Quel che posso dire di Gianluca Virgilio

di Augusto Benemeglio

  1. Romanzo circolare

Con Gianluca Virgilio, persona di estrema affabilità, uomo raffinato di lettere, di penna e di squisita profonda umanità, ci conosciamo ormai da anni. E’ uno scrittore essenziale, la sua prosa è chiara, netta, cristallina, scorre come acqua di sorgente, e tocca rapidamente i punti nodali del tema che vuole affrontare. In quasi tutti i suoi scritti non manca mai – unita alla denuncia e alla critica delle mille e una cosa che non funzionano nella sua amata città (Galatina) e nella scuola – una buona dose di sana ironia e autoironia che però non sfocia mai in vera e propria satira. La sua solida formazione culturale (“Di soldi non ne avevamo mai avuti, ma di libri sì, sempre di più. Migliaia e migliaia), e uno spiccato senso civico che lo anima e lo sprona, lo occupa – da sempre – a cercare di convertire tutta l’approssimazione, la confusione, la sciatteria, il vandalismo, la mancanza di ogni forma, il caos e il kitsch che ci circonda, all’esattezza, alla nitidezza, alla trasparenza delle cose e dei fatti, al senso di responsabilità e di solidarietà, come fatto etico sociale e morale, tutte cose (oggi quasi utopistiche) che forse ci consentirebbero una vita più piena e consapevole di noi stessi, più armoniosa, o meno angosciosa, certamente più rispettosa degli altri e del bene comune. Lui precisa: “Ho scritto solo ciò che potevo dire; del resto ho taciuto, come è bene che accada quando non si può dire nulla senza adeguata motivazione. Nel titolo non va letta nessuna autocensura, ma soltanto il naturale limite della scrittura”. In realtà Virgilio scrive da sempre le stesse cose, e lo fa da uomo libero, senza reticenze, timori o condizionamenti, con esatta coscienza di sé e degli altri, da uomo integro, onesto, potremmo dire da educatore illuminato. E lo fa non per riuscire a guadagnare la fama, che è il meno, né l’ammirazione della gente, che è il nulla, ma il rispetto, che è tutto. Da “Vie traverse” a “Infanzia salentina”, da “Vita nuova e altri racconti” a “Così stanno le cose” , continua a tessere una sua tela, o un mosaico, che diventa una sorta di “romanzo circolare”. Fateci caso, i temi sono sempre gli stessi: l’infanzia, con la campagna, gli alberi, la città, la scuola, la natura, i libri (momenti magici, rapimenti, quasi sogni ad occhi aperti), il viaggio, i racconti brevi (quasi dei flashes irrelati) e gli incontri che hanno segnato la sua vita. (Chissà magari, anche lui, come Borges, avrebbe voluto essere stato uno degli uditori di Socrate, in quella sera della cicuta, quando analizzò serenamente il problema dell’immortalità?).

Fatto sta che in quest’ultima fatica, “Quel che posso dire”, Edit Santoro ( 2016), Virgilio non si smentisce. In lui non troveremo mai Schiller, le candele sulla tavola, Only you, Schumann, i tramonti, lui e lei su una vecchia Lambretta, o la signorina che suona Chopin al pianoforte seviziando un “Notturno”. Gianluca non è un romantico, e tuttavia sa essere elegiaco e anche lirico nelle “Passeggiate con Ornella” lungo i percorsi della memoria della sua infanzia e adolescenza, a retu a lu carcere e a retu a Sant’Antonio, o a Rudiae (“Siamo romani noi che un tempo fummo di Rudiae”). Gianluca ha un modo concreto di sentire la realtà, non è mai arbitrario, né ama fantasticare, e tuttavia anche nei racconti più scabrosi come “Servizio militare” e “ Il viaggio di Antonio” riesce a trovare una via di fuga che sa insieme di pietà e di tenerezza, di ingenuità, che è purezza interiore.

  1. Vicini di pagina

Per un certo periodo siamo stati “vicini di pagina” su “Il Galatino” di Galatina, lui con una rubrica che aveva proprio il titolo di questo suo ultimo libro, “Quel che posso dire”, io di fianco con “Cos’hai da dire?”. Era stato un suo invito, accolto con molto entusiasmo dal sottoscritto, perché mi consentiva di rispolverare i miei ricordi salentini, dove ho vissuto a lungo (quasi un trentennio), e dove, forse, ho imparato a scrivere.
Che dire ancora di questo suo ultimo libro? Che vive di una continuità e, insieme, di circolarità con gli altri suoi precedenti scritti, come già accennato. Potremmo dire che è un altro spartito musicale, – che è poi quello della vita, o, meglio, dell’esistenza – con variazioni sul tema. Fatti, suoni e parole, in questo libro, si abbracciano, si stringono tra loro, s’intrecciano, ma talora si scontrano, fanno splash, e s’ode come il fragore musicale di un’onda di risacca. Tutti quei suoi articoli-saggi-racconti-elzeviri-ricordi-incontri che pubblica abitualmente su “Il Galatino”, lui in un certo modo li monta una volta, e poi li rimonta una seconda volta, un po’ come si fa con i film, per farne un libro. Ma il processo mentale cambia radicalmente, non è più lo stesso articolo che tu hai letto sul giornale; lo fa diventare più moderno, più incisivo, più vivo e mobile, come nel moto delle foglie cadute e rispuntate verdi, più in alto o più in basso. Mi ricordo un’affermazione sbalordita dell’attrice Woopi Gooldberg (“Il colore viola” di Spielberg), dopo aver visto, nel film, tutta quella incredibile profusione di fiori viola: “Ma ieri, quando abbiamo girato la scena, non c’era niente, neppure un fiore!!” . Le parole che leggiamo nel libro sono più o meno le stesse, ma è la musica, che disegna un’ellisse invisibile nell’aria, che è diversa. E il “tutto” costituisce un unicum, una sorta di chronica galatinese, che si fa “romanzo” dei nostri tempi in cui non esistono romanzieri. (“Veramente – sostiene La Capria – l’Italia non ha mai avuto romanzieri. Se andiamo a guardare tutta la storia della nostra letteratura scopriamo che in fondo i romanzieri che valgono davvero sono pochi. E’ possibile che ci sia una natura in noi che non è fatta per il romanzo”.)

  1. Una coscienza che si interroga

“Ma quale romanzo?”, ribatte lui. “Scrivo solo e sempre ciò che la vita mi detta giorno per giorno… piccoli brani d’esistenza… Penso che la vita non abbia trama, ma solo orditi, innumerevoli orditi, tanti quanti sono i casi che ci sono capitati e dei quali siamo responsabili solo in parte”. Ma caro Gianluca, se è vero che il romanzo ha sempre “al centro una coscienza che s’interroga”, senza mediazioni, le tue non sono altro che interrogazioni, e anche quando sembrano cose quotidiane e apparentemente banali, sono questioni vitali per la crescita di un popolo, come ad esempio “Politica e cultura” (p. 13), con il concerto del cantante famoso, la conferenza del critico d’arte televisivo, il grande e costoso evento mediatico sporadico (tanto paga il contribuente) che è solo un “ potente diserbante che uccide le colture insieme alle erbacce, e fa della città un deserto” E poi ci sono “Gli scritti scolastici” (p. 55) , in cui ci viene confermato quel che da sempre sospettavamo, che i docenti si vendono per un piatto di lenticchie e l’apparato burocratico ha da tempo soffocato ogni iniziativa al servizio dell’immaginazione, la più “scientifica” delle facoltà, e posto fine ad ogni libertà. (Queste sono verità che gli studenti devono sapere, perché “I giovani hanno bisogno di non essere ingannati”). E anche nelle “Prose” (p. 83), tutte godibilissime, ricche di humor e ironia, dal lettore alienato che tenta disperatamente di finire un libro nel “gabinetto di lettura” alla “Lettura del giornale” , enciclopedia del nulla, a “Sull’amicizia” (“un amico vi sarà sempre più indefinibile di un nemico”), a “Viaggiare” ( “Ma come sei stato a Londra e non hai visto Buckingham Palace?”), e “Scrivere un diario” ( “Prof. Parla anche di noi nel suo diario?); nei “Racconti” (“non c’è niente di più piacevole al mondo di raccontare delle storie”), in cui sono imperdibili “Nozze” (sposa mio figlio e devo fare un mutuo), “Nonno Pietro” (“Conservo di lui un orologio da polso, di cui ogni tanto do la carica, e dura una giornata”) e “Rifaldone club (“durò il tempo di un anno scolastico… L’estate ci disperse tutti… L’infanzia salentina era finita” ), per concludere con gli “Incontri”, titolo un po’ montanelliano, in cui ritroviamo grandi personaggi come Gino Pisanò, Mario Marti e Gianni Celati (“un fascio di nervi scoperti, che un giorno seppe dirci come stavano effettivamente le cose”, che attestano come ogni momento della nostra vita, ogni fatto, ogni ricordo, ogni incontro, possa diventare un fatto interessante, talora magico, quando si trasforma in un catalogo di sensibilità, studio, tradizione, memoria, attenzione, coscienza che si interroga, ma anche calda umanità e poesia.

  1. Brani di esistenza

Grazie all’algebra, si scoprì la metrica dell’invisibile, dando all’occhio umano la possibilità di guardare oltre il reale, oltre lo zero, e oltre il nulla, – così i tuoi scritti, i tuoi “brani d’esistenza”, caro Gianluca, nell’apparente discorsività dei fatti o curiosità del banale quotidiano (il semaforo delle infrazioni, le nozze, il lettore alienato, etc) , svelano, quasi senza volere, il segreto dell’esistenza, che non può e non deve essere “neutrale”, un pacifico abitare il tempo, né la vitalistica immobilità dell’eterno ritorno nicciano, ma una partecipe adesione alla solidarietà, al godimento delle bellezze del creato (bellissimo il tuo “Elogio degli alberi”), un prendersi cura dell’altro e di tutte le cose, visibili e invisibili, che ci guardano nell’ombra. Bisogna riuscire a “lasciar passare la luce”, e lo si può fare in molti modi, con la musica, (l’arte più astratta e misteriosa), con la pittura, e con la magia della parola. Altrimenti rimarranno solo feticci, foreste pietrificate, ossa bianche e nude del tempo. Dobbiamo trovare una via di salvezza, che è forse quella sfumatura di sentimento che non sai bene più se sia gioia o dolore, che sa di nostalgia, ma non è solo nostalgia, che sa di attesa e stupore, ma non è solo attesa e stupore, è una cosa che ti incanta, ma non riesci a trovare un nome per comunicarla. Una cosa è certa: la vita è fatta per essere vissuta, per essere spesa, e quindi devi riuscire a elevarti e guardare oltre lo zero, oltre il nulla, oltre l’indifferenza e l’ombra vorace del tuo ego.

Il libro si conclude con “La nuda vita”, una riflessione filosofica , o forse ontologica, una sorta di apocalisse del limite della scrittura: “è possibile scrivere una parola definitiva, oltre la quale potrebbe non esserci più nulla oppure spalancarsi un mondo intero che ci era rimasto per sempre nascosto?”. Su fogli bianchi senza limite né termine, ogni scritto, prosa o poesia che sia, è tentativo e tentazione, inquieta restituzione della parola vivente.
Anche Fellini voleva fare un film che avesse una sola immagine, definitiva, conclusiva, che riassumesse il senso totale della sua esistenza, come artista e come uomo.
Gianluca Virgilio, alla fine, risponde al suo quesito, che è anche quello di ogni uomo che si chieda dove andremo, dove finiranno tutte le parole e le cose del mondo. Ma non vi anticipo nulla, vi lascio il piacere della scoperta.

Roma, 15 agosto 2017

 

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