Dolceamara trasparenza. Sulla poesia di Sandro Penna

di Antonio Prete

Alla poesia di Sandro Penna non si addice l’esegesi. Ogni movimento interpretativo che accerchi con le sue volute interrogative  quella poesia, è come un’ombra che fa opaco quel che è trasparente, ingrigisce quel che è luminoso, offusca e ingorga quel che trascorre in limpidezza e semplicità. Perché la poesia di Sandro Penna, è, come quella degli antichi greci, come quella di Leopardi erede degli antichi greci, fatta di quella particolare sostanza –sostanza linguistica, meditativa, musicale – che sa unire levità e profondità, grazia e sguardo incantato e malinconico sul mondo, sul suo enigma, sulla sua apparenza di luce e di declino, di gloria e di miseria. Un sapere senza sapere. Una relazione con il proprio sentire che cerca l’armonia col sentire delle cose. Dinanzi a questa sostanza poetica che pare, come la leopardiana ginestra, contenta del deserto, cioè consapevole della finitudine e tuttavia intenta a mandare intorno  il suo profumo, l’ascolto è forse l’attitudine più adeguata. Se nell’ascolto –ascolto del verso, della sua musica, del suo dire leggero e sofferente- prende forma, e lingua, una risonanza, forse una replica, è a questa risonanza, a questa replica, che occorre dare voce. E dunque rileggere Penna comporta da sé lasciare, intorno ai margini bianchi che circondano i suoi distici, le sue quartine, i suoi appunti poetici, alcuni segni, alcuni pensieri. Segni  e pensieri che possono prendere forma di parola, ed essere controcanto talvolta, oppure semplici annotazioni  a matita.

*

Restava al nostro amore

della vita, la vita.

C’ è un’estensione destinale, e trepida, della vita, un suo sapore, un suo gusto d’avventura e d’azzardo. Ma il limite fa ombra, instilla l’amaro nella sconfinata dolcezza che i sensi possono esperire, eppure di là da quel limite la vita stessa riappare come mare che avvolge il desiderio, lo gonfia di possibile, lo conduce  -con il sogno, con la lingua dell’immaginazione-  oltre il tempo già consumato, oltre il gelo dell’irreversibile.

In Confuso sogno il poeta fa esperienza di questo affrontamento del limite:  la lingua -con la sua musica, con il desiderio che la regge e sorveglia e anima- riesce a trasformare questo limite in una terra di fantasticata dolcezza, in un giardino dove il ricordo, il lampo del ricordo, rinverdisce quel che è secco, illumina quel che è oscuro. Sicché il tempo dell’incontro amoroso, del sesso glorioso, torna, con la malinconia, certo,  della lontananza, ma anche con la bellezza candida del verso. Si fa tempo della lingua, tempo musicale di una nuova trasparenza in cui quel che non c’è più riappare, e trema di bellezza in questa apparizione.

*

Ancora, al margine di Confuso sogno. Immagini salgono dal notturno lunare del passato: schegge di luce, figurazioni sospese come fotogrammi tremolanti nel bianconero dell’esistenza che scorre, e non lascia che rimpianti, o altre immagini pronte a visitare la notte dei sensi. I ragazzi come divinità di un tempo fuori dal tempo, eppure portatori, da lontano, di una quieta primavera. Il resto non è solo ricordo, è lingua del ricordo, e nella lingua, nuova percezione, dialogo col lettore, verso che cerca amorosamente la sua rima:

Che resta di una festa

ove gli azzurri dei

cavalcano una “vespa” ?

E la rima cerca le parole di sempre -le semplici parole di cui diceva Saba- per declinare l’amore. E’ la rima che mima il bacio, il bacio che si fa rima, persino nello stesso verso, tanto stretto è il dialogo tra l’amore  e la parola, tra il ricordo d’amore e la lingua:

L’intenso amore, cuore,

senza cuore, l’accordo con la vita.

Anche nello sguardo che si confronta col vuoto –vuoto di passione, di esaltazione dei sensi- c’è un’ombra che si sfrangia con la luce del ricordo : l’assenza ha in sé una presenza. E’ la parola che portando nel suo cuore l’immagine e la musica che l’accompagna, dissipa il tempo della privazione, il tempo della spoliazione dei sensi, e il tempo stesso della primavera. E le lunari inquietudini sono sopite per un momento. L’estasi che fu ha ancora un suo scintillio nel tremolare della lingua, del ricordo nella lingua. La malinconia di chi non ritrova più il nesso profondo tra amore e cosmologia e tra amore e lingua si affida, ancora, a un’aria da canto notturno in cui quel che più non c’è manda un suo lampo dalla riva della lontananza. Le vaghe stelle, le stelle della ricordanza, sono spente, ma la luna, ancora la luna leopardiana, sorveglia questa aridità del cuore, e della lingua, la conduce verso la musica del dire, verso il lampo di una nuova apparizione:

Sospesa luna in cielo.

Io più non ritrovo le stelle.

Il dolore se tenta cantare

non trova che secche parole.

È lontano – fu vero ? – un mio mare

di mezzogiorno.

*

In Confuso sogno, come del resto nelle precedenti raccolte, è l’appunto che si fa lirica. L’annotazione su un incontro si fa miracolosamente canto. E un corpo appena disegnato nel suo profilo prende respiro e figura, splende in questa figurazione. Un’ombra che insorge nella mente cerca subito le vie della lingua, cerca il ritmo di una dizione scolpita nella sua necessità, nella sua misura in cui la brevità coincide con il profilo dell’immagine, o con il contorno del ricordo.

*

Nella poesia di Penna, sosteneva  Cesare  Garboli,  tutto è reale -treni, campagne, stadi, cinematografi, osterie- “e tutto vi è sognato e ‘irreale’, straniato dalla gioia di passarvi dentro un sogno”. Sì, questa compresenza del visibile e del sognato, del paesaggio e dell’interiorità, dell’oggetto e del ricordo, crea un particolare effetto, come di esilio dal paese della vita quotidiana. E tuttavia è proprio su questa condizione che s’innesta il passaggio alla lingua poetica come lingua di un dire essenziale, estremo, necessario. Come se questa distanza desse una luce particolare ai corpi, analoga a quella che vediamo piovere su una pittura- natura morta o paesaggio- da una fonte non artificiale, da una finestra che magari raccoglie l’ultimo bagliore del giorno. Del resto questa poetica della luce che si fa ricordo e che trasforma le cose è dichiarata ad apertura della raccolta garzantiana delle Poesie:

La vita…è ricordarsi di un risveglio

triste in un treno all’alba: aver veduto

fuori la luce incerta: aver sentito

nel corpo rotto la malinconia

vergine e aspra dell’aria pungente.

Via via, già nella prima silloge -dal 1927 al 1938- si definisce la natura di questa sospensione insieme malinconica e luminosa. E alcuni nomi soccorrono, in questa disposizione a cogliere la purezza del visibile: Rebora, ma anche, figurativamente, per l’alone onirico, De Chirico, e per un’intimità consegnata al segno essenziale e purissimo, Morandi. Anche se l’esperienza baudelairiana –magari mediata da Sbarbaro più che da Campana- riaffiora nella prossimità dichiarata verso il dolore, e si tratta naturalmente di Recueillementpoème che molto ha viaggiato nella poesia europea del Novecento:

Ed io non so chi voglio

amare ormai se non il mio dolore

Già da subito la poesia cerca la prosa –leopardianamente, si direbbe-  perché l’onda del ritmo in Penna tende a farsi piana, dolce, pensosa, quasi a confermare che la poesia cammina sul confina tra il sogno e l’ ekphrasis. E questo, nell’alternarsi di endecasillabi (spesso vocalici più che metrici) e settenari, come se il verso breve dovesse far da momento di riposo al respiro ampio di quel dire che cerca la prosa. Per questa semplicità evocativa e piana, se voglio richiamare esperienze che mi vengono in mente, penso a un Reverdy , sulla sponda francese,  e a una linea che muovendo da Pascoli, sulla sponda italiana, si sfrangia in certe scritture poetiche di Marino Moretti e del Govoni postfuturista, anche se in Penna c’è, in più, un’ illimpidita, e metafisica, sospensione. E, per certi interni nei quali corpi giovani, poveri e divini,  ricevono una particolare luce, alcune figurazioni di Penna  appaiono prossime a certe immagini di De Pisis. Questa trasfigurazione del corpo adolescente è allo stesso tempo sensuale e candida, mitografica ed erotica. Se a volte traspare in essa qualcosa di quella grecità che in Kavafis è trepido e allusivo sentire in cerca di una sua fissità classica e bizantina, questa suggerita ascendenza il lettore di Penna la corregge presto, per via di una frequente animazione fanciullesca e gioiosa e persino creaturale della natura:

E mi affaccio sul mare che si batte

contro scogli per ridere con sé.

Ma questa quieta visione spesso è increspata nel ricordo proprio dalla sua lontananza nel tempo: “la dolce umidità del fiume” non c’è più, è l’assenza che oscura ogni cosa, la bottega del padre, i cammini, le strade. A meno che non insorga, nel ricordo, il profilo di un corpo, il sorriso di un fanciullo, e allora la luce lunare non declina, e anonime stazioni, treni, periferie, argini di fiumi, tutto riprende vita nella vita della poesia.

*

Due movimenti, o forse pulsioni, mi sembra agiscano simultaneamente nella poesia di Penna. Da una parte, c’è  una sorta di incertezza della figurazione nell’apparire, incertezza data dal confine sfrangiato tra visione e sogno, tra ricordo e vita nel ricordo (qualcosa che fa pensare alla natura del vedere nell’ Après-midi d’un Faune, di Mallarmé). Ecco questi versi:

Un giovane passò ma non so ancora

se vero oppure vivo come fiamma

che il sole riassorbiva nel silenzio.

Dall’ altra, c’è una cura poetica intenta alla descrizione anche cumulativa, intenta cioè a raccogliere sotto lo sguardo e allineare e nominare le forme del visibile nel tempo e nello spazio di un dire che vuole proteggere le cose nel loro stare, nella loro dispiegata physis. Ecco l’animazione poetica dell’ora:

Il treno tarderà di almeno un’ora.

L’acqua del mare si fa più turchina.

Sul muro calcinato il campanello

casalingo non suona. La panchina

di ferro scotta al sole. Le cicale

sono le sole padrone dell’ora.

*

Il poeta ha con l’immagine una relazione per dir così affettiva. Per questo egli vorrebbe che l’immagine perdurasse, vorrebbe che fosse sottratta all’implacabile cancellazione, all’oblio, e che non finisse neppure nel vestibolo affollato e oscuro del ricordo. L’immagine, tuttavia, qualche volta ha una sua scia, una sua permanenza: si pensi,  in Appunti,  a quella “linea adolescente” che va sotto il sole e che il poeta vede “rimanere / dietro il calesse giallo e verde ormai”. A volte invece nel paesaggio l’ immagine è come consegnata a un movimento pittorico che in certo modo la ferma, e così la fa resistere nel tempo, perdurare per un poco. Ecco la testa arruffata di un ragazzo che, quando il suo berretto è volato via col vento, come “fiamma”  resta “entro il freddo spettacolo di luce”.

E c’è, soprattutto nei versi di Una strana gioia di vivere e di  Croce e delizia , un singolare mostrarsi quieto delle cose -paesaggio, stelle, luna, città, campagna- ,  un mostrarsi sotto lo sguardo infantile, che stende su tutto un’aria di innocente incantamento:

Com’è bella la luna di dicembre

che guarda calma tramontare l’anno.

Mentre i treni si affannano si affannano

a quei fuochi stranissimi ella sorride.

Il pensiero dell’altrove comporta una quiete che è anche distacco dal tumulto amoroso, attesa del nuovo (“Io rido a più sereno amore”), invocazione di una prossimità calda con la natura (“Sole con luna, mare con foreste, / tutt’insieme baciare in una bocca”), custodia della giovinezza -della sua tumultuante avventura corporale-  dentro di sé, senza pentimento. E tutto questo cerca le vie di una lingua poetica in cui intimità e gioia, malinconia e grazia, turbamento e innocenza, tremito dei sensi e quiete del paesaggio si congiungano. La lingua della tradizione  poetica italiana, persino stilnovista,  soccorre, talvolta  (“Andavo già piangendo tra la gente”, o ancora “Amore apparve a una finestra e disse”) e accoglie i sensi in una dizione piana, nella quale le apparizioni di corpi e di paesi e di ore del giorno non perdono il loro odore, fosse dolce o acre. Anche la gloria del passato, persa e disseccata, si espone alla luce, sotto un sole che mitiga l’asprezza del mai più:

Amore, gioventù, liete parole,

cosa splende su voi e vi dissecca?

Resta un odore come merda secca

lungo le siepi cariche di sole.

*

La poesia Penna vorrebbe sottrarla al “giuoco leggero / fatto con parole delicate / e malate” e portarla nella luce di una corporeità antica, colma di energia e per questo in dialogo con l’oltre, disposta dunque a perdersi nell’infinito. L’apertura delle Giovanili ritrovate dichiara lo scarto della poesia dalla confidenza e dalla colloquialità dimessa, di timbro tardo crepuscolare e postpascoliano. E’ la cura di una particolare figurazione che Penna affida alla lingua della poesia, la figurazione di un’armonia tra il corpo fanciullo e il sentimento naturale, tra l’istante gioioso di una pienezza dei sensi e l’altro tempo che quell’istante accoglie e custodisce e fa rinascere. E questa lingua, per dire quell’armonia, modula attrazioni di parole, baci di parole, sicché la rima, quando sopravviene, è un fatto anch’esso attinente ai sensi, musicale e corporeo insieme, diverso dall’intreccio tra aria cantabile e ombra fuggitiva proprio di Saba, e distante anche dalla risonanza metafisica che ha la rima di Caproni.

Quanto ai colloqui poetici messi in forma da Penna, i versi Alla luna (che aprono l’ottava sezione delle Poesie), sin dal titolo e dall’attacco –“A te che chiaro hai il volto il mio nascondo”- raccolgono da Leopardi il notturno turbamento che la luce lunare esalta. Così i versi che cominciano “Era il maggio felice”:

Era il maggio felice. E tu, mia luna,

forse ridevi degli antichi amori.

Ti ho lasciato il fanciullo, i cari odori

di cui forse ridevi, antica luna.

Ma in questo e in altri poetici colloqui quel che appartiene propriamente a Penna è il bassorilievo che la luce lunare o anche, in altri casi, la luce solare illuminano: il bassorilievo di un fanciullo che allo stesso tempo è fisica immagine della gioia dei sensi e emblema di quel respiro vitale che è il desiderio. E’ proprio il desiderio -e l’amore è del desiderio anima e incarnazione-  a dare alla natura che è intorno la sua luce, la sua vibrazione. Sicché non solo gli oggetti  (“La bicicletta tutta luce aspetta / l’arruffato fanciullo senza voce”), ma il vento, i rumori, le nuvole sono elementi dell’amore :

Ma il vento qui sull’erba ed i rumori

della città lontana

non sono anch’essi amore?

Sotto nuvole calde

non sono ancora i suoni

di un amore che arde

e più non si allontana?

*

La luce e il buio, lo sguardo e il ricordo, la malinconia e l’ allegrezza: la poesia di Penna è l’incantato andirivieni lungo la linea del loro confine. Per questo la sua lingua, se accoglie l’oscurità del dolore, mostra il raggio dell’altrove che lo attraversa, se ospita lo splendore del visibile, dà rilievo alle ombre che in quell’abbaglio trascorrono. E questo ritrarsi dall’assoluto non si curva su un’estetica del chiaroscuro, né su una astratta dialettica della luce e dell’ombra, ma segue, con dolcezza e malinconia, le orme di quell’universale cammino in cui nascita e declino, fiorire e sfiorire sono ritmo stesso dell’esistenza.

[Relazione letta al Convegno su Sandro Penna organizzato dal Dipartimento di Italianistica dell’Università di Montpellier 3 il 18 febbraio 2011.]

 

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1 risposta a Dolceamara trasparenza. Sulla poesia di Sandro Penna

  1. Alberto Maragliano scrive:

    Grazie di questo discorso che io trovo sintetico e compiuto sulla poetica di Sandro Penna: poeta che affida la sua individualità ad una altissima precisione del dettato. Davvero un poeta centrale nel Novecento.

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