Di mestiere faccio il linguista 21. Libertà e limiti nell’uso della lingua

di Rosario Coluccia

 Questa volta la nostra rubrica settimanale parte dalle sollecitazioni dei lettori, come spesso è capitato nei mesi precedenti. Ne scelgo alcune, vengono da lettori tra i più affezionati che già altre volte hanno posto domande interessanti. Le elenco nell’ordine in cui mi sono pervenute. E mi scuso se un po’ ho tardato a rispondere, gli argomenti della rubrica sono spesso legati all’attualità, suggeriti da quel che capita nella nostra lingua quotidiana.

Il sig. Luigi Misciagna scrive: «Risulta un ammanco DA € .….; Il bilancio è DA € …..; Il buon risultato DA € .….. Sono esempi dell’uso generale della preposizione DA invece di DI, specie nei  giornali, e non è pensabile che si voglia significare ‘a partire DA  …..’ perché l’ammanco (o il bilancio o il risultato) è solo uno. La Crusca non può in qualche modo intervenire perché la questione venga chiarita?». Si può avvicinare alla precedente la questione sollevata dal prof. Giovanni Bernardini, di Monteroni:  «Leggo spesso o ascolto frasi del genere: “Non ti lasceremo da solo”. Non suonerebbe meglio senza il “da”, cioè “Non ti lasceremo solo”? Viceversa il “da” va messo in frasi come: “Ho scavato questa buca da solo”. Un dettaglio trascurabile?». Il prof. Luigi Pranzo, di Torre Santa Susanna, mi chiede se sia preferibile usare l’espressione «Carabinieri in abiti di alta uniforme»  oppure «Carabinieri in alta uniforme». Chiudono la lista due amici di cui ometto il titolo di studio che agli stessi compete, non riesco ad essere così formale. Simone Mele di Lecce mi scrive: «Oggi  [17 aprile 2017] un titolo di giornale recita: “morto durante una battuta di pesca”. È corretto dire “battuta”? La battuta non è solo di caccia?». Pietro Montinari di Galatina mi manda una mail che ha come oggetto “Incernierare…e dintorni”. Ecco il testo: «La collaboratrice di mia madre, attenta “a vista d’occhio”, ogni giorno di più alle cose della lingua italiana, mi chiede se esista un lemma che rappresenti l’azione dell’aprire e del chiudere la cerniera del giaccone, appurato il fatto che esiste – secondo il Sabatini-Coletti dal 1983 – il vocabolo incernierare che però significa ‘predisporre, applicare la cerniera’ non ‘utilizzarla’. La signora si chiede se ci sia una lacuna nel lemmario della nostra lingua. È così? E se è così, si potrebbe rimediare con un neologismo ? È materia codesta di esame della Crusca?». Aggiunge in un secondo messaggio: «Il Conciso Treccani forse colma quella che parrebbe essere una lacuna di altri pur pregevoli dizionari […]. Ecco la descrizione del lemma: ‘munire di cerniere; collegare mediante cerniere’».

Partiamo dal fondo, dall’ultima questione. Montinari ha agito intelligentemente, ha fatto quello che ognuno deve fare quando sorgono dubbi sulla possibilità di utilizzare correttamente parole della nostra lingua, a partire dal significato: consultare il vocabolario, possibilmente più di un vocabolario, la ricchezza dei riscontri è fondamentale. Abbiamo ottimi vocabolari, almeno cinque o sei: De Mauro, Devoto-Oli, Garzanti, Sabatini-Coletti, Treccani, Zingarelli. Se si tratta di un termine nuovo, inesistente nei vocabolari, possiamo consultare la banca dati dell’«Osservatorio neologico della lingua italiana» (http://www.iliesi.cnr.it/ONLI), che registra le novità presenti nei principali quotidiani nazionali e anche in molti a diffusione locale. Possiamo verificare sul nascere il continuo arricchimento e l’evoluzione del lessico italiano dagli anni novanta del XX secolo a oggi. I mezzi di comunicazione (giornali, radio, televisione, rete) svolgono un ruolo decisivo nella diffusione dei neologismi. Vi si osservano, come al microscopio, le parole nuove che cominciano a vivere nella nostra lingua. Saranno poi i parlanti a decidere se entreranno nell’uso generale o se, dopo qualche tempo, verranno abbandonate.  Ricordate il petaloso di qualche mese fa? Se ne fece un gran parlare, tutti lo usavano, politici, giornalisti, attori, sembrava che l’Italia non potesse comunicare senza petaloso. Oggi la parola non si sente più, il bambino che l’ha inventata può continuare a fare il bambino e la furba maestra che l’ha promossa può risparmiarsi di apparire in televisione.

Veniamo alle prime due domande, entrambe collegate all’uso della preposizione «da». Questa preposizione ha nella nostra lingua alcuni valori fondamentali (non mi dilungo in dettagli, esistono molte sfumature diverse): provenienza («vengo da Milano»), origine-causa («Abele fu ucciso da Caino»), caratterizzazione («la bella Isotta dalle bionde trecce»), destinazione-vincolo («arnesi da taglio», e anche «un vestito da duecento euro»). L’ultimo esempio è simile a quelli indicati da Luigi Misciagna, che quindi possiamo ritenere sostanzialmente accettabili: indicano un ‘superamento di limite’, voglion dire ‘all’incirca’ e anche ‘a partire da’. La formula «un ammanco DI € 2.000» è più precisa rispetto a «un ammanco DA € 2.000». Ma se l’ammanco in realtà fosse di 2.001 euro, nessuno ci baderebbe, in una conversazione comune (non, ovviamente, se si trattasse di una richiesta precisa proveniente da un banca). Diversi sono i casi in cui l’alternanza tra «da» e «di» produce differenze di significato: “libro di viaggio” e “libro da viaggio”, “tazza di caffè” e “tazza da caffè”. Condivido l’opinione del prof. Bernardini, anch’io direi  “Ho scavato questa buca da solo”, è un caso di caratterizzazione (vedi sopra). Risponde a un’opzione stilistica la scelta tra “Non ti lasceremo da solo” e “Non ti lasceremo solo”. Non esiste una regola rigida. La lingua in molti casi ammette la variazione come variabili (nei sentimenti, nell’ideologia, nei comportamenti e anche nell’aspetto) sono gli uomini e le donne che usano la lingua.

Tra «Carabinieri in abiti di alta uniforme» e «Carabinieri in alta uniforme» va senz’altro preferita la seconda espressione, più concisa ed efficace. Vasco Pratolini così scrive nel meraviglioso La costanza della ragione (un libro del 1963 che oggi pochi leggono e che consiglio a molti): «Ivana e Millo sedevano accanto, stavano bene insieme a guardarli, “vestiti in alta uniforme”, come Millo disse». Nell’altrettanto meravigliosa Bocca di rosa del 1967 Fabrizio De Andrè canta: «Spesso gli sbirri e i carabinieri / al proprio dovere vengono meno / ma non quando sono in alta uniforme, / l’accompagnarono al primo treno». Diversa la scelta di Aldo Palazzeschi (Cuor mio, 1969): «Salutare l’amico o conoscente, / ammirarlo in grande uniforme, / e prestarsi al giudizio della gente, / quasi sempre severo, / benevolo rarissimamente». Le due espressioni «in alta uniforme» e «in grande uniforme» rimandano entrambe a un ‘abito o divisa di gala indossata per importanti occasioni ufficiali o per determinate cerimonie’. Per concludere: «in alta uniforme» va meglio, «in grande uniforme» si può usare, lasciamo stare  «in abiti di alta uniforme».

E infine ragioniamo su «battuta di caccia» e «battuta di pesca». Simone Mele ha ragione. La parola battuta indica una partita di caccia effettuata con l’aiuto di cani e di battitori per far levare la selvaggina. Esiste anche un uso estensivo, il termine può indicare una ricerca fatta da più persone muovendosi in un dato territorio. Ma certo non si può adattare alla pesca, se i pescatori battessero le acque del mare otterrebbero l’effetto contrario al loro scopo, i pesci si allontanerebbero.

Cosa lega le domande che i lettori mi rivolgono? Azzardo una risposta: l’attenzione per la nostra lingua, che tutti vogliamo amata e ben trattata. Dubbi frequenti ci assalgono, anche dopo anni di studio; ne sono coinvolti professionisti della comunicazione, professori, giornalisti. Esiste una bussola, come orientarci? Molti reclamano regole precise nello scritto e nel parlato, pur se l’oralità è per sua stessa natura più immediata rispetto allo scritto. Spesso la rigidità non è possibile, la lingua può oscillare, la coesistenza di forme concorrenti è ammessa. Non dobbiamo essere nemici della variazione, a condizione che non si violino regole sancite dalla norma grammaticale e condivise dall’uso. Forme variabili sono consentite, come in qualche caso che abbiamo visto prima. Non preoccupiamocene, la lingua ammette una certa libertà, entro certi limiti. Ma attenzione: l’errore è errore, va sempre bloccato. «Se avrebbi saputo» è un errore, va censurato a scuola e nella comunicazione quotidiana. Quando occorre,  con giudizio, professoresse e professori usino la matita rossa e blu. La tolleranza (anche in linguistica) ha dei limiti.

 

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 16 luglio 2017]

 

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