Quello strano impulso che ci fa tutti scrittori

di Paolo Maria Mariano

Perché si dovrebbe voler scrivere un libro? O, in maniera più ristretta, … perché si potrebbe voler scrivere un libro con il desiderio che abbia un valore letterario, che esprima, cioè, un contenuto estetico che possa sopravvivere al trascorrere del tempo? In quest’ultima versione la domanda è l’espressione particolare di una più generale: perché si dovrebbe voler fare arte? Segue dibattito ampio e non conclusivo … forse perfino infinito … che include il riconoscere la relazione dell’estetica con la natura e la condizione umana, anzi, richiede proprio d’indagare sull’origine dell’estetica dal modo che hanno gli umani di percepire il mondo: fisiologia e psicologia, quindi, e non solo … di sicuro. Se ci si limita alla sola letteratura, la questione di cui dibattere è … perché si scrive?

Primo Levi nel suo L’altrui mestiere indicava nove possibili ragioni: (1) “perché se ne sente l’impulso o il bisogno”; (2) “per divertire o divertirsi”; (3) “per insegnare qualcosa a qualcuno”; (4) “per migliorare il mondo”; (5) “per far conoscere le proprie idee”; (6) “per liberarsi da un’angoscia”; (7) “per diventare famosi”; (8) “per diventare ricchi”; (9) “per abitudine”, quest’ultima, per Levi, la ragione più triste. Jorge Luis Borges era più sintetico: “si scrive perché si vuole dire qualcosa”. Attenzione: si vuole, non perché si ha qualcosa da dire. La volontà è sollecitata da una o più delle ragioni elencate da Levi e forse da qualche altra cosa, tutti fattori che appaiono in vario grado in ciascuno e forse variano da momento a momento. Certo, se si sceglie uno pseudonimo, o una serie di eteronimi, come faceva Fernando Pessoa, e si resta nell’ombra, probabilmente si esclude il morbo della visibilità personale (punto 7 dell’elenco di Levi) e forse anche l’abitudine, anche se non la tristezza. Se poi si scrive un libro di poesia, si esclude con altissima probabilità anche l’ottava ragione di Levi.

Così accade in Prova d’intonazione di Tazio Purzleber, un libro di liriche, pubblicato da thedotcompany (Reggio Emilia, novembre 2017), raccolta che il prefatore, Alberto Peruzzi, professore di Filosofia Teoretica nell’Università di Firenze, mi ha regalato nel pomeriggio di un freddo e piovigginoso sabato fiorentino, dopo una lunga discussione sulla scrittura con uno storico della filosofia suo amico. Tazio Purzleber è un nom de plume; che sia anche l’anagramma del nome del prefatore è uno scherzo dell’autore che omaggia l’amico da cui è stato spinto a pubblicare i suoi versi, dopo essere stato raggiunto in una non meglio precisata malga della Val Visdende. È un luogo dell’alto Veneto, lungo il Piave, che da sempre mormora. È una valle indicata come “Tempio di Dio, inno al Creatore” nella pubblicità di chi ci abita, forse per questo non a caso scelta dall’autore, Purzleber, diciamo, per passare dallo stato di nomade a quello di “viandante ridotto in stasi”. Che cosa faccia per vivere non è chiaro. Si può pensare a lavori umili, ma non per questo meno dignitosi di altri più reclamizzati, o che sfrutti quella competenza filosofica che emerge dai suoi versi e che lo rende contiguo al suo prefatore. Di più adatto a commentare in dettaglio Purzleber troverei, infatti, difficile immaginare se non un filosofo teoretico. Quei versi non sono tanto l’espressione dell’impulso emozionale ingenuo, infatti, quanto della lunga decantazione di quell’impulso in un sostrato teoretico meditato e consolidato negli anni, un humus da cui riemergono immagini, accostamenti, frastagliature del linguaggio ritmiche e concettuali. Quest’aspetto filosofico emerge anche quando l’autore, con evidente capacità di controllo stilistico, salta da una prosodia di struttura ottocentesca a vezzi quasi frivoli e a ritmi più da moderno rap o da lettura metrica latina (dove il rap affonda le radici foniche, e anzi ne è spesso superato … si legga Virgilio a ritmo metrico per farne esperienza).

Quella di Purzleber è una poesia del disincanto. Non voglio dire con questo che è una poesia da nichilisti, senza dubbio incantati dal nulla che prende corpo e consistenza proprio dalla tensione a esso. Semmai il ricordo va al primo Wittgenstein – intendo Ludwig –, al suo sostenere che i problemi filosofici si riducano a giochi linguistici … posizione poi rivista, è noto. Attraverso i giochi, però, Purzleber esprime con una certa qual levità una critica sociale, soprattutto al mondo intellettuale – supporrei per esperienza – e una certa amarezza per ciò che potrebbe essere e non è, per il tempo che passa, per l’agitarsi degli umani, per la vacuità.

“Non occorre più. \ Il condizionatore \ punta su Vega. \\ Chi manca sei tu. \ La vita non ha odore. \ Il mondo allega. \\ L’orata vien su. \ Sparata dal dolore \ danzando prega”, scrive Tazio Purzleber in Haiku d’agosto (p. 89).

Il verso s’ancora a una struttura formale che rafforza il senso da un lato, e dall’altro lo nasconde, quasi rendendolo ermetico. Quella struttura sorregge la composizione ma non è un artificio formale; sembra semmai emergere da un’esigenza interiore, forse quella stessa che spinge alla scrittura.

Talvolta chiedo anche a me stesso perché talvolta abbia l’impulso di mettere parole su carta. Ogni volta le dita si fermano, non riuscendo a intonare una frase che convinca gli occhi che la guardano formarsi, in principio come suono interiore. Può darsi che io sappia perché, ma forse la consapevolezza, se c’è, è a giorni alterni … e questo non è, mi sembra, quello giusto.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 31 dicembre 2017]

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