Quel desiderio degli angeli caduti a Finibusterrae (racconto di Ferragosto)

di Antonio Errico

– Siediti qui, qui accanto, chiudi gli occhi. Se chiudi gli occhi da qui si vede l’infinito, la chiarità e la tenebra, la quieta turbolenza, l’altezza smisurata, l’abisso senza fondo, la splendenza delle stelle, la loro cieca morte. Siediti qui, qui accanto, chiudi gli occhi.

– Sono inquieta, Silenio. Ho un’inquietudine dentro, infossata, rovente.

Siediti qui, qui accanto. Chiudi gli occhi. Se chiudi gli occhi da qui si vede l’infinito di cielo e mare, l’illimitata lontananza, la luce che non si sa da dove venga, l’immobilità dell’aria, il mutamento del vento.

-C’è un limite, Silenio, per tutte le cose. C’è un limite anche per il mare e per il cielo.

-Se chiudi gli occhi il limite scompare.

-Se chiudo gli occhi tutto scompare. Tutto.

– Ti sbagli, Aliosse. Se chiudi gli occhi puoi immaginare tutto quello che non vede il tuo vedere. E’ quella la realtà, Aliosse. E’ il tuo pensare. Soltanto quella. Tu non considerare il limite che intravedi all’orizzonte. Tu chiudi gli occhi e vedrai sempre un oltre. Basta un solo istante e sparirà la notte. Poi un altro solo istante e si accenderà il cielo. In un istante avrai un’ alba ed un tramonto, avrai l’abbaglio di un raggio o una tenerezza di stella, l’esplosione di un riverbero o la sua smorenza.

Se ad occhi aperti tu avverti un desiderio, con gli occhi chiusi ne avrai il compimento.

– Tu deliri, Silenio. Ti confondi con Dio. Quello che stai dicendo non mi piace. Anzi m’inquieta di più, mi frastorna. Io voglio vivere solo il giorno che mi tocca. E’ questo il desiderio.

– Sì, lo ammetto. Io credo che con il pensiero ciascuno di noi possa essere un dio. Io posso sprofondare quella luna dentro il mare, trasformare i tuoi capelli in un’ala di gabbiano, di queste ginestre posso fare rose, e posso cambiare il nome delle cose, dirti che le dune una volta erano montagne, che invece dei giunchi c’erano foreste. Io posso dirlo, Aliosse, e tu non puoi smentire.

-Te lo ripeto, Silenio, il tuo parlare mi inquieta. Ho freddo, adesso. Voglio ritornare.

– Dove vuoi ritornare, Aliosse. Dove. Lì, da dove veniamo, non si ritorna. Ascolta. Sono stato dentro i vichi l’altra sera. Mi accostavo agli usci delle case. Ascoltavo sussurri, ninnenanne, cantilene. Ascoltavo fragori di risa, singhiozzi trattenuti. Da lontano mi giungeva il lamento straziato dei corvi di mare. Ho pensato che qui le cose hanno piccole misure. Sono piccole anche le nuvole, se pensi. Anche le ombre sono piccole, quasi le spaventi lo spandersi sul suolo, l’ allungarsi sopra i muri.

Ho l’impressione che siano piccole, qui, anche le solitudini.

Forse diventa tutto piccolo perché ognuno ha dentro il mare.

Noi non sappiamo che cosa voglia dire aprire gli occhi e vedere il mare, una volta, la prima volta il mare. Da quell’istante in poi ogni visione, ogni pensiero si commisura al mare. Sono stato dentro i vichi, ti dicevo. Il vento portava grumi di salsedine.

All’improvviso mi è arrivato un canto, sommesso, leggero. Un sospiro. Un affanno. Per un istante ho sentito come l’acerbità di un dispiacere, come la nostalgia di cose che non ho mai conosciuto, che non ho avuto mai. Per un istante solo l’ho sentito.

– Ti confesso che accade anche a me, Silenio. Alle volte mi accade. Però mi domando come si possa sentire la mancanza di quello che non si è mai avuto, soffrire per l’assenza di chi non c’è mai stato. Allora mi rispondo che è un desiderio. E’ il desiderio di essere chi non siamo, chi non potremo essere mai. Io darei la mia eternità per un giorno da umana creatura. Per essere solo un’ora, soltanto un minuto, l’uomo, la donna che vedo, il vecchio, il bambino, l’ubriaco, il folle, il cieco, per potermi addormentare e risvegliarmi, per poter ridere e piangere, per avere una gioia e un dolore. Per vivere, Silenio, per vivere un giorno soltanto io darei l’eternità che m’incatena.

– Tu straparli, Aliosse.

– No no. E’ così. Tu lo sai bene. Tu non lo dici, non lo puoi dire, però lo sai bene. Tu non hai niente, Silenio. Io non ho niente. La tua, la mia eternità non hanno senso.

– Adesso sì. La tua, la mia eternità adesso un senso ce l’hanno.

– Quale, dimmi.

– Qui, su questa terra che è confine, dentro questa bellezza, tra queste rovine di cattedrali, di torri, dentro questi profumi di oleandri, di gelsi, nella vertigine delle albe, nella furia dei tramonti, qui, dove gelate e siccità devastano i giorni, la tua, la mia eternità, adesso, qui, hanno un senso.

– Quale, dimmi.

– Da qui noi possiamo raccontare.

– Io non so a chi posso raccontare.

– A te stessa, Aliosse. Non si racconta ad altri che a se stessi. Racconta quello che hai visto, quello che vedi, quello che hai sentito, quello che senti, racconta quello che hai sognato, quello che sogni, racconta le insonnie che ti trafiggono gli occhi, se vuoi, l’impeto dei trasalimenti. Racconta il tuo desiderio di essere chi non sei, chi non potrai essere mai.

– Non mi serve l’eternità per raccontare.

– Ti sbagli. Ti serve l’eternità per raccontare anche solo l’increspatura di un’onda, soltanto di un’onda , il suo incessante cambiare di forma, cambiare colore, la sua crescenza, la sua estenuazione, lo schiantarsi disperato contro la scogliera.

– Sei tu che ti sbagli. Io posso raccontare le cose che ho visto, le cose che vedo, che ho sentito, che sento, che sogno, pronunciando una sola parola. Anche l’eternità posso raccontare con una parola. Mi basta pronunciarla. Eternità, dico. Dico così e l’ho raccontata.

Ma poi. Io non ho niente da raccontare. Quello che vedo, che sento, mi passa indifferente.

-Racconta i tuoi ricordi, allora.

– Mi stai beffando, Silenio. Stai beffando te stesso. Noi non abbiamo ricordi. L’eternità non contempla i ricordi. Noi siamo in un presente che muore continuamente.

– Allora ruba loro i ricordi. Fingi che ti appartengano, che siano tuoi. Racconta i loro ricordi come se fossero tuoi. Raccontati i loro ricordi e sarai ciascuno di loro. Avrai il destino che appartiene a ciascuno di loro. Avrai il loro cuore che batte a fatica. Il loro respiro pesante. La loro pena. Avrai la stanchezza degli occhi, il corpo sfregiato dai giorni, avrai fortune e sfortune, gioventù e vecchiezza, avrai il tremore alle mani, il rimorso, il castigo, l’arsura delle estati, il gelo degli inverni, anche qualche piacere avrai, ma raramente, e avrai travagli, rabbie, rancori, pentimenti, anche bellezze avrai, ma raramente, e pagherai anche le rare bellezze, pagherai gli insoliti incanti, le estenuate dolcezze, pagherai un’emozione, un sollievo, una quiete.

Avrai la loro vita. La loro morte. Adesso dimmi se è questo che vuoi.

– Sì. Io voglio i loro destini, Silenio.

– Allora ruba loro i ricordi e raccontali a te. Ti dicevo che sono stato dentro i vichi l’altra sera. C’era un uomo seduto sulla soglia che aveva gli occhi bianchi e raccontava di pirati e vicerè, di torri e scorrerie, di monaci che volavano sulle vigne d’uva nera, di Orienti senza notte e profanate cattedrali, dei naufragi di velieri misteriosi, di porti depredati, incendi di granai, di monasteri con libri sibillini, di cavalieri senza testa, splendori e carestie. Con gli occhi bianchi appoggiati nel vuoto raccontava. Ma non erano ricordi. Erano sognamenti. Ambigui sconnessi confusi sognamenti. Però avevo la sensazione che fosse felice.

– Spiegami che cosa significa la tua sensazione.

– Non so dire che questo. Ho avuto la sensazione che fosse felice.

– Puoi dirlo con altre parole, ne sono certa.

– Non lo so dire. Ma mi pareva che i sognamenti gli portassero una specie di felicità. Così puoi fare tu, Aliosse, se credi. Genera sognamenti. Ambigui sconnessi confusi sognamenti. Poi raccontali come fossero ricordi. I ricordi di cui senti il desiderio. Solo un racconto dell’uomo mi sembrò che avesse un senso. Solo un racconto mi sembrò un ricordo vero.

– Dimmi il motivo di quel sembrare.

– Mentre raccontava i suoi occhi bianchi piangevano.

– Sono stanca, Silenio.

– Un pensiero si è fermato nel pensiero l’altra sera.

– Dimmi.

– Domani. Adesso dormi, sei stanca.

– No. Adesso. Non sarò meno stanca, domani. Non sarò mai meno stanca di adesso.

– Pronunci le parole con le quali loro dicono il tempo, Aliosse, rifletti. Hai detto mai domani adesso.

– Già. Mai domani adesso. Anche tu pronunci le stesse parole. Mai domani adesso. Dimmi che cosa hai pensato l’altra sera.

– Ho pensato che a noi è stato dato il privilegio di cadere in questo luogo. A me e a te.

– Cadere non è mai un privilegio.

– Tutti gli angeli cadono, prima o poi.

-Allora cadere in un luogo o in un altro non fa differenza.

– E’ la bellezza la differenza.

– Io non vedo una bellezza.

– Hanno una bellezza, qui, le cose, Aliosse, che a volte non si riesce a vedere. E’ nascosta nella trasparenza dell’aria, nel vento, nel vuoto, nelle parole dette e in quelle taciute, dietro i volti delle creature, sul fondo degli occhi scuri.

– In ogni luogo esiste una bellezza così, delle cose e delle creature.

– Forse sì, forse sì. Ma adesso noi viviamo qui.

– Noi non viviamo qui, Silenio. Noi non viviamo. Il nostro esistere è un artificio di Dio. Noi siamo la contraddizione degli uomini, la contraddizione degli angeli. Siamo stati trasformati in uomini con il destino degli angeli. Tu non sei mai nato, non morirai mai. Non avrai dolori, pietà, fantasie, non avrai noia né ebbrezza né speranza, non avrai stupori mai, non avrai malinconie. Sono certa che l’uomo piangeva perché quello che ti stava raccontando gli mancava. Tu non avrai nemmeno una mancanza. Dimmi, Silenio, se il cielo ti manca.

– No, non mi manca.

– Ecco. Neppure il cielo ti manca. Neppure il cielo tu puoi raccontare.

– Forse hai ragione, sì. Forse hai ragione. Non parlare più, dormi, adesso, Aliosse. Forse nel sonno ti verrà il racconto di me e di te, qui, su questa terra. Forse nel sonno sognerai i ricordi, i desideri che mi racconterai. Domani, Aliosse. Domani. Adesso dormi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, martedì 15 agosto 2017]

 

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