Alice nel Paese delle Lettere 5. Nuove scoperte

di Tazio Purzleber

Oh, se zio Dogson fosse stato lì con lei: avrebbe detto che quell’ordine meraviglioso era una prova dell’esistenza di Dio, come del resto lo era il fatto che solo alcuni fogli erano rigati, altri a quadretti, mentre la maggior parte erano totalmente bianchi. Queste piccole irregolarità, sparse in un modo che  a molti, scioccamente (così si espresse lo zio), pare casuale, non erano forse la spia di un ordine soggiacente, un ordine che prevede il disordine, e dunque un ordine ancor più sublime? Alice non aveva capito del tutto che cosa voleva dire lo zio, ma una cosa l’aveva capita: che lo zio voleva invitarla a considerare la bellezza di quel che non è perfettamente simmetrico. Una bellezza scomoda quanto straordinaria.

Per ringraziare lo zio, e non per vantarsi di averlo capito, Alice osservò: “Il piano ardesiano sarà comodo, ma è anche bello? Può darsi, ma non come questa pianura. Ripensandoci, il Mondo Liscio comincia a piacermi. E mi piacerebbe di più se potessi scendere di qui”.

I fogli erano incollati tra loro alla perfezione, senza che un solo filo d’erba spuntasse fuori; e in queste condizioni era presumibile che la pianura fosse priva di vegetazione, proprio come in effetti era.

Facendo le somme, cioè mettendo insieme tutte queste ragioni, combinando il regolare con l’irregolare, Alice non avrebbe dovuto aver niente di cui stupirsi. Siccome, invece, non smetteva di stupirsi, doveva esserci qualcosa che non tornava. O anche l’idea che ci sia qualcosa che non torna faceva parte del disegno?

Adesso su quello sterminato letto di fogli si incontravano tante famiglie di lettere, raccolte in due grandi fazioni a concilio, intorno al punto-cerchio. Erano lì per decidere il loro futuro. Ma se per farlo bisogna capire il presente e per capire il presente bisogna capire come ci si è arrivati, Alice non era messa bene. Niente di questo passato poteva essere già noto a chi non è una lettera, e Alice non lo è.

 

***

 

Passato quest’altro mal di testa, Alice era tornata a conversare con gli esserini. Fece finta, come prima, di parlare del più e del meno, per esempio di come lo stile dei libri più venduti, cioè che “tirano” di più nel senso che – Alice spiegò – hanno maggior tiratura, sia sempre più sciatto (era stata la zia ad informarla). Così, venne a sapere della qualità scadente della carta che arriva da oltre le montagne, della sindrome depressiva che colpisce da un po’ di tempo i punti-e-virgola di tutte le famiglie, e di tante altre cose riguardanti la vita quotidiana delle lettere. Mentre la preparazione del concilio continuava, Alice a poco a poco stava facendosi un’idea della “situazione” – un’idea molto parziale, invero, ma già sufficiente a capire le ragioni del concilio. Ne fu felice e avrebbe voluto raccontare tutto quanto a zio Dogson e zia Molly, come del resto chiunque altro avrebbe voluto raccontarlo a qualcun altro, perché la conoscenza non è una questione di famiglia, ed è un piacere condividerla.

In particolare, Alice era così fiera di quel che avrebbe raccontato allo zio. Non le veniva in mente che raccontare com’è fatto il mondo, in questo caso il Paese delle Lettere, non è la stessa cosa che spiegare come fa a esserci il mondo, cioè il Mondo Liscio, cioè il Paese delle Lettere. Via, non si può certo pretenderlo da una bambina, e da una bambina che si trovava in difficoltà, da sola, senza nessuno ad aiutarla, bloccata su un sassone che le lettere scambiano per un punto.

Non era altrettanto fiera di quel che avrebbe raccontato alla zia? Sì, ma nei confronti dello zio c’era un piacere in più: gli avrebbe detto qualcosa che lo zio non poteva sapere e s’immaginava già la faccia che lo zio avrebbe fatto, lui che stando al parere della zia “Sembra che sappia sempre tutto”.

“Oh, non vedo l’ora. Descrivergli questo posto e raccontargli tutto quel che sta succedendo! Non proprio tutto, ma quanto basta per fargli sgranare gli occhi e fargli cadere la pipa di mano! Cosa c’è di male? È giusto che quel che uno è riuscito a sapere lo sappiano tutti. E non è bello comunicare ciò che si è capito? Anche desiderarlo, allora, è bello. Se sono io la prima a saperlo, tocca a me. C’è qualcosa che non capisco, lo so, ma c’è anche qualcosa che capisco. Se per capire una cosa bisognasse capire tutto, nessuno capirebbe mai nulla e allora bisognerebbe starsene sempre zitti. Che è la cosa più brutta del mondo, liscio o non liscio. Sono presuntuosa a pensare di essere la prima a sapere qualcosa? No, gli esserini mi hanno detto che non avevano mai visto una lettera o una frase o un libro come me. Ora sanno di avermi vista e non sono presuntuosi a dire di saperlo. E poi come farei a dire allo zio qualcosa che non so capire? Va bene, va bene … qui ci sono tante cose che devo ancora comprendere. E allora? Allo zio dirò quel che ho compreso. Non potrei fare diversamente, perché quel che non capisco … al massimo potrei descriverlo come quel-che-non-capisco. Chi vuol dire qualcosa di quel-che-non-capisce, di cosa sta parlando? Il suo discorso sarebbero solo una nuvola di nomi per riferirsi a un’altra nuvola, o meglio alla nebbia. Io non faccio così. E sarei presuntuosa, io?”

Un pezzetto alla volta. Come la coperta che zio Dogson ha fatto cucire per lei, ottenuta da tanti riquadri di stoffa dei colori più vari, almeno da un lato (se no costava troppo); e dentro ci ha fatto mettere un bel po’ di piume, per quando Alice ha freddo. Per farla, lo zio si era rivolto al miglior sarto di Carrollby che firmò la coperta con un punto esclamativo. Un’idea davvero carina, anche se zia Molly non ha gradito quando si è accorta che la stoffa era quella di alcuni suoi vecchi abiti che non indossava più.

Un pezzetto alla volta, il quadro della situazione, la ragnatela di piccoli e grandi fatti si cuciva nella mente di Alice.

Ebbene, tutto era cambiato a Letterlandia dopo la notizia. “Una terribile notizia per queste amabili creature, innegabilmente”, sospirò Alice. “Oh sì, davvero terribile”. L’effetto non poteva essere diverso: “Basta mettersi nei loro panni, cioè, nelle loro forme. Poveri esserini.”

 

***

 

Di là dalle montagne avevano fatto una scoperta, meravigliosa di per sé e, appunto, terribile per il Paese delle Lettere. Quale scoperta? Avevano trovato un nuovo modo per comporre il testo di un libro, di un giornale, di una rivista, di un manifesto: un modo che faceva a meno delle lettere di piombo! I tipografi erano stati licenziati e al loro posto era cresciuta una massa di apprendisti senz’arte né parte, di impostori sfaticati, furbacchioni privi di gusto. Beninteso, c’era anche qualche spirito geniale, chi non intendeva dimenticare le antiche tecniche per render bella una pagina, chi s’inventò nuove famiglie di caratteri che non avevano niente da invidiare alle famiglie del passato. Non essendo portati a mettersi in mostra, di loro se ne sapeva poco, ma siccome si erano divertiti tanto, a loro non importava.

Adesso, per scrivere i libri, e il resto, non c’era più bisogno di penne e quaderni di carta. Tutti si limitavano ad accarezzare un topolino, guardando fisso un vassoio luminoso,  tenuto per ritto, quindi non ci si poteva appoggiare sopra nulla, e questo vassoio aveva, tipicamente, uno sfondo di colore azzurro come il cielo, su cui  veniva fatto apparire un foglio finto. Su questo foglio spuntavano dal nulla, una dopo l’altra, tante ombre di numeri. Ombre che avevano la forma di lettere. Il risultato veniva mandato a macchine che leggevano le ombre e le spruzzavano su carta, senza che nessuno avesse il bisogno di prendere in mano una singola vera lettera, una lettera di piombo.

Quello era davvero uno strano vassoio, che con il cielo aveva poco a che fare. Nel Paese delle Lettere ci fu chi avanzò un’ipotesi curiosa: che fosse tutto un inganno teso agli esseri umani da un genio maligno. Sarebbe bastato metterli al corrente e, siccome a nessuno piace essere ingannato, la meravigliosa scoperta sarebbe finita nel nulla. Prove non riuscirono però a fornire dell’ipotesi. Ne attribuirono la colpa allo stesso genio maligno, ma è chiaro che senza prove non potevano convincere le vittime dell’inganno.

Ebbene, sul vassoio tenuto per ritto le lettere non solo spuntavano ma s’inseguivano, slittando in su e in giù riga dopo riga, ora verso il bordo superiore ora verso quello inferiore del finto foglio, prima di sparire di nuovo nel nulla, in realtà conservate nella memoria di un finto cervello prigioniero di una scatola attaccata al vassoio. Per le creature con cui Alice stava parlando era una cosa incomprensibile e mostruosa. Un giorno, zia Molly aveva osservato che molti sono spaventati da quel che non riescono a immaginare – e si riferiva allo zio. “Lo zio che spaventa qualcuno? Su, zia. Anche quel che sto vedendo non l’avrei mai immaginato prima, eppure non mi spaventa. Strano che non mi abbiano mai parlato di questi vassoi. Forse sono le macchine che la scuola voleva acquistare ma mancavano i soldi”.

I vassoi funzionavano benissimo, si accendevano e si spengevano come le lampadine appena arrivate a Carrollby, e tutto quel che succedeva obbediva a regole precise. La cosa incredibile era che bastava toccare il topolino e subito il topolino faceva diventare una dei quelle finte lettere più grande o più piccola, le faceva cambiare famiglia, e se prima era una A in tondo ora era una A in corsivo o una A in grassetto. Esserini del tutto simili a quelli che ad Alice erano parsi ragnetti: lettere, sì, ma lettere artificiali, senza peso, incastrate nel vassoio, fantasmi di lettere non ancora svanite, fantasmi incapaci di parlare con i bambini, e prigioniere per forza, perché se uscivano dal vassoio, si scioglievano. Ecco perché non si lasciavano prendere in mano.

Non era un miracolo? “No, non si può fare un miracolo seguendo delle regole. E poi, che miracolo è fare prigioniero qualcuno?”

Il vassoio luminoso cambiava aspetto e si riempiva di lettere premendo i polpastrelli su un altro vassoio, o più precisamente su uno dei tasti che vi erano scolpiti – tasti di forma quadrata, con gli angoli gentilmente stondati. Una volta premuto un tasto, però, il tasto non restava premuto: tornava in fuori come prima e così ci si poteva divertire a batterci sopra quante volte si voleva, tanto per veder muovere qualcosa sul vassoio luminoso.

Anche questo secondo vassoio aveva forma rettangolare. I tasti che ne sporgevano erano disposti come i ciottoli che Alice si diverte a raccogliere in riva al lago e ordina su più file incolonnate. “Zio, guarda, 7 per 3 è più comodo da vedere che 3 per 7”, e il risultato delle due moltiplicazioni era lì, chiaro e distinto, non come le pietrine lasciate nel piano quasi-ardesiano. Se invece di essere quadrati, i tasti fossero stati rotondi potevano far venire in mente le palline di un abaco, solo che l’abaco serve per contare, quel lungo rettangolo punteggiato di tasti no: per la maggior parte i suoi tasti, infatti, servono per comporre parole in frasi e le frasi esprimono i nostri pensieri. O questa almeno era l’apparenza, perché tutto quel che si vedeva sui vassoi era l’ombra di numeri e di operazioni con i numeri: il risultato di un calcolo fatto dal finto cervello. Saper calcolare è importante, le diceva sempre lo zio, e per calcolare l’unica cosa necessaria sono i numeri. “Invece, Zia Molly mi dice sempre che prima di fare una cosa occorre pensarci bene e che, anche se non mi stanco mai di pensare, cioè, di parlare, sarebbe meglio che lo facessi camminando all’aria aperta. Oh, sì, sì, giusto, vorrei tanto camminare un po’, insieme allo zio – che, per la zia, calcola meno di quel che gli farebbe bene. Qui invece l’unica cosa che posso fare è calcolare ogni parola perché qualcuno mi ascolti. È vero: lo zio ha sempre poca voglia di camminare, troppo assorto com’è a pensare e, quando lo interrompo, mi dice che sta calcolando, ma io suppongo che la zia abbia ragione: lui si esprime così soltanto perché è sovrappensiero. Sarà per questo che zia Molly gli ricorda di continuo che deve bere di più se vuol far meno calcoli. Sì vede che i pensieri si seccano … ma perché, se si seccano, si fanno più calcoli? Comunque, mi diverto tanto quando la zia dice, a voce alta perché senta anche lui ‘Tuo zio, quando pensa, dimentica i  suoi calcoli e  quando li fa non ci ha minimamente pensato.’ Buffo, vero? E che faccia fa lo zio!”

Tornando ai vassoi luminosi: oltre a essere tenuti per ritto, sono collegati con un filo a un cervello seccato, in scatola, e tramite la scatola sono collegati a un altro vassoio rettangolare punteggiato da tanti tasti. Ora, se questo non meno magico rettangolo non era un abaco, cos’era? Al di là delle montagne lo indicano come una “tastiera” e in effetti l’apparenza era di una tastiera per organo, anche se, per maggior consuetudine, Alice avrebbe detto che somigliava più alla pulsantiera destra di una fisarmonica. Sulla maggior parte dei tasti del rettangolo c’era però una lettera dell’alfabeto. E sugli altri? Sui pochi tasti restanti c’erano i segni di punteggiatura, i ritratti dei primi dieci numeri naturali da 0 a 9, i segni di più e meno, i simboli per l’uguaglianza e la diversità, e le frecce per indicare i quattro punti cardinali, tante vuole qualcuno si perdesse. Quando lo venne a sapere, Alice notò che queste cose non sono lettere dell’alfabeto e che il piano ardesiano era meno simmetrico, perché c’erano solo due frecce. Già, ma  allora l’analogia con la tastiera per organo era ingannevole: a tasti adiacenti non corrispondevano segni simili o dotati di significato simile. E qui, come altrove, le somiglianze di famiglia sono di scarso aiuto. Se non bastasse, per decidere la posizione in cui le lettere nascevano o morivano si era guidati da un topolino – un topolino dalla coda sproporzionata che serviva a tenerlo al guinzaglio sfruttando una forza misteriosa alla quale gli studiosi di Letterlandia avevano dato il nome di “lettricità”. Quando glielo dissero, Alice chinò la testa: “Povero topino!”

Ed ecco che, premendo un solo tasto o facendo un accordo, in un attimo il più lungo dei testi più lunghi poteva essere stampato grazie a macchine portentose, che Alice s’immaginava piene di chissà quanti rulli e ruote dentate. Così, in un baleno,  tutte le lettere, anche quelle scivolate in alto e ormai nascoste alla vista, venivano spruzzate sulla carta, come si era già detto. Di nuovo: era un miracolo della tecnica? O il diavolo ci aveva messo lo zampino? O era un altro esempio di sublime, sconclusionata, bellezza della Natura, che contiene più cose di quelle che possiamo immaginare? Un complicato strumento per risparmiare tempo, soldi e fatica? O un inganno collettivo? Per le vere lettere non c’erano dubbi: era un’arma, un’arma puntata contro di loro.

Però, poteva anche essere tutte queste cose insieme, o forse nessuna, come il cavallo di legno, ma non a dondolo, di cui zio Dogson ha parlato ad Alice per spiegarle che l’apparenza è tutto, ed è estremamente efficace. Di sicuro, era uno strumento che aveva richiesto tanta intelligenza per metterlo insieme: niente più lettere di piombo, niente più gabbie, niente più pagine pesanti. Mica semplice. Un nuovo mondo, libero dalla gravità.

(continua)

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