La tristezza di un tempo senza maestri e senza allievi

Viviani e Galilei nel dipinto di Tito Lessi (1892)

di Antonio Errico

Un tempo senza maestri è questo tempo. Non ci sono più maestri nelle arti, nei mestieri; non ci sono più maestri di pensiero. Nessuno assume come riferimento un altro che ha avuto le stesse esperienze, meno che mai lo considera come un modello. A volte questo è brutto, qualche volta è bello. E’ brutto quando accade con l’intenzione di cancellare tutto quello che è accaduto prima; è bello quando significa rinnovare completamente un sistema, una forma, una struttura. E’ bello quando avviene con umiltà, con consapevolezza; è brutto quando avviene con arroganza, con sfrontatezza, oppure con ignoranza.

Un tempo senza maestri è questo tempo. Chiunque si sente autorizzato a ritenere che stia inventando lui quello che sta facendo, che prima di lui nessuno abbia prodotto niente, oppure che quello che sia stato prodotto è ormai scaduto, non ha più significato, non serve. Qualsiasi storia diventa epocale. Invece poi scompare, nel volgere di un breve tempo. Mentre i capolavori restano e restano i pensieri che hanno segnato per davvero un’epoca, più epoche. Mentre restano i classici.

Però, nonostante le innumerevoli dimostrazioni, il costante ribadimento, le continue conferme, non si sente più la necessità di considerare qualcuno come un maestro. Sembra che tutto stia cominciando in quel momento: che in quel momento, per esempio, cominci la poesia, la pittura, la filosofia, la falegnameria, la meccanica, il gioco del pallone. Sembra che in quel momento cominci il giornalismo, la narrativa, l’insegnamento, il cinema, la musica, l’architettura, la conduzione di un’azienda, quella di una nave. Sembra che il mondo stia cominciando in quel momento, e che sia indispensabile inventare il giorno e la notte, e dare il nome agli esseri e alle cose, come nell’istante della creazione, dettare le regole e stabilire le condizioni dell’esistenza, senza valutare che il mondo è cominciato un’altra volta, che gli esseri e le cose un nome già ce l’hanno, che le regole e le condizioni dell’esistere si sono conformate e stratificate negli anni, nei secoli, nei millenni.

Non si considera. Quello che c’è stato prima non conta. Chi c’è stato prima non conta. La Storia non conta. Molte condizioni contribuiscono a determinare questa situazione. Per esempio la trasformazione rapidissima di ogni cosa, soprattutto degli strumenti con cui si agisce in un qualsiasi settore, oppure, più profondamente, dei concetti che costituiscono gli elementi fondamentali di un’arte, di un sapere.

Ma maestro non è soltanto colui che possiede gli strumenti di una disciplina. Maestro è soprattutto colui che possiede la capacità di insegnare.

Probabilmente non è il maestro che stiamo rifiutando. Probabilmente non abbiamo più una disponibilità ad accogliere l’insegnamento. Non pensiamo che ci sia qualcuno in grado di insegnarci qualcosa. Sappiamo già tutto oppure pensiamo che quel poco che non sappiamo non abbia rilevanza e che comunque possiamo apprenderlo da soli, con quegli strumenti che si sono evoluti e che magari colui che ha fatto la stessa arte prima di noi non sa o non vuole impiegare perché non intende improvvisare. La supponenza, la tracotanza, la presunzione, sono concentrate in questo pensiero, nella fantasia che non si abbia niente da imparare o che nessuno possa insegnarci quello che dobbiamo imparare.

E’ in questo modo che si diventa estranei alla storia di un’arte, di un mestiere che ci riguarda. E’ in questo modo, ritenendosi autosufficienti nell’apprendimento, che si rimane separati e isolati dal divenire di quell’arte, di quel mestiere. E’ per questa ragione che non si potrà diventare mai maestri, non si potrà mai insegnare qualcosa a qualcuno, trasmettere insegnamenti. Certo, la trasmissione dell’insegnamento è un’espressione impropria, inadeguata, anacronistica. Traduce il concetto di un passaggio di conoscenze e competenze senza nessuna rigenerazione. Un sapere non si trasmette, non si dà in consegna così e semplicemente, ma lo si rielabora. E’ questa rielaborazione che accade, sostanzialmente, in un processo che integra l’insegnamento e l’apprendimento: è un dialogo tra conoscenze, esperienze, prove, errori, ripensamenti, riformulazioni, che conducono ad un sapere costituito dall’impasto del sapere, forse più maturo e prudente di colui che insegna, con quello, forse meno maturo e più appassionato, di colui che apprende.

A volte è bella l’assenza dei maestri, si diceva. Però occorre precisare che non è bella l’assenza: è bello il superamento del maestro, lo sviluppo del suo insegnamento, l’oltrepassamento della soglia sulla quale egli si è fermato. In fondo, la suprema aspirazione di ogni maestro, di ogni vero maestro, è proprio il superamento da parte del suo discepolo.

Non è questo, però, che accade nella condizione della contemporaneità. Accade la rimozione, l’oscuramento. Ci liberiamo dai maestri e dal loro insegnamento, quasi che maestro e insegnamento possano costituire uno sbarramento al passo del nuovo che avanza, un impedimento all’espressione della nostra idea, una contaminazione dell’originalità, una pastoia alla creatività, un vincolo che contamina e mortifica l’autenticità del nostro lavoro, della nostra opera. Così cominciamo la strada, la percorriamo, arriviamo fino in fondo, senza guardarci indietro mai, senza nemmeno guardarci intorno, nella nostra presunzione di maestri di noi stessi, nella nostra solitudine di irriconoscenti. Andiamo avanti così, senza maestri e senza allievi, con un’arte, un mestiere, che hanno principio e conclusione nei punti esatti in cui cominciamo e concludiamo, che di conseguenza risultano molto spesso minati da un’aridità irrisolvibile, da un insignificanza del loro stesso esistere.

Il senso di un’arte, di un mestiere, probabilmente è custodito nell’origine che hanno e nelle prospettive di sviluppo che propongono. Ignorando l’origine con la negazione del maestro e negando le prospettive con la scomparsa dell’allievo, stiamo semplicemente decretando la fine di ogni arte e di ogni mestiere.

Se è questa la condizione che vogliamo determinare, basta solo continuare a fare nel modo in cui stiamo facendo. Se invece vogliamo lasciare qualcosa a qualcuno, dobbiamo cominciare a riconoscere l’importanza di chi ci ha lasciato qualcosa. Anche perché un tempo senza maestri è un triste tempo.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 23 luglio 2017]

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