I cinquecento anni di Antonio De Ferraris Galateo

di Rosario Coluccia

Antonio De Ferrariis Galateo (1446 – 1517), umanista di livello elevato e medico, autore di molte opere latine e di una Esposizione (cioè parafrasi e commento) del ‘Pater Noster’ in volgare italiano, è senza dubbio l’intellettuale più importante apparso in Salento fino agli inizi del Cinquecento. Ottimo conoscitore del latino e del greco, apprezza l’eccellenza della propria terra d’origine; contemporaneamente è ben inserito negli ambienti culturali in voga a Napoli, capitale del regno. La sua stessa vita, gravitante tra il Salento e Napoli, può per molti versi essere assunta a emblema delle tendenze e delle contraddizioni che, nella seconda metà del Quattrocento, caratterizzano gli atteggiamenti delle élites salentine, politiche e intellettuali, nel rapporto con la capitale. Da un lato il sostanziale, pur se spesso non esplicito, riconoscimento dell’eccellenza del centro napoletano, fervido e politicamente dominante; dall’altro la mescola di spunti che rivendicano la propria autonomia periferica, fondata sulla straordinarietà di un passato glorioso e particolarmente illustre.

Illuminante, in proposito, può rivelarsi la ricostruzione del clima che si respirava nelle corti locali, quella tarantino-leccese di Giovanni Antonio del Balzo Orsini, morto nel 1463, e quella di Angilberto del Balzo, conte di Ugento e duca di Nardò, genero dell’Orsini, coinvolto nella seconda congiura dei Baroni contro il re, scoperto insieme agli altri congiurati e messo a morte nel 1487. I due feudatari sono in grado di attrarre intellettuali di formazione e interessi diversi, mettono insieme biblioteche varie per argomenti e provenienza, raccogliendo codici a loro dedicati o donati, talora da essi stessi promossi o sollecitati, in parte confezionati in loco. Sugli scaffali di quelle biblioteche signorili si allineano enciclopedie, testi religiosi, scritti di natura politica, trattati medicali e sulla peste, rifacimenti e volgarizzamenti di opere della classicità, opere dei più importanti esponenti della cultura toscana trecentesca (Dante, Petrarca e Boccaccio), testi legati alle contingenze e alle turbolenze della vita di corte.

Non sappiamo se qualche eco di questa cultura abbia raggiunto o interessato Galateo nel periodo della giovinezza e della residenza salentina, negli anni che precedono il primo trasferimento a Napoli. Con sicurezza possiamo però affermare che l’ambiente a lui circostante non si presentava inerte ma era attraversato da discreti fermenti intellettuali, e collegare a questi ultimi le informazioni che lo stesso Galateo ci offre sulle esperienze e sui luoghi della sua prima formazione.

Nonostante gli apprezzamenti per la terra d’origine, nelle scelte concrete di Galateo prevalgono l’attrattività della città e della corte napoletana, e la comprensibile aspettativa di ottenere in quei nuovi contesti riconoscimenti per le proprie qualità. Presto il salentino si trasferisce a Napoli e vi si stabilisce a lungo, raggiungendo posizioni di prestigio. Dai soggiorni napoletani si allontana a volte per periodi più o meno lunghi, spostandosi verso il Veneto e Ferrara (dove consegue il Privilegium in artibus et medicinae il 3 agosto 1474); torna in Salento e in Puglia tra il 1494 e il 1498, nelle concitate fasi collegate alla discesa in Italia di Carlo VIII e al tentativo di presa del potere da parte degli angioini. Rientra stabilmente nella sua terra dopo il 1501, alla caduta definitiva della amata dinastia aragonese.

Notizie dettagliate sulla formazione del giovane Antonio provengono da lui stesso, che si dichiara discendente da un padre e da antenati di notevole levatura, allevato in un contesto culturalmente fervido, in cui spicca l’eccellenza di Nardò. Ecco qualche sua dichiarazione esplicita. «In quella città della quale ora parliamo [Nardò], vi fu un tempo un ginnasio di discipline greche tale che, quando i Messapi Greci vogliono lodare le lettere greche, dicono che sono neretine […] Ai tempi del padre mio da tutte le province di questo regno confluivano a Nardò per apprendere il culto dell’ ingegno […] Ogni disciplina quale è in ogni angolo della terra ebbe origine da Nardò».

Pur se la lettera di talune affermazioni può sembrare esagerata, non vi è ragione per negarne l’attendibilità sostanziale. Nel centro neretino nasce e riceve la prima formazione il domenicano Francesco Sicuro (morto nel 1489), che insegna metafisica nello studio padovano. Lì pure muove i primi passi il leccese Roberto Caracciolo (morto nel 1495), francescano conventuale, uno dei più grandi predicatori del Quattrocento, amico di sovrani e principesse, suscitatore di emozioni fortissime (si vantava di saper commuovere fino alle lacrime, in poco tempo, i fedeli che ascoltavano in chiesa le sue prediche). Dalla stessa città provengono alcuni copisti in servizio presso la corte di Angilberto del Balzo di cui abbiamo parlato prima: conosciamo il nome dei domenicani Nicolaus de Neritono, che copia nel 1466 e nel 1472 due volumi di pregio e di grande formato contenenti il volgarizzamento di alcuni libri della Bibbia (è andato smarrito un terzo manoscritto dello stesso copista, contenente altra materia biblica), e Guido di Bosco, trascrittore del Confessionale di S. Antonino di Firenze. Altri sono anonimi. Nei paraggi di quella corte agisce anche un anonimo che compone un commento al Teseida di Boccaccio, rimasto inedito fino allo scorso anno e oggi finalmente leggibile nell’ottima edizione di Marco Maggiore (Berlin/Boston, Walter de Gruyter, 2016); il commento, importante per il reticolo delle fonti retrostanti e interessantissimo coagulo di tradizioni diverse, è la prova sicura di una ricezione attiva dell’opera di Boccaccio nel mezzogiorno, fin nell’estrema periferia meridionale.

Testimonianza quasi commovente dei legami di Galateo con la terra d’origine è il suo Liber de situ Iapigyae, finito di comporre intorno al 1509. Quel libro è molto di più di una semplice descrizione della penisola salentina (definita classicamente Iapigia): la narrazione oscilla tra i richiami alla grandezza di un passato illustre e i segni di una decadenza che è impossibile ignorare. Galateo non è di una sola città, appartiene all’intero Salento. Opportunamente si è dislocato tra Galatone (luogo di nascita), Nardò, Gallipoli (a cui è dedicata una Callipolis descriptio) e Lecce (dove Galateo negli ultimi anni di vita fonda, con l’aiuto di un ristretto gruppo di intellettuali suoi amici, una Accademia Lupiense sul modello delle esperienze vissute a Napoli in seno all’Accademia Pontaniana) un convegno itinerante appena svolto (15-18 novembre), in coincidenza con il quinto centenario della morte del personaggio: si intitola «Antonio Galateo dalla Iapigia all’Europa». Vi hanno partecipato importanti studiosi e vari politici vi hanno portato il loro saluto.

Pura ritualità? Forse no, il perimetro potrebbe estendersi al di là della semplice celebrazione originata dalla ricorrenza centenaria. Ambiziosamente, da quest’occasione potrebbe nascere un comitato scientifico che, senza trascurare quanto è stato già realizzato o si va facendo, sia capace di progettare un’edizione nazionale, rigorosa e inappuntabile, degli scritti di Galateo, in parte ancora mal pubblicati e poco conosciuti. Senza provincialismi, ai massimi livelli scientifici. Con la capacità di lanciare e reggere la sfida. La qualità “italiana” dell’opera di Galateo merita tutto ciò.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 19 novembre 2017]

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