Le ragioni antiche dei ritardi del Sud

di Giuseppe Spedicato

É stato pubblicato da poco, dall’Editore BESA, con il contributo del Dipartimento di Storia, Società e Studi sull’Uomo dell’Università del Salento, un testo a cura di Franco Merico e Luca Carbone, dal titolo “Sociologia e sviluppo del Mezzogiorno”. I curatori hanno il merito di aver recuperato delle lezioni, tenute negli anni 2002-2003, dal compianto Prof. Gianni Giannotti, nel Corso di Laurea in Scienze sociali per la Cooperazione presso l’Università del Salento.

Le lezioni sono incentrate sui caratteri sociologici ed economici dell’arretratezza del Mezzogiorno, ed hanno, tra gli altri, il pregio di essere proposte in un’epoca dove non si discuteva ormai da tempo della “questione meridionale”, come se il Meridione non avesse più né rappresentanti presso il Parlamento, né una classe di intellettuali. Nonostante siano trascorsi tanti anni, le tesi di Giannotti restano ancora drammaticamente attuali, in particolare quando individua le cause del sottosviluppo del Meridione. Le attribuisce all’esistenza di una “fitta rete clientelare”, che blocca qualsiasi tentativo di sviluppo. Questa rete è frutto dell’antico latifondo feudale collegato alla criminalità. Tutto ciò ha partorito un potere autonomo da quello statale, un ceto di intermediari, che gestisce il potere reale in buona parte del Meridione. A dirigere il “gioco” è un ristretto gruppo di potenti locali, che controllano il territorio attraverso le Istituzioni pubbliche, rese funzionali ai loro interessi. Il vero affare è il controllo della spesa pubblica. È pertanto un potere parassitario, disposto a tutto pur di continuare ad arricchirsi e non ha alcun reale interesse a promuovere lo sviluppo del territorio. Le stesse politiche fatte passare per “politiche di sviluppo”, sono in realtà strumenti per deviare le risorse pubbliche verso interessi privati. Ciò avviene in un sistema di complicità e connivenze.

Il Meridione è quindi condannato ad essere una società sottosviluppata, dove regna la precarietà, un’economia di bassissima produttività, il ferreo controllo delle opportunità lavorative e quindi l’illegalità diffusa. Una società dominata da “gruppi predatori”, che riproducono una sorta di sistema feudale, dove vi è un welfare alternativo a beneficio dei potenti e degli amici dei potenti, dove il merito non può essere riconosciuto, dove vengono trascurate le reali attività produttive e premiate la rendita e l’occupazione improduttiva.

Giannotti intravede una via d’uscita attraverso la promozione di un’imprenditoria sana, ma anche attraverso un cambiamento radicale – nei risultati ma non nei modi e nei tempi -, a partire dalla cultura e dal costume. Tale cambiamento, però, incontra un ostacolo di non poco conto. L’intera Italia è ormai dominata da “gruppi predatori” e con la fine della via socialista i valori della tradizione umanista sembrano ormai tramontati.

Noi non possiamo che constatare che nel recente passato l’esistenza di forme specifiche di socialità e solidarietà hanno, tra le altre cose, facilitato non poco l’inserimento sociale dei tanti meridionali che si sono trasferiti nel nord Italia. Gli attuali immigrati trovano un’Italia molto differente. Per tale ragione spesso il parlare di “società multiculturale”, sembra solo l’occasione per esercizi di mera retorica, utile ad occultare i veri termini della questione. L’esprimere nobili intenzioni, sia che si tratti di sviluppo del territorio, che di accoglienza di immigrati, prescindendo dalla valutazione reale dei problemi e delle forze in campo, come invece ha fatto Giannotti, significa solo posticipare la risoluzione dei problemi. Dobbiamo prendere atto di avere non solo una debole cultura dei diritti e dei doveri, ma anche di avere una “coscienza” non adeguata a risolvere i nuovi problemi.

[2016]

 

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