella imagine di lei ricevette nel cuore, che da quel giorno innanzi, mai, mentre visse, non se ne dipartì”2.

Il biografo cerca di spiegarsi le circostanze dell’innamoramento di Dante fanciullo («conformità di complessioni o di costumi o speziale influenzia del cielo», o l’atmosfera stessa della festa), ma quel che conta oltre ogni ipotesi di spiegazione è un dato di fatto: «Dante nella sua pargoletta età fatto d’amore ferventissimo servidore».

Legato alla ricostruzione mondana della scena e a quell’atmosfera, in gran parte, attribuendo la nascita del sentimento amoroso in Dante, il Boccaccio, pur ormeggiando il passo d’avvio della Vita Nuova, ne smarrisce il dato centrale: il carattere di rivelazione, di intima illuminazione che lo anima. Il ritratto di Beatrice che scaturisce dalla scrittura dantesca è libero da ogni ingombro ed afferma la qualità di apparizione di colei che, da quell’incontro infantile e per sempre, sarà la donna amata dal poeta:

“Nove fiate già appresso lo mio nascimento era tornato lo cielo de la luce quasi a uno medesimo punto, quanto a la sua propria girazione, quando a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente, la quale fu chiamata da molti Beatrice li quali non sapeano che si chiamare. Ella era già in questa vita stata tanto, che ne lo suo tempo lo cielo stellato era mosso verso la parte d’oriente de le dodici parti l’una d’un grado, sì che quasi dal principio del suo nono anno apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono. Apparve vestita di nobilissimo colore umile e onesto, sanguigno, cinta e ornata a la guisa che a la sua giovanissima etade si convenia”3.

Apparizione terrena, collocata in un preciso, anche se un po’ sfuggente, contesto urbano, ma, al tempo stesso, apparizione celeste capace, col suo rivelarsi, di operare prodigi o, almeno, di determinare atteggiamenti inconsueti: testimone, ch’è nella memoria di tutti, il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare (VN XXVI 5-7). Sullo sfondo di Firenze, benché il nome della città mai sia apertamente dichiarato, si colloca l’intero arco della vicenda terrena di Beatrice: Firenze è «la cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna» (VN XLI 1). La città, nel racconto del giovanile libello, non è puro sfondo ma, quasi, elemento necessario a giustificare costumanze ed usi propriamente cittadini dai quali la vicenda prende avvio e riceve luce per la coralità partecipe intorno al rapporto di Dante e Beatrice. Un rapporto in cui entrano, assolvendovi varie funzioni, le donne che accompagnano Beatrice, gli amici della cerchia di Dante (e soprattutto «lo primo delli suoi amici», Guido Cavalcanti), i concittadini che provano gli effetti del passaggio di Beatrice, i peregrini pensosi e ignari che attraversano la città dolente perché ha «perduta la sua Beatrice» (VN XLI 10), le donne dello schermo, i compagni di occasioni gioiose (nozze) o dolorose (funerali) della vita sociale. Tutto questo fa sì che Beatrice, per quanto appaia in una sorta di isolamento per le caratteristiche attribuitele, non risulti poi come figura senza rapporti umani, senza altra forma di comunicazione che non sia l’irradiare la propria virtù su chi la vede. La scena del saluto comporta la comunicazione verbale:

“e però che quella fu la prima volta che le sue parole si mossero per venire a li miei orecchi, presi tanta dolcezza, che come inebriato mi partio da le genti…”4;

l’interruzione del rapporto verbale spesso generatore di «intollerabile beatitudine» (VN XI 4), determina nel poeta una situazione traumatica: «mi giunse tanto dolore che, partito me dalle genti, in solinga parte andai a bagnare la terra d’amarissime lagrime» (VN XII 1).

Si modifica il rapporto personale non quella che è la “normalità” della vita di Beatrice. Una normalità, certo, più intravista che documentata e, comunque, sempre inscritta nell’alone di eccezionalità connotante gesti e parole della donna. A questa normalità appartengono, per fare degli esempi, sia la scena del «gabbo», nella cornice di una festa di nozze, sia quella della partecipazione commossa alla veglia funebre per una giovane amica (VN VIII). È una “normalità” che dà spessore al profilo, altrimenti troppo isolato, di una creatura di perfezione fatta per non confondersi col mondo.

3. L’entrata in scena di Beatrice, nel giovanile libello dantesco, è un’apparizione: «… a li miei occhi apparve prima la gloriosa donna de la mia mente…». L’alta frequenza del verbo apparire dà al mostrarsi di Beatrice un carattere di eccezionalità. La donna che appare non si fa semplicemente vedere. C’è nel suo apparire un senso di rivelazione, e l’attributo di gloriosa che il narratore affianca al sostantivo donna mette subito in chiaro che l’apparsa Beatrice, se in tutti coloro che la mirano suscita pensieri di pacificazione e di dolcezza, per il poeta è segno di un destino, sul piano umano e letterario, che proietta il suo esito ultimo, il suo compiuto significato «oltre la spera che più larga gira», nell’attingimento della visione di Dio nell’Empireo e, contestualmente, della coscienza d’aver realizzato quell’opera poetica nella quale il significato del viaggio del pellegrino trova perfetta conclusione.

L’apparizione è un presagio, una situazione nella quale è contenuto ogni sviluppo d’un primo incontro ricco di cifre arcane: «… quasi dal principio del suo anno nono apparve a me, ed io la vidi quasi da la fine del mio nono» (VN II 2). Il senso di evento straordinario che c’è nell’insistente uso di apparire («Apparve…», VN II 3) è confermato dalla meraviglia dello spirito animale, pronto al riconoscimento di quel che è accaduto: «Apparuit iam beatitudo vestra» (VN II 5).

È, questo, un apparire realizzato dalla reale presenza di Beatrice nelle due tappe fondamentali dell’avvio della vicenda, l’incontro a nove anni e quello a diciotto; ma esso si continua anche quando entra in campo l’immaginazione, dove Beatrice è saltuariamente evocata ma acquista una stabile sede:

“D’allora innanzi  dico che Amore segnoreggiò la mia anima, la quale fu sì tosto a lui disponsata, e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtade e tanta signoria per la vertù che li dava la mia imaginazione, che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente” (VN II 7).

De Robertis commenta «la mia imaginazione» con: «la presenza di lei alla mia immaginazione»5. Presenza permanente («… la sua imagine, la quale continuatamente meco stava…»: VN II 9) che spinge alla ricerca dell’oggetto amato, alla sua concreta presenza:

“Elli [Amore] mi comandava molte volte che io cercassi per vedere questa angiola giovanissima; onde io ne la mia puerizia molte volte l’andai cercando, e vedeala…” (VN II 8 ).

Beatrice appare e il poeta vede. L’apparizione, come manifestazione dell’oggetto amato, diventa visione per colui che ama. L’apparizione sgomenta, riempie di meraviglia, scompiglia il sistema degli spiriti dell’uomo, ma è la visione a favorire la conoscenza. Sono due momenti diversi ma confluenti in un unico risultato: un disvelamento dal quale, per Dante, incomincia un cammino nuovo. Lentamente il verbo apparire, sintomatico di un evento improvviso ed inatteso, cede il posto al vedere o s’alterna con esso.

Ogni visione costituisce una svolta nella vita di chi ne è il destinatario. Dopo il sogno (visione) di Amore che dà in pasto alla donna il cuore del poeta, la vita di questi risulterà profondamente modificata. Lo avverte il poeta, la cui anima è «tutta data nel pensare di questa gentilissima». Anche la visione comporta un avvertimento della distanza, e questa è sottolineata, nel cap. 2, dalla posizione degli attori là rappresentati: Dante, Beatrice, la prima donna dello schermo:

“Uno giorno avvenne che questa gentilissima sedea in parte ove s’udiano parole de la regina de la gloria, ed io era in luogo dal quale vedea la mia beatitudine; e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentile donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse”(VN V 1).

L’ostacolo (la «gentile donna di molto piacevole aspetto» che intercetta lo sguardo di Dante, che ha ben altra mèta) sottolinea la distanza. Anche una lontananza provvisoria è un segno della fondamentale situazione di distanza:

“[…] l’andare [in altro luogo] mi dispiacea sì, che quasi li sospiri non poteano disfogare l’angoscia che lo cuore sentia, però ch’io mi dilungava de la mia beatitudine” (VN IX 2).

Caratterizzato dalla distanza è anche quello che, nell’esperienza mistica, è il momento unitivo: la trasmissione di beatitudine dell’apparizione a colui che ne è il destinatario. Una «intollerabile beatitudine» perché supera la capacità del destinatario di accoglierla. La distanza è avvertita con maggior chiarezza per lo stato di passività del corpo non compensato da una condizione dello spirito esattamente corrispondente alla forza della visione («passava e redundava la mia capacitade», VN XI 4).

Beatrice è collocata, naturalmente si direbbe per le caratteristiche attribuitele, su un piano diverso, sì che per mirarla occorre “levare gli occhi”: «…levai li occhi, e mirando le donne, vidi tra loro la gentilissima Beatrice» (VN XIV 4). La visione può provocare, come in questo caso, una situazione di morte simbolica, con accentuazione della distanza:

“Allora fuoro sì distrutti li miei spiriti […], che non ne rimasero in vita più che li spiriti del viso” (VN XIV 5).

La vista, illesa, deve garantire la continuità della visione. È solo uscendo dall’area della “visione”, per l’intervento dell’amico che lo conduce «fuori de la veduta di queste donne», che la situazione di ‘normalità’ si ristabilisce e gli spiriti risorgono. Anche questa circostanza, però, comporta il riproporsi della distanza: l’allontanarsi dal luogo dov’è Beatrice.

Nel sonetto Ciò che m’incontra ne la mente more, la «vista morta» cerca l’oggetto che la fa morire: l’idea di esasperata ricerca d’un avvicinamento affiora da un evidente stato di separazione, quella segnata dal termine morte. E, ancora, nel sonetto Spesse fïate vegnonmi a la mente, dove la situazione di quasi-morte è posta in evidenza dall’unico spirito che sopravvive solo perché ragiona di Beatrice. Ma la vista di lei, cercata per ottenere guarigione, provoca effetti in senso contrario: un tremito che si diffonde per tutto il corpo (VN XVI). Distanza tra colui che ama e la donna amata pongono le «sconfitte» dichiarate in VN XVIII 1. Un avvicinamento ‘esterno’ dell’amante e dell’amata, di natura puramente ‘verbale’, è nella scena della morte del padre di Beatrice: «E così passando queste donne, udio parole di lei e di me in questo modo che detto è» (VN XXII 8).

L’immaginazione della morte di Beatrice, con tutta l’angoscia di cui si carica, ripropone con forza il tema della distanza; e la distanza, in questo caso, è brusca separazione tra due condizioni: morte/vita. Una distanza decisiva (VN XXIII).

Il ritratto di Beatrice nella Vita Nuova si connota dei caratteri di un’apparizione miracolosa; la donna stessa è miracolo: «le persone correano per vedere lei» come si accorre per vedere qualcosa di prodigioso. L’umiltà, che s’accompagna al miracolo ed è ad esso intrinseca, è carattere “mariano” della «donna de la salute»: «vestita d’umilitade s’andava, nulla gloria mostrando di ciò ch’ella vedea e udia» (VN XXVI 2) 6.

L’ineffabilità degli effetti dell’apparizione e del passaggio di Beatrice sono certificazioni della distanza tra la sfera del quotidiano e quella di un “meraviglioso” segnato dalla grazia. Questo rafforza la disposizione del poeta alla “loda” che, in ambito cristiano, è da riservare al divino (come in Francesco d’Assisi: «tue so le laude…»). Gli effetti del saluto di Beatrice sono quelli prodotti da un’apparizione sovrannaturale: ammutolimento, renitenza al guardare, tutto ciò che caratterizza quanto è connotato come sacro. Sul fondo c’è la memoria biblica; ad esempio, l’episodio di Mosè che, di fronte al roveto ardente dal quale Dio gli si rivolge, «abscondit faciem suam; non enim audebat aspicere contra Deum» (Ex 3, 6). Anche la dolcezza, che può essere intesa solo da chi la prova, viene trasmessa solo a chi è dotato per riceverla.

La drammaticità della distanza/separazione dalla presenza ‘fisica’ di Beatrice si esprime sia nell’attacco ex abrupto del cap.XXIX, sia nell’interruzione della canzone Sì lungiamente m’ha tenuto Amore. La «partita» di Beatrice, la sua morte, ne ripropongono l’immagine miracolosa per le circostanze in cui si inscrive il suo distacco dalla terra nel segno del nove, ch’è il numero della sua storia umana e poetica com’è costruita da Dante: «ella era uno nove, cioè uno miracolo, la cui radice […] è solamente la mirabile Trinitade» (VN XXIX 3)7. È la constatazione di una distanza nuova e, almeno per ora, insuperabile, già prefigurata nel sogno della morte della donna. La distanza cielo/terra è quella proprio di una irresolubile diversità di condizione (morte/vita). Ma la distanza ‘morale’ è data anche dalle ragioni della morte di Beatrice: «no la ci tolse qualità di gelo / né di calore, come l’altre face, / ma solo fue sua gran benignitate…» (VN XXXI 10). La distanza è ancora più avvertibile nella volontà divina che ha chiamato Beatrice a sé «perché vedea ch’esta vita noiosa / non era degna di sì gentil cosa» (ibid.).

  1. La figura di Beatrice è soggetta a una decisa evoluzione già nelle pagine della Vita Nova ancor prima che nel passaggio dal giovanile libello alla Commedia8. Infatti una parte dell’opera giovanile mostra Beatrice in azione anche attraverso la sua partecipazione alla vita sociale ( e se n’è accennato). I suoi gesti sono osservati, le sue azioni sono accompagnate da un coro di compartecipanti («Con l’altre donne mia vista gabbate…»: è un esempio), le vicende della sua vita privata (morte del padre) sono condivise da persone amiche. Anche l’influsso da lei esercitato col suo nome e la sua presenza è visibile nel rispecchiamento leggibile nel comportamento di chi lo riceve (e si ricorderà, almeno, il sonetto Tanto gentile e tanto onesta pare). Un procedimento che serve a porre le premesse di una storia più intima, di una partita che sarà poi giocata a due sul piano di sentimenti che non potranno essere condivisi a causa del loro appartenere gelosamente ed esclusivamente ai due protagonisti della vicenda9. La cesura non è segnata dalla morte di Beatrice ma, piuttosto, dall’interrotta comunicazione. Questa, che aveva trovato il suo culmine positivo nella concessione del saluto, tocca in seguito il suo momento profondamente negativo nel ritiro del saluto stesso:

“Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna [la seconda donna dello schermo] che lo mio segnore m’avea nominata ne lo cammino de li sospiri; e acciò che lo mio parlare sia più brieve, dico che in poco tempo la feci mia difesa tanto, che troppa gente ne ragionava oltre li termini de la cortesia: onde molte fiate mi pensava duramente. E per questa cagione, cioè di questa soverchievole voce che parea che m’infamasse viziosamente, quella gentilissima, la quale fue distruggitrice di tutti li vizi e regina de le virtudi, passando per alcuna parte, mi negò lo suo dolcissimo salutare, ne lo quale stava tutta la mia beatitudine” (VN 1-2).

È il volto severo della gentilissima quello proposto dalla negazione del saluto. Il gesto definisce la fisionomia; il rifiuto sottintende un disdegno che getta il poeta nell’angoscia. Affiora un’immagine di Beatrice crucciata e, parallelamente, in Dante, l’avvertimento di una frattura che non  è la distanza tra lui e un oggetto d’amore irraggiungibile ma propriamente il segno d’un distacco forse irreparabile. Al confronto, l’immagine di Beatrice quale si profila nella canzone Lo doloroso amor che mi conduce (per citare un testo che esteriormente può presentare una qualche affinità di situazione) risulta in parte convenzionale, tanto più quanto più estremizzata si presenta la condizione sentimentale del poeta:

 

Lo doloroso amor che mi conduce

a·ffin di morte per piacer di quella

che lo mio cor solea tener gioioso

m’ha tolto e toglie ciascun dì la luce

ch’avean li occhi miei di tale stella,

che non credea di lei mai star doglioso;

e ’l colpo suo, c’ho portato nascoso,

omai si scuopre per soperchia pena,

la qual nasce del foco

che m’ha tratto di gioco,

sì·cch’altro mai che male io non aspetto;

e ’l viver mio  ─ omai de’ esser poco ─

fin a la morte mia sospira e dice:

«Per quella moro c’ha nome Beatrice»10.

Giova sottolineare, qui, che la caratterizzazione di distanza è data proprio da un elemento avvicinante: quel nome, Beatrice, col suo significato. La donna che reca inscritto nel nome un effetto beatificante, vitale, è, paradossalmente, colei che provoca la morte di chi l’ama.

  1. Lo strappo prodotto dal venir meno del «dolcissimo salutare» di Beatrice si ricomporrà, dopo la tentazione del poeta di cedere al richiamo della donna «gentile, bella, giovane e savia», «apparita [come per un momento pensa Dante] forse per volontade d’Amore» (VNXXXVIII 1), sia attraverso il ripresentarsi con forza di Beatrice nell’immaginazione del poeta, sia – definitivamente – attraverso la «mirabile visione» della pagina conclusiva della Vita Nuova. Il riavvicinamento, che si opera unicamente nel processo interiore d’una ripresa della coscienza del valore unico rappresentato da Beatrice e dal ritorno alla «costanzia de la ragione» (VN XXXIX 2), si configura come proposito di un’azione straordinaria, tale da ripristinare la comunicazione interrotta. Il desiderio del ritorno alla comunicazione con Beatrice si esprime in una duplice direzione: la speranza «di dire di lei [Beatrice] quello che mai non fue detto d’alcuna» (e questo cancella, in un certo senso, tutto ciò che il poeta ha scritto per altre donne), e l’augurio – se Dio vorrà – che la sua anima «se ne possa gire a vedere la gloria de la sua donna, cioè di quella benedetta Beatrice, la quale gloriosamente mira ne la faccia di Colui qui est per omnia secula benedictus» (VN XLII 3).

La Beatrice in gloria della fine del libello prelude alla Beatrice in gloria del Paradiso. Qui, però, la distanza, pur insita nelle condizioni diverse dell’amante e dell’amata, non è particolarmente posta in evidenza. Se mai si tende, con il finale augurio, ad attendersene la cancellazione o, almeno, un accorciamento notevole.

A questo punto del percorso è utile, di là dal tema stesso, cogliere una immagine complessiva di Beatrice, quale si configura nel giovanile libello dantesco. Immagine dinamica per le reazioni che la sua apparizione, la sua forza d’amore, la sua diffusiva bontà suscitano in tutti coloro che la vedono; in Dante in modo particolare. Per se stessa è, sostanzialmente, un’immagine ferma, senza troppe sfumature. È l’azione stessa della Vita Nuova, sospesa dentro un alone di prodigio e di contemplazione estatica, a determinare coerentemente una tale immagine dell’«angiola giovanissima», della «benedetta Beatrice». Il ruolo attivo di Beatrice, e si consideri questa non più che un’approssimazione, giace ancora, occulto ma forse già immaginato, in quella promessa ed in quell’impegno di dire di lei quel che non fu mai detto d’alcuna altra donna. Forse già si configurava, nella mente del poeta, una nuova, più complessa immagine della donna amata.

  1. Nel canto II dell’InfernoBeatrice non si presenta come nella Vita Nuova, non ha i connotati dell’apparizione. Ha autorevolezza, tanto che può chiamare Virgilio affinché questi accorra in soccorso di Dante. Ella è «beata e bella» congiuntamente, poiché la bellezza è consanguinea della beatitudine (basterà ricordare il canto III del Paradiso, dove Piccarda proprio dalla beatitudine è fatta «più bella»). Non solo. Basta che Beatrice chiami Virgilio perché questi la richieda di «comandare», si mostri disposto e pronto ad accoglierne le richieste. È, dunque, con un tratto deciso non accostabile del tutto al disdegno della Vita Nuova (negazione del saluto) che Beatrice irrompe sulla scena del poema. I caratteri distintivi sono ben quelli della Vita Nuova, fisici e morali insieme: occhi lucenti più delle stelle, parola «soave e piana», «angelica voce». Una somma di dati tale da riportare immediatamente alla memoria la Beatrice dell’opera giovanile, ma posti anche a dare rilievo ai dati nuovi che si aggiungono al ritratto della donna. Qui, veramente, la donna traccia di sé stessa un autoritratto funzionale alla missione di soccorso affidata a Virgilio ma più sottilmente inerente al ruolo che le è attribuito nel cammino di salvezza che Dante sta per intraprendere. Tutto si riassume nel v. 70, al cui inizio il nome della donna benedetta non ha bisogno di dati aggiuntivi, di chiarificazioni. Vale per sé e per la funzione che le è demandata:

 

I’ son Beatrice che ti faccio andare;

vegno del loco ove tornar disio;

amor mi mosse, che mi fa parlare.

(Inf. II 70-72).

 

Andare è verbo di moto che non solo si riferisce ad un’azione di pronto intervento (Virgilio deve entrare subito in azione, poiché Beatrice teme d’aver indugiato più del necessario prima di chiamarlo ad oprare), ma segna con chiarezza l’esigenza fondamentale della propria partecipazione: far andare anche Dante, il suo «fedele» lungo un itinerario nel quale il moto si arresterà solo a fine raggiunto, nell’attingimento della visione beatifica. Beatrice fa muovere Dante mossa, a sua volta, da amore («amor mi mosse…»), che altro non è se non «l’amor che move il sole e l’altre stelle» di Par. XXXIII 145. Non si ha, qui, un’atmosfera trasognata com’è quella della Vita Nuova. C’è una situazione drammatica; modificarla ha tutta l’urgenza delle scelte irrimandabili. Beatrice deve intervenire, e lo fa, ma rivelando anche la sollecitudine delle altre due donne benedette, Maria e Lucia (un’alleanza al femminile!), impegnate come lei nell’opera soccorritrice. Il dinamismo della figura di Beatrice, che nella Vita Nuova era avvertibile attraverso gli effetti della sua presenza in un ambiente e tra le persone, qui non è riflesso ma diretto.

Beatrice, «donna di virtù» (v. 76), e già nella Vita Nuova «regina de le virtudi» (VN X 2), rispondendo all’osservazione di Virgilio sulla sua mancanza di timore nello scendere nell’inferno, sottolinea d’avere un mandato preciso, assegnato là «dove si puote / ciò che si vuole» (Inf. III 95-96). Il suo discorso è sembrato improntato a una certa durezza (soprattutto nei vv. 88-96); ma quella presunta durezza non è se non la serena impassibilità che ha radice in un bene completamente raggiunto e in una giustizia pienamente realizzata. Qui la “distanza” di Beatrice è quella di chi è sottratto per sempre sia alle vicende che tormentano la vita degli uomini sulla terra sia a quelle che s’inscrivono nella ferma ripetitività della realtà penale dell’inferno. Può sembrare che aliti, nel discorso di Beatrice, un soffio d’indifferenza. Si tratta, però, del distacco proprio di chi modella il proprio comportamento in totale adesione alla volontà divina (come sarà chiarito, per altri aspetti, nel canto III del Paradiso, nelle parole di Piccarda Donati). L’armatura di cui Beatrice si cinge è quell’essere, lei, «loda di Dio vera» (Inf. II 103); in lei virtù e bellezza perfette costituiscono per se stesse, o sollecitano, la lode a Dio (VN XXVI, passim).Se poi si guarda al significato allegorico della donna beata, essa è «loda di Dio vera» essendo la teologia, secondo Benvenuto da Imola, «vera laus et gloria Dei». Ma nell’episodio della richiesta d’aiuto a Virgilio non sono gli eventuali significati allegorici della sua figura a spiccare in primo piano, bensì quelli della sollecitudine ansiosa della donna che vede in grave pericolo l’uomo che l’ama e corre a procurargli quel soccorso che può. Nell’incontro con il poeta latino, al racconto delle ragioni e delle procedure del proprio intervento, Beatrice aggiunge ‘azioni’ significative. I suoi occhi, lucenti più delle stelle, sembrano tradire un’emozione tutta umana quando lei li rivolge «lagrimando» verso Virgilio. Il Boccaccio, con una interpretazione un po’ troppo mondanizzata della beata Beatrice lesse nell’atto una sorta di affettuosa astuzia comune tra le donne:

E in questo lagrimare ancora più d’affezione si dimostra, dimostrandosi ancora un atto d’amante, e massimamente di donna, le quali, com’hanno pregato d’alcuna cosa la quale disiderino, incontanente lagrimano, mostrando in quello il disiderio suo essere ardentissimo11.

Ma Dante aveva fissato il segno forte di quell’atteggiamento di Beatrice, dichiarando questa «pietosa» (ibid.,133) e riassumendone il discorso nella formula delle «vere parole» (ibid., 135), le parole veritiere di Beatrice beata che vengono dal cuore della verità stessa, da Dio. Tutto procede, per dirla con il Boccaccio, «dallo intrinseco della divina mente»12. Il dato visivo (ma ch’è, al tempo stesso, connotazione morale e allusione trasparente al ruolo del personaggio Beatrice) che riapparirà nei versi dell’Inferno, è il «dolce raggio / di quella il cui bell’occhio tutto vede» (Inf. X 130-131), del luminoso sguardo della donna amata dal poeta e che vede tutto in Dio. Questo sguardo luminoso è il tratto caratterizzante della Beatrice quale appare o è ricordata nell’inferno: luce della mente tra le tenebre del male, aiutante di una volontà divina che non si può contrastare. «Tal si partì da cantare alleluia / che mi commise quest’officio novo» dirà Virgilio, in Inf. XII 88-89, registrando per il suo interlocutore, il centauro Chirone, l’eccezionalità dell’intervento. A Beatrice, come a guida cui rivolgersi per «chiosar con altro testo»  le vicende predettegli dal ‘maestro’ Brunetto Latini, va il pensiero di Dante: sarà un altro magistero quello cui il poeta ricorrerà per chiarire, alla luce della verità, quanto si stende oscuramente sul suo avvenire e per trarne pienezza di senso. C’è, in Inf. XV 88-90, un accenno appena, un’allusione ancora piuttosto vaga a quello che sarà il compito ‘magistrale’ di Beatrice. È, comunque, una cellula destinata a svilupparsi; un altro tassello, appena appena messo in prova, per costruire di Beatrice un ritratto ricco e complesso. Dalla metà della prima cantica in poi, la dinamica del racconto non consente indugi sul ricordo della donna amata o espressioni che dicano l’ansioso tendersi verso di lei («s’a lei arrivo»). Nel Purgatorio sarà Virgilio ad attribuire a Beatrice, costantemente, un magistero diverso da quello da lui esplicato. Virgilio non può fornire, essendo rimasto fuori della verità, che una risposta insufficiente o, almeno, limitata; demanda perciò a Beatrice, quale simbolo della teologia, il compito di illuminare Dante sul problema dell’efficacia o dell’inefficacia della preghiera (Purg. VI 34 ss.):

 

Veramente a così alto sospetto

non ti fermar, se quella nol ti dice

che lume fia tra ’l vero e lo ’ntelletto.

(Purg. VI 43-45)13.

Lume richiama la luce dello sguardo di Beatrice14, e Beatrice è promessa al desiderio di Dante se Virgilio aggiunge un’annotazione che scioglie la figura della donna dal suo ruolo di maestra di verità e ne dà un’immagine in cui il simbolo s’eclissa e il volto della felicità sperata appare raggiante:

 

Non so se ’ntendi; io dico di Beatrice;

tu la vedrai di sopra, in su la vetta

di questo monte, ridere e felice.

(Purg. VI 46-48).

L’immaginazione di Dante, alimentata dalle parole del maestro, ridà vigore al passo, e l’andare, ch’era nel compito della donna beata favorire e stimolare, diventa  – e non è il solo episodio in cui questo si possa registrare – iniziativa del pellegrino, rinnovato slancio verso l’oggetto del suo desiderio.

  1. Dante ha il senso dello spettacolo e, riportando in scena Beatrice, ne allestisce uno (che però non funge  solo da cornice ma racchiude un significato misterioso e carico di sottintesi profetici) intorno alla sua riapparizione15. Una processione solenne sfila nel Paradiso terrestre davanti allo sguardo incantato ed attento insieme del pellegrino. Al centro della processione c’è un carro trionfale. I ventiquattro seniori biancovestiti che gli fanno scorta ripetono, dopo che uno di loro l’ha cantato, l’invito: Veni, sponsa, de Libano. Un volo d’angeli, al di sopra del carro, accompagna l’invito; al canto corale del Benedictuss’alternano parole tratte dall’Eneide virgiliana. Poi gli angeli si levano in volo spargendo fiori ed in mezzo a quella nuvola di fiori, come il sole il cui splendore sorgente è attenuato dai vapori mattutini, Beatrice appare. È vestita di rosso, ammantata di verde, velata di bianco, e ha la fronte cinta d’ulivo.

La visione, ch’era stata annunziata, ora si manifesta. All’apparizione della donna della sua vita, Dante sente rinascere la forza d’amore che lo dominò un tempo. Con espressione virgiliana confessa di riconoscere i segni «de l’antica fiamma». Vorrebbe comunicare a Virgilio quel che prova, ma il maestro, compiuta la sua missione, riconosciuta in lui riconquistata la pienezza del libero arbitrio, si è allontanato; e Dante piange, sotto la spinta di un’emozione vivissima, la ‘perdita’ del maestro. È allora che Beatrice parla, non per confortare ma per rimproverare. Turbamento si aggiunge a turbamento; anzi, il rimprovero della donna celeste, impietrisce Dante che, toccato dalla compassione degli angeli impetranti misericordia per lui, versa altre lacrime.

Il ritrovamento è, dunque, all’insegna di quella ‘distanza’ ch’è di Beatrice  – e se ne son viste le occasioni – nel poema e nella Vita Nuova. Se in Dante rifluisce prepotente l’amore di un tempo, la donna sembra frapporre tra quel sentimento e la propria condizione di creatura celeste un ostacolo insormontabile.

Beatrice chiarisce a che cosa sia dovuta la durezza del proprio atteggiamento, e le accuse colpiscono Dante acerbamente. La donna assume un aspetto estremamente severo, e se le prime battute del suo discorso sono forti e decise, Dante annota che il peggio deve ancora venire16. Se Dante «di necessità» è stato chiamato per nome (cfr. vv. 55 e 62-63), Beatrice è colei che dice il suo nome riaffermando la propria unicità a fronte del Dante sviato e smarrito nella rete delle passioni: «Guardaci ben! Ben son, ben son Beatrice» (Purg. XXX 73). La replicazione si rafforza con l’allitterazione: quel che si dice è una constatazione che si vuole ribadire e fissare. I mezzi retorici sono usati a questo scopo, e non a caso la struttura trova altre applicazioni nel canto; si veda il v. 56. Il richiamo è martellante; il richiamato non deve potersi sottrarre alle ragioni di un diverso pianto, più amaro di quello versato per la perdita di Virgilio.

L’autopresentazione di Beatrice, decisa, conferisce all’immagine della donna «ammiraglio» (v. 58) un atteggiamento di ruvida superiorità. Ma è immagine addolcita, poco dopo (v. 79), da quella della «madre» pur «superba» del v. 79 (col correttivo del v. 80: «com’ella parve a me»). La distanza ravvicinata non propizia, momentaneamente, una reale vicinanza. È una distanza che Dante deve sentire, perché essa raffigura lo sviarsi del poeta, un allontanamento da Beatrice non certo inconsapevole. Si tratta, ora, di pareggiare «colpa e duol» (v. 108) non già per accorciare la distanza nell’atto del pentimento ma per misurarne chiaramente il significato.

Beatrice, salita «di carne a spirito» e accresciuta di «bellezza e virtù» (vv. 127-128) ricorda un Dante non solo postosi «per via non vera» ma anche sordo a qualsiasi richiamo («sì poco a lui ne calse!», v. 135). Lo sviamento segna il tragico distacco del poeta dalla gentilissima, fin quasi ad una situazione di irreparabilità tale da consigliare rimedi estremi:

 

Tanto giù cadde, che tutti argomenti

a la salute sua eran già corti,

fuor che mostrarli le perdute genti.

Per questo visitai l’uscio d’i morti,

e a colui che l’ha qua sú condotto,

li preghi miei, piangendo, furon porti.

(Purg. XXX 136-141).

 

Beatrice rilancia la propria immagine di beata la cui intatta felicità è fortemente turbata dalla condizione di colui che l’amò tanto ma che, nonostante questo, aveva finito per allontanarsi da lei. I tratti dell’iconografia della donna supplice si ripropongono, qui riassunti, come quelli già ricordati da Virgilio in Inf. II. Le lacrime di Dante sono il prezzo d’amarezza pagato qui a quelle di Beatrice soccorrevole, che la donna stessa ripropone a saldo del rimprovero ed a giustificazione dell’asprezza che lo sigilla. Ma nel giro dei vv. 58-141 le linee del ritratto di Beatrice si compongono in tre figure diverse e concorrenti: quella dell’ammiraglio, che vede e decide con la severità ch’è propria del comando, ma «incuora» (v. 60); quella della madre «superba», altera e severa quale appare ad un figlio che ne subisca i rimproveri; quella, infine, della donna amata che, pur avendo buone ragioni per lagnarsi d’un amante non proprio fedele, non sa però negargli l’aiuto quando quegli si trova in condizioni disperate. Sono, si può dire, tre immagini che confermano la posizione di distanza propria di Beatrice; ma di una distanza in cui entra la memoria d’un amore devoto e una carica di compassione ch’è quella dell’anima beata per un uomo traviato ma le cui positive disposizioni possono essere recuperate e indirizzate ad un altissimo fine.

È un episodio, questo del rimprovero di Beatrice, che mostra come il ritratto della donna, pur conservando la sua precisa riconoscibilità, si arricchisca continuamente di nuovi dati, sia animato da cangianti espressioni che gli conferiscono ricchezza di modulazioni.

L’autopresentazione di Beatrice del canto XXX del Purgatorio si fa, nella prima parte del canto XXXI, autobiografia spirituale non senza riferimenti alla «realtà corporale» della donna17. Questa si pone con chiarezza come via al divino: desiderare Beatrice, «regina de le virtudi», era per Dante desiderare Dio attraverso di lei. La morte stessa invece che allentare il legame, acquietato il morso del dolore, doveva renderlo più stretto. Altro era accaduto.

Per dire «la mia morte» Beatrice usa un’espressione di tagliente crudezza: «mia carne sepolta»; ma è crudezza che sintetizza il significato di tutto il suo discorso e mette a fuoco la “vanità” delle cose terrene. E se per un momento la memoria della bellezza corporale risorge prepotente, essa è pur sempre destinata a ricordare la peribilità del corpo, a specchio delle “vanità” dietro le quali il disorientato amico ha rischiato di perdersi. Le «belle membra» d’una donna amata «o pargoletta / o altra vanità» (Purg. XXXI 59-60) si contrappongono a certezza dei beni celesti; Beatrice lo ricorda proprio per segnalare la distanza non tanto tra due condizioni personali (lei morta, Dante ancora vivo) quanto tra due modi d’interpretare il senso degli avvenimenti.

Dante, pentito, è invitato dalla sua donna a guardarla, e di nuovo è la bellezza ad imporsi come vincente realtà:

 

Sotto ’l suo velo e oltre la rivera

vincer pariemi più sé stessa antica,

vincer che l’altre qui, quand’ella c’era.

(Purg. XXXI 82-84).

 

vincer, replicato, con cui si svela la nuova bellezza di Beatrice vittoriosa su se stessa quale fu un tempo e quale fu in terra rispetto alle altre donne, fa riscontro vinto (al v. 89): ora Dante ha compreso perché non avrebbe dovuto discostarsi dalla donna amata. La celebrazione della bellezza di Beatrice è quella d’una bellezza spirituale adombrata da referenti corporali: gli occhi/smeraldi18, occhi qualificati come «rilucenti» (al v. 119) e «santi» (al v. 133); la bocca; il volto finalmente svelato. Pur cresciuta in bellezza, tanto da vincere se stessa antica, mai come negli ultimi canti del Purgatorio Beatrice manifesta la propria terrestrità o, se è più chiaro, la propria consistenza di donna concreta e che richiama la concretezza della propria azione nel tentativo di fermare Dante sull’orlo del traviamento. È a questa donna che il poeta guarda, con occhi fissi ed attenti, «a disbramarsi la decenne sete» (Purg. XXXII 2), quasi a riallacciare la comunicazione interrotta. La forza di Beatrice è, in un certo senso, raddoppiata. L’«antica rete» (v. 6), che trae a sé con vigore l’animo di Dante, si mostra intatta; se mai rinsaldata sia dalle esperienze del poeta dopo la morte della gentilissima sia dai risultati, provvisori, che il viaggio oltremondano del viator ha prodotto fino alla stazione del paradiso terrestre. Di Beatrice si esalta il «santo riso» (v. 5) come il particolare in cui meglio si esprime e s’illumina l’intera bellezza della donna che qui agisce, è stato notato, non tanto (o non solo) come anima beata ma come creatura legata al ricordo ed alla vicenda di un amore riattivato in un ambiente in cui terreno e divino convivono19. L’antico amore si riaccende in una prospettiva diversa, ma si àncora saldamente ad un tempo storico saldando la frattura provocata dal traviamento del poeta. Il moto umano resta profondamente identico benché in una situazione mutata.

L’episodio arricchisce il ritratto di Beatrice di note impensate. Certo, ai dati della figura storica si sommano quelli simbolici come vuole lo sviluppo della narrazione. Ecco, allora, Beatrice che siede sotto l’albero dalle fronde nuove sulle radici di esso; l’albero cui è stato legato il carro ch’è al centro della processione simbolica. In questa raffigurazione, c’è chi ha interpretato Beatrice come la teologia custode del vincolo stabilito da Cristo tra la giustizia divina e la Chiesa.

L’albero rappresenta la giustizia. Il carro, ad esso legato, può significare la stretta adesione della Chiesa ai disegni divini. Beatrice, che siede sulle radici di quell’albero, sta a dire che, attraverso la Chiesa guidata secondo gli insegnamenti di Cristo, la teologia si fa garante, in quanto portatrice di verità d’ordine spirituale, d’una giustizia rivolta al perfezionamento dell’uomo ma che trascende l’uomo stesso. Perciò la scienza delle cose divine, Beatrice-teologia, è posta tra mondo umano e mondo soprannaturale, è accompagnata dalle virtù, è illuminata dai doni dello Spirito Santo ed appare vigile custode della Chiesa stessa.

Al di là della funzione simbolica che le attribuisce, Dante cerca la Beatrice della sua vicenda terrena. Risvegliato dal sonno che lo ha sorpreso durante il canto dei partecipanti alla processione, il primo pensiero è per lei: «Ov’è Beatrice?» (Purg. XXXII 85). E Beatrice, in forma solenne, lo investe della missione di scrivere «in pro del mondo che mal vive» (Purg. XXXII 103) una volta tornato sulla terra. Un passaggio, questo, estremamente delicato poiché ripropone quel tema della “distanza” sotteso sempre al rapporto Dante-Beatrice. Al poeta che si è proposto, in chiusura della Vita Nova, di dire di Beatrice quel che non fu mai detto d’alcuna, la donna comanda («e io… / d’i suoi comandamenti era divoto», Purg. XXXII 106-107) di scrivere «in pro del mondo che mal vive», in qualche modo stornando da sé il fine dell’opera ed aprendo un orizzonte più vasto all’attenzione del suo poeta. È significativo, sotto questo profilo, che Beatrice cominci ad assumere quella funzione ‘magistrale’ che sarà evidente soprattutto nella prima parte del Paradiso. Assegnato il compito all’amante-discepolo, Beatrice si fa esplicitamente guida. Richiama ancora Dante all’osservazione di quel che accade sotto i suoi occhi, ma gli chiede di accostarsi a lei in modo da ascoltare bene quel che gli dirà. L’accorciamento della distanza fisica non comporta un fondamentale mutamento di situazione. È solo un dato di necessità, poiché nulla di quello che sarà detto deve andare perduto. Dante ora registra il «tranquillo aspetto» di Beatrice: superato il momento della severità si apre quello della confidenza, ma una confidenza di più piano discorso attinente ai grandi problemi dell’umanità non ad un rapporto individuale. Lo scarto tra gli atteggiamenti della donna e del poeta mostra come ancora non sia realizzata l’intesa che porterà Dante ad accogliere il «comandamento» di Beatrice (scrivere in pro del mondo che mal vive) e, contemporaneamente, a mantenere il proposito espresso alla fine della Vita Nova.

Il proporsi di Beatrice come maestra è messo in evidenza dalla domanda che lei pone a Dante: «Frate, perché non t’attenti / a domandarmi omai venendo meco?» (Purg. XXXIII 23-24). La risposta di Dante, esitante e quasi timida per eccesso di reverenza, è una resa incondizionata alle decisioni della donna: «Madonna, mia bisogna / voi conoscete, e ciò ch’ad essa è buono» (ibid., 29-30). Allora è Beatrice a stabilire quel che deve essere il modo di partecipazione del discente:

 

[…] «Da tema e da vergogna

voglio che tu omai ti disviluppe,

sì che non parli più com’ om che sogna».

(Purg. XXXIII 31-33).

Timore e reverenza paralizzanti  vanno ormai messi da parte. L’invito di Beatrice è un incoraggiamento alla franchezza e all’ardire, quell’ardire e quella franchezza ai quali lo aveva invitato Virgilio ai margini della selva oscura e proprio in nome delle tre donne benedette preoccupate della sua sorte (cfr. Inf. II 123-126). Beatrice, dunque, decide quel che è “buono”; è lei che regge le fila del discorso: signora non solo del cuore di colui che l’amò tanto, ma anche del discorso del poeta al quale tocca, intanto, di annotare, e poi di ripensare, parole che possono, almeno momentaneamente, sembrargli oscure:

 

Tu nota; e sì come da me son porte,

così queste parole segna a’ vivi

del viver ch’è un correre a la morte.

E aggi a mente, quando tu le scrivi,

di non celar qual hai vista la pianta

ch’è or due volte dirubata quivi.

(Purg. XXXIII 52-57).

Beatrice, qui signora del discorso, sa che il suo dire è tale da abbagliare la mente del poeta («t’abbaglia il lume del mio detto», v. 75), ma non pretende se non che Dante ne porti agli uomini almeno un segno, come il pellegrino che tornava dalla Terrasanta portava in ricordo la palma sul suo bastone. Di questa distanza, nel discorso, tra ciò che si ascolta e ciò che si riesce a riferire, qui messa in evidenza da Beatrice, Dante si ricorderà quando chiederà al «buono Appollo», invocandone l’aiuto, tanta capacità di riferire quel che ha visto quanta ne occorre per manifestare almeno l’ombra del beato regno “segnata” nella sua mente (non è un caso che segnare sia già al v. 81 di Purg. XXXIII). Beatrice rileva lei stessa la distanza che corre tra le parole degli uomini, con le conquiste parziali che gli studi filosofici si sforzano di realizzare, e la parola della verità assoluta:

 

«Perché conoschi» disse «quella scuola

c’hai seguitata, e veggi sua dottrina

come può seguitar la mia parola;

e veggi vostra via da la divina

distar cotanto, quanto si discorda

da terra il ciel che più alto festina».

(Purg. XXXIII 85-90).

 

Una distanza che non potrebbe essere rappresentata con maggior evidenza di quanto avviene qui.

L’estremo canto del Purgatorio pone, dunque, chiare premesse di quello che sarà il nuovo, costante, aspetto della Beatrice del Paradiso. Non un volto assolutamente nuovo, ma una nuova immagine che in sé compendia quelle che Dante ne ha fornito fino alla svolta ultima della sua opera.

8. Il ‘magistero’ di Beatrice s’inaugura col canto I e si conclude col canto XXX del Paradiso. Esso esprime una somma di insegnamenti che riguardano argomenti anche molto diversi: dalla spiegazione delle macchie lunari nel canto II al chiarimento sui voti religiosi nel canto IV; dallo scioglimento dei dubbi sulla giusta «vendetta» e sulla corruttibilità o incorruttibilità dei corpi nel canto VII alla chiarificazione sulle virtù dei cieli del canto XXVIII e alla ‘lezione’ sugli angeli del canto XXIX. Ma ci s’ingannerebbe a costruire su questi riferimenti un’immagine a senso unico: quella di Beatrice ‘maestra’. Un’immagine che, troppo semplificata ed applicata a tutto il percorso paradisiaco, finisce per essere fuorviante. In realtà Beatrice non fa lezione. Non è questo il suo compito. In un itinerario di perfezione qual è quello di Dante non può non svolgere una funzione essenziale chiarendo e rimuovendo dubbi, correggendo errori e illuminando con la luce della verità («provando e riprovando», Par. III 3), aiutando il viatora superare perplessità ed incertezze. Più che ‘maestra’, e quindi delegata ad un ruolo puramente didattico, Beatrice è guida nel senso pieno del termine: orienta, conduce, sostiene, apre nuovi paesaggi all’occhio sempre più ammirato del pellegrino. Come ‘maestra’ sa farsi da parte quando intervengono, su problemi specifici, autorità che hanno precise competenze. Sarà, ad esempio, Giustiniano a ripercorrere il cammino storico dell’impero romano (con la sua propaggine nel Sacro romano impero) e a giudicare severamente profittatori e nemici della massima istituzione civile. E sarà un principe fatto modello di virtù civili e di risentite doti morali, Carlo Martello, ad illuminare Dante sul perché tante volte da antenati virtuosi derivino discendenti viziosi. S’apra un dialogo tra Dante e le anime o alcune di queste recitino elaborate orazioni, Beatrice interviene solo quando è necessario, con l’autorità che le compete ma anche con quella misura di discrezione dettata, com’è l’insieme dei comportamenti nel paradiso, dalla carità.

La varietà dei suoi atteggiamenti passa dal sorriso d’indulgente compatimento per il «pueril coto» del pellegrino (Par. III 26) alla spiegazione che ne placa l’ansia nata dal dubbio (IV 1 ss.; V; VII); dal tacito incoraggiamento al poeta (un cenno d’assenso, come in XV 71!) a interrogare gli spiriti dai quali vuole spiegazioni (IX 16-18 e, ad es., in V 122-123 e XVII 7-12 l’incoraggiamento viene pienamente espresso) alla sollecitazione a ringraziare Dio nel cielo del Sole; dal conforto d’uno sguardo letificante contro le svelate durezze d’un doloroso avvenire imminente (c. XVII) al rassicurante atteggiamento materno (c. XXII 4-6), e così via. Anche il riferimento costante agli occhi della donna, guardando nei quali Dante è tratto in alto attraverso le sfere celesti, è ricco di sfumature. Gli occhi di Beatrice hanno un effetto trasumanante (I 67-72); ardono d’ardore divino (III 24); guardando si rivelano «pieni / di faville d’amor» (IV 139-140); hanno la forza, col loro splendore, di dividere in «più cose» la «mente unita» (X 63); rassicurano esprimendo una viva carità (XVIII 8-9). Il desiderio, in Dante, degli occhi di Beatrice, di riportare a lei i propri occhi assetati sempre del suo sguardo, è espresso in un passo d’inconsueta ampiezza:

 

La mente innamorata, che donnea

con la mia donna sempre, di ridure

ad essa li occhi più che mai ardea:

e se natura o arte fé pasture

da pigliare occhi, per aver la mente,

in carne umana o ne le sue pitture,

tutte adunate, parrebber nïente

ver’ lo piacer divin che mi refulse,

quando mi volsi al suo viso ridente.

(Par. XXVII 88-96).

Il tessuto verbale del passo è tutto giocato sul rispecchiamento visivo: occhi del viator che cercano gli occhi della donna, e su questi si appunta l’attenzione come suggerisce la replicazione del sostantivo nei vv. 90 e 92; a questi rinviano viso (v. 96) e sguardo (v. 97).

9. Sia Virgilio che Beatrice si allontanano da Dante: allo stesso modo ma non con gli stessi risultati. Virgilio sparisce tacitamente e Dante, che vorrebbe confessargli il recuperato amore per Beatrice, voltandosi per parlargli non lo vede più. Lo stesso procedimento caratterizza l’allontanamento di Beatrice: «Uno intendëa, e altro mi rispuose: / credea veder Beatrice, e vidi un sene / vestito con le genti glorïose» (Par. XXXI 58-60). Alla richiesta ansiosa di Dante di sapere «ov’è ella» (v. 64), Bernardo risponde indicandogli dove la potrà vedere. E Dante la scorge nel luogo indicato: «sù nel terzo giro / dal sommo grado» (ibid., 67-68). Virgilio può sparire, assolta la sua funzione, dall’orizzonte di Dante, perché Virgilio è la poesia che Dante, col suo poema, ha superato; Beatrice, invece, resta sull’orizzonte dantesco perché rappresenta il tramite della nuova realizzata poesia. Il viaggio, iter ad Deum, è stato, parallelamente, viaggio verso la nuova poesia. Se la Commedia realizza il finale proposito della Vita Nova, dire di Beatrice quel che non fu detto d’alcuna, lo realizza con l’istituzione di un universo poetico da nessuno  – né così audacemente –  prima esplorato.

Nella restituzione di Beatrice al «trono che i suoi merti le sortiro» (Par. XXXI 69), al «beato scanno» (Inf. II 112) dal quale si era mossa per supplicare Virgilio di correre in aiuto di Dante nel punto in cui questi «chinava a ruinar le ciglia» (Par. XXXII 138), si ripropone quel tema della “distanza” che segna profondamente il rapporto del viator e di Beatrice. Figurativamente una tale distanza è rappresentata in modo iperbolico:

 

Da quella regïon che più sù tona

occhio mortale alcun tanto non dista,

qualunque in mare più giù s’abbandona,

quanto lì da Beatrice la mia vista;

ma nulla mi facea, ché süa effige

non discendëa a me per mezzo mista.

(Par. XXXI 73-78).

La distanza, enorme, tra il poeta e Beatrice è misurata tra due profondità, verso l’alto e verso il basso, quasi a darle tutta l’evidenza possibile. È una distanza che non impedisce la visione della donna amata («ché sua effige / non discendëa a me per mezzo mista», ibid. 77-78) ma ristabilisce la diversità di condizione dei due personaggi. Una diversità di condizione ipotizzata come superabile dalla speranza/certezza del viator:

 

La tua magnificenza in me custodi,

sì che l’anima mia, che fatt’ hai sana,

piacente a te dal corpo si disnodi.

(Par. XXXI 88-90).

Ma l’immagine ultima di Beatrice che il poema consegna al lettore è quella della beata che, dopo aver accennato il proprio gradimento per le parole a lei rivolte dal pellegrino riconoscente, si volge «a l’etterna fontana» (ibid., v. 93). Una Beatrice alta e «lontana» (v. 91)20 che, compiuta la propria missione, ritorna alla visione di Dio. Riapparirà nei due canti seguenti ma solo per essere ricordata per la collocazione a lei riservata nell’anfiteatro paradisiaco (Par. XXXII 7-9) o per il fatto d’essere la corifea della supplica corale alla Vergine in favore del poeta (Par. XXXIII 38-39). Due immagini, la prima soprattutto, senza particolare spicco; nulla aggiungono di decisivo o solo d’interessante alla figura della donna. Il ritorno di Dante a Beatrice è un distacco, definitivo ma pacificato. Il saluto/salute è stato restituito per non essere più ritolto. Ma il passo successivo del pellegrino non è più verso Beatrice, ma verso Dio, al di là di ogni intermediazione.

La vista interiore che attinge la visione beatifica è, ormai, diretta. E anche la conquista di una suprema poesia è realizzata, infine, senza più mediazioni21. La richiesta alla «divina virtù», di «prestarsi» tanto che fosse possibile al poeta manifestare almeno «l’ombra del beato regno» (Par. I 23) impressa nella memoria, è stata esaudita, e ciò che si narra nella parte conclusiva di Par. XXXIII è l’esaltazione del poeta che ha raggiunto un traguardo oltre il quale non si può più andare, per la semplice ragione che non c’è più un “oltre”:

 

A l’alta fantasia qui mancò possa;

ma già volgeva il mio disio e ’l velle,

sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Par. XXXIII 142-145).

Veramente Apollo «spira» nel petto del poeta, o lo ha fatto accogliendone il desiderio. Per questo Beatrice è stata, sia pur gloriosamente, ricollocata nella sua sede paradisiaca ma non è più protagonista, o coprotagonista, della svolta estrema della vicenda. Anche Beatrice è considerata, rispetto all’esperienza totale della visio Dei, solo una parte, sia pur eccezionalmente importante della vicenda che il poeta narra. Situata nella schiera degli altri “aspetti”, che non possono attrarre con la forza assoluta della luce divina:

 

A quella luce cotal si diventa,

che volgersi da lei per altro aspetto

è impossibil che mai si consenta…

(Par. XXXIII 100-102).

Del resto, Beatrice, dopo quel sorriso che raggia ultimo verso gli occhi del poeta e lascia della donna beata ancora una luminosa immagine, distoglie lo sguardo dal suo poeta e lo rivolge, come s’è già ricordato, «a l’etterna fontana» (Par. XXXI 93). Superata ogni memoria dell’amore terreno, superato ogni ritorno sulla poesia che lo aveva espresso, Dante può ritrovare Beatrice nell’amore eterno, quello che unisce tutti gli esseri nella tensione perpetua verso un solo oggetto: Dio, al quale la volontà d’ognuno adeguandosi trova pace (Par. III 85). La distanza resta; attenuata, non annullata dal comune ritrovarsi nella stessa aspirazione, nella stessa disposizione verso un amore senza limiti22.

 

 

 

 

 

 

N  o  t  e

 

1 Dante, Vita Nuova, 247.

2 Boccaccio, Trattatello in laude di Dante, 10 s.

3 Vita Nuova, II, 1-3, 28-31.

4 Vita Nuova, III 2, 37.

5 Vita Nuova, 33 n.

6 I tratti “mariani” impliciti di Beatrice possono essere resi espliciti da un accostamento della pagina vitanovesca al Magnificat: l’umiltà è il tratto saliente  («respexit humilitatem ancillae suae» : Lc 1, 48) e, conseguentemente, il distacco da ogni ombra d’insuperbimento («dispersit superbos mente cordis sui; / deposuit potentes de sede / et exaltavit humiles»: Lc., 1, 51-52). Sul tema, rapidi accenni in Gorni 1997, 150. Gorni ricorda la seconda stanza della canzone Li occhi dolenti, nella quale è possibile un accostamento tra le modalità della dormitio Virginis Mariae e quelle della morte di Beatrice a conferma dell’affinità Beatrice-Maria. Si può ricordare che al v. 28 di quel testo a Beatrice è riconosciuta una «gran benignitate» che sarà attributo anche della Vergine nella preghiera del Paradiso: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, …» (Par. XXXIII 16-17).

7 Si vedano sull’argomento almeno Gorni, 1990; Vecce 1992, 101-136.

8 Un percorso dell’evoluzione del personaggio di Beatrice traccia Pazzaglia 1997, 21-37.

9 Tutto si svolge in un clima di tale intimità da creare intorno al gesto fondamentale del saluto uno schermo di silenzio. Come ha fatto notare Aldo Vallone, l’espressione «si mossero [le parole del saluto di Beatrice] per venire», giungono all’anima del poeta, non al suo orecchio: «Le poche parole di Beatrice non colpiscono gli orecchi di Dante (il che sarebbe un fatto logico e normale, fisicamente concreto); ma sono colte nel loro formularsi, sottilmente e segretamente, e poi nel loro melodioso distendersi nello spazio breve, che tra i due intercorre. Se ne fissa la durata e l’intensità: l’una e l’altra per via di riflessi e suggestioni nel profondo specchio dell’anima» (Vallone 1976, 35-51).

10 Dante, Rime, 3: Testi, 2002,  236.

11 Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedia di Dante, 1994, I, 125.

12 Ibid., 133.

13 Virgilio stesso porrà decisamente l’accento sul limite delle sue spiegazioni:

E se la mia ragion non ti disfama,

vedrai Beatrice, ed ella pienamente

ti torrà questa e ciascun’ altra brama.

(Purg. XV 76-78).

Il rinvio a Beatrice ritorna ancora, e sempre a segnalare i termini entro i quali sono circoscritte le risposte del poeta latino: «Ed elli a me: “Quanto ragion qui vede, / dir ti poss’ io; da indi in là t’aspetta /pur a Beatrice, ch’è opra di fede”» (Purg. XVIII 46-48). Nello stesso canto del Purgatorio, Virgilio non solo esplicita la qualificazione del libero arbitrio ma sollecita il discepolo, quando passerà sotto il magistero della donna, a ricordare l’argomento qualora Beatrice ne facesse parola: «La nobile virtù Beatrice intende / per lo libero arbitrio, e però guarda / che l’abbi a mente, s’a parlar ten prende» (Purg. XVIII 73-75).

14 Il riferimento agli occhi di Beatrice è conforto in un tratto cruciale del viaggio dantesco, il passaggio tra le fiamme dell’ultima cornice del purgatorio, dove espiano i lussuriosi: «Lo dolce padre mio, per confortarmi, / pur di Beatrice ragionando andava, / dicendo: “Li occhi suoi già veder parmi”» (Purg. XXVII 52-54). Tutta la luminosa figura di Beatrice si riassume in quella forza degli occhi da Virgilio sperimentata quando la donna beata è intervenuta presso di lui in favore di Dante (cfr. Inf. II 55, 116-117).

15 Valga, ad esempio, quel che ne dice, dando una complessa interpretazione della grande sequenza purgatoriale, un recente interprete: «Il colpo di genio del poeta è stato quello di intrecciare nel grande ordito della rappresentazione simbolica la coppia Beatrice-Dante nelle vesti di protagonisti di una microstoria “vera” che rispecchia quella dei due sacri sposi del Cantico. In questo dramma si consuma e trova piena soddisfazione la dimensione mistico-lirica del viaggio dantesco come ritorno a Beatrice. Per quanto il tempo e le esperienze della vita li abbia mutati, Beatrice e Dante sono veramente i due amanti fiorentini di cui parla la Vita Nova, non per niente essi vengono individuati esplicitamente con i loro nomi propri (XXX 55 e 73). Il loro incontro nel giardino dell’Eden conclude veramente una storia d’amore privata, realizza un desiderio nato a Firenze un quarto di secolo prima. Ma in quanto incarna figuralmente il ricongiungimento dell’Anima con Cristo, questa storia ha a sua volta un significato sacro ed esemplare. Il personaggio Dante è anche figura di ogni anima che si liberi dalla schiavitù del peccato e sia riammessa alla presenza dell’amante tradito. Così, mentre vivono la loro “vera” vicenda, Beatrice e Dante inverano quella rappresentata nella processione. Senza di essi la visione sarebbe un’altra apocalisse immaginaria modellata sul Cantico…». Così Pertile, 1998, 39 s.

16 Beatrice, «regalmente ne l’atto ancor proterva / continüò come colui che dice / e ’l più caldo parlar dietro reserva» (Purg. XXX 70-72). L’asprezza dell’atteggiamento di Beatrice non è certo attenuata dalla corrispondenza della gradazione del suo discorso, come qui lo si configura, a una norma retorica, che Dante aveva annotato altrove: «Sempre quello che massimamente dire intende lo dicitore si dee riservare di dietro; però che quello che ultimamente si dice più rimane ne l’animo de lo uditore» (Conv. II viii 2).

17 Per questo tema si veda Baldelli 1992, 137-155.

18 Bertolucci Pizzorusso 1969, 7-16 (poi Ead. 1989, 199-207).

19 «La donna che scende dal cielo nel Limbo a salvare Dante dalla vita peccaminosa, e poi nell’Eden a provocare la sua confessione e a condurlo a Dio nel Paradiso, non è una santa canonizzata, né un angelo, o altra figura eminente della tradizione cristiana; è un’ignota giovane donna fiorentina, il cui solo titolo a questo compito è l’amore che Dante stesso le ha portato in terra»; così Chiavacci Leonardi 1997, 85.

20 Annota J. Scott: «Beatrice, “sì lontana / come parea” (notiamo come l’enjambement sottolinei l’infinita distanza) manda un ultimo sorriso al suo fedele prima di ritornare all’etterna fontana, Dio…» (Scott  2002, 486).

21 Sulla coincidenza di visione ‘totale’ e unitaria della creazione divina e di quella poetica, ha richiamato l’attenzione G. Güntert, che osserva: «Nel grande finale, i due miti  – religioso e poetico –  si sovrappongono fin quasi a coincidere» (Güntert 1999, 122).

22 Nel presente saggio s’è delineato un ‘possibile’ ritratto di Beatrice collegandolo ad un tema solo in apparenza collaterale. Per approcci diversi, per la storia del personaggio e la riflessione intorno ad esso e per necessari approfondimenti si rinvia alla bibliografia, sia a quella effettivamente utilizzata sia a quella di cui, pur senza espliciti rinvii, si è tenuto conto ed è registrata nell’elenco delle opere citate o consultate.

 

Opere citate

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[in “Quaderni d’Italianistica”, vol. XXVIII, n. 2, 2007, pp. 5-30.]

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