La politica economica del Governo Gentiloni

di Guglielmo Forges Davanzati

Il Governo Gentiloni, in piena coerenza con il Governo Renzi, persevera nell’attuazione di una politica economica palesemente fallimentare, i cui principali ingredienti sono: moderazione salariale, detassazione degli utili d’impresa, riduzione degli investimenti pubblici. E’ interessante osservare che si tratta di misure che reggono su basi teoriche in larga misura superate e comunque molto fragili.

1) La tesi secondo la quale la moderazione salariale può attivare un percorso di crescita regge su un’ipotesi molto discutibile, sia sul piano teorico sia sul piano fattuale. La compressione dei salari – generata dalla crescente precarizzazione del lavoro – dovrebbe porre le imprese nella condizione di aumentare le loro esportazioni attraverso la riduzione dei costi di produzione e, dunque, dei prezzi. Occorre dunque ammettere che le esportazioni italiane siano trainate appunto dalla sola competitività di prezzo. Cosa che è empiricamente falsa o comunque da verificare per singoli settori. In linea generale, data la tipologia dei prodotti che esportiamo, ciò che maggiormente conta è la competitività non di prezzo, ovvero la qualità (effettiva o percepita) dei beni acquistati dai consumatori esteri. Si pensi, a riguardo, ai prodotti agroalimentari e, ancor più, al c.d. Made in Italy e ai beni di lusso.
2) La tesi in base alla quale la detassazione degli utili di impresa dovrebbe attivare crescita attraverso un aumento degli investimenti privati è teoricamente non scontata ed empiricamente falsificata. La detassazione è, infatti, una condizione al più necessaria ma non sufficiente per attivare nuovi investimenti, dal momento che questi dipendono essenzialmente dalle aspettative che gli imprenditori hanno sui profitti futuri. Seguendo una ben nota metafora di Keynes, riferita alla riduzione dei tassi di interesse per incentivare gli investimenti, “si può portare un cavallo alla fonte ma non per questo obbligarlo a bere”. Vi è di più. In una condizione istituzionale nella quale occorre rispettare i vincoli europei di consolidamento fiscale, la riduzione delle tasse sugli utili d’impresa riduce necessariamente la domanda interna: o perché occorre aumentare le tasse sul lavoro, con conseguente riduzione dei consumi, o perché occorre ridurre la spesa pubblica. Sul piano empirico, da diversi anni si registra che gli investimenti privati non aumentano – e in alcune fasi si riducono – al ridursi dell’imposte sui profitti. Ciò che certamente si produce è un aumento delle diseguaglianze.3) La tesi stando alla quale occorre utilizzare lo spazio fiscale disponibile per aumentare i trasferimenti monetari alle famiglie è anch’essa assai discutibile, per numerose ragioni. In primo luogo, in una condizione di elevata incertezza, nulla implica che tali trasferimenti si traducano (parzialmente o interamente) in maggiori consumi, potendo per contro far crescere i risparmi precauzionali. Cosa che è di fatto accaduta con l’elargizione degli ottanta euro in busta paga: oggettivamente uno spreco di risorse pubbliche, peraltro concepito molto male (eventuali successive riduzioni di reddito hanno comportato la restituzione). In secondo luogo, l’aumento (atteso) dei consumi – in una struttura produttiva che ha perso dal 2008 circa il 25% di produzione manifatturiera – rischia di accrescere le importazioni, vanificando l’obiettivo di una crescita trainata dal saldo positivo delle partite correnti derivante dalla moderazione salariale. In terzo luogo, se queste misure sono pensate come azioni di contrasto alla povertà rischiano di non risolverla e di incrementare consumi di beni e servizi che possono peggiorare la qualità della vita di chi ne beneficia. Si pensi, a titolo puramente semplificativo, alla ludopatia e, più in generale, a consumi di beni non di sussistenza e potenzialmente nocivi.

Occorre prendere atto che il principale problema dell’economia italiana è il bassissimo tasso di crescita della produttività del lavoro. Che dipende fondamentalmente dai seguenti fattori.

  1. a) La riduzione degli investimenti pubblici, dunque del tasso di accumulazione e della quantità e della qualità del capitale fisso. Si calcola, a riguardo, che le imprese italiane hanno, in media, impianti estremamente obsoleti, in alcuni casi di oltre venti anni. Si calcola, a riguardo, che l’effetto moltiplicativo degli investimenti pubblici, ovvero la loro capacità di accrescere la domanda effettiva, è di gran lunga superiore rispetto all’effetto moltiplicativo generato dai trasferimenti monetari finalizzati ad accrescere i consumi.
  2. b) Le politiche di precarizzazione del lavoro, in quanto pongono le imprese nella condizione di competere riducendo i costi e, dunque, agiscono come disincentivo per le innovazioni.
  3. c) Le politiche di sottofinanziamento dell’istruzione e della ricerca, settori che – con ogni evidenza – sono trainanti ai fini della crescita.

L’irrazionalità della reiterazione di politiche che non raggiungono i risultati attesi, e che anzi accentuano la lunga recessione italiana, deriva anche dal fatto che tali politiche sono pensate nell’ambito di una teoria economica obsoleta, dominante prima della crisi, incapace di prevederla, e abbandonata in molti altri Paesi. Il che conferma un problema ricorrente nella storia recente dell’economia italiana, ovvero far dopo e far peggio quello che altri Paesi hanno fatto prima e meglio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 12 Luglio 2017]

 

 

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