Pedalando

di Paolo Maria Mariano

La bicicletta ha in sé il senso della fatica e della libertà. Il suo modestissimo estro meccanico racchiude questioni non banali di modellazione matematica. La sua semplicità come mezzo di trasporto e la distanza dall’idea di consumo dell’ambiente – non della struttura su due ruote e del ciclista, entrambi esposti alle conseguenze del trascorrere del tempo – la rendono nobile, perfino romantica. Jacques Tati, che sì fu romantico nel suo silenzio, vagola in bicicletta in un film d’antica memoria. Bambini esposti alla fame in un paese in ricostruzione diventano ladri di biciclette con volti smarriti, anche al ricordo dello schermo in bianco e nero del cinema di un tempo. Un uomo dalla bicicletta blu attraversa un romanzo onirico di Lars Gustafsson. Un altro uomo pedalò un giorno da solo in cima al Pordoi – gli inseguitori erano lontani – e Mario Ferretti riferì che la sua maglia era bianco-azzurra e il suo nome era Fausto Coppi, e di quell’avanzare solitario fece appassionata epica radiofonica. Coppi e Bartali s’inseguirono passandosi una borraccia, da avversari che si rispettano – a volte è saggio tenersi stretti i nemici di valore – lasciando discutere noi che guardiamo chi fu a dare all’altro l’acqua. Gino Bartali portò poi sotto quella sua sella documenti che salvarono tanti ebrei dall’oscurità nazista e “con quel naso triste come una salita” fu considerato un giusto. Non fu un giusto, forse, il bandito che aspettava l’amico Girardengo e ci fingiamo pensasse che se avesse avuto talento, anche solo un po’ meno dell’amico, non avrebbe perso la strada: non sarebbe diventato un fuorilegge. Al contrario, forse avrebbe spinto sui pedali per far avanzare due ruote sull’asfalto liscio di una corsa classica, quale essa sia, anche da gregario, o a farle ballonzolare sul pavé della Parigi-Roubaix, mentre la pioggia batte e la nebbia avanza indifferente alla fatica, con quell’umido che entra nelle ossa e occlude di muco le narici.

Mia Madre, da adolescente, aveva ogni mattina qualche chilometro dinanzi a sé per andare a scuola. Pedalava in bicicletta, quando non andava a piedi, e frenava mettendo le scarpe per terra o le mani su un muro laterale, quando questo c’era e dei freni la bicicletta aveva solo vaga memoria. Pedalava d’inverno con qualche castagna calda in tasca e la treccia lunghissima che le batteva sulla schiena. Pedalava, lei e chi come lei percorreva la stessa strada con lo stesso scopo, perché la scuola, allora, desiderava parlare di futuro anche solo attraverso lo studio del passato. Pedalava perché intuiva che l’intelligenza è un dono che deve essere trattato con rispetto, sforzandosi di dargli cibo sano … perché ciò che si legge e si ascolta è cibo, sebbene solo intellettuale, e, come quello organico che s’ingerisce, può essere squisito ma può anche essere sciatto, disgustoso, avariato, maligno, perfino letale … e trovare cibo sano richiede sensibilità, applicazione, perfino un caso benigno. Pedalava, mia Madre, da adolescente, con un sorriso, con quella gioia interiore che non si spegneva neanche quando si cadeva sul margine fangoso della strada non certo liscia e asfaltata com’è oggi che la ripercorre in auto, quella gioia che è rimasta dopo l’adolescenza e che le ha sempre dato una feroce dignità. Pedalava senza pensare che sarebbe stata la prima donna della sua generazione nella sua cittadina a conseguire una laurea, e che quel traguardo sarebbe costato fatica.

Devo anche alla costanza di quella pedalata se sono qui a scrivere queste righe. Ed è anche il rispetto per quella pedalata che, tra altre cose, spinge sempre il mio modestissimo estro a non scivolare nel vaniloquio dell’enfasi, semmai a esercitare la ragione, a cercare di conoscere quello di cui parlo e di cui scrivo e a provare a mettere parole su carta solo dopo aver riflettuto, e averlo fatto a lungo, o, altrimenti, … tacere.

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