Raffaele Carrieri, sacerdote antico della poesia

di Augusto Benemeglio

Il poeta gabelliere

Della rigogliosa flora antica e  di tutte le enormi foreste che ricoprivano il Salento (c’erano oltre duecentomila ettari di boschi, nel principio dell’Ottocento, in Terra d’Otranto. Oggi ce ne sono meno di diecimila), sono rimaste solo tracce:  il “Bosco di Rauccio” ,  gli ulivi millenari nelle campagne di Vernole, la quercia vallonea di Tricase (oltre 700 anni ), la quercia virgiliana della “Masseria Macrì”, nelle campagne di Supersano e il maestoso Carrubo della “Masseria Paccianna” di Gallipoli, uno dei più importanti esemplari dell’area mediterranea, superiore perfino al tanto celebrato carrubo marocchino di “Moulay Idriss”. Sotto quel carrubo glorioso veniva, un tempo, a sostare il “poeta gabelliere”, Raffaele Carrieri , conscio del fatto che “noi siamo i naufraghi di un’altra civiltà”. Qui veniva “a incidere dispersi richiami, sulle spesse cortecce del sughero della storia, che lievi ondeggiavano al vento , come un nulla di cui si possa parlare”, un poeta quasi dimenticato nella sua terra natìa, Taranto, dove nacque nel 1905. Parliamo di un  eccezionale poeta nato dentro la tradizione della migliore poesia italiana del Novecento, quella dei Montale, dei Luzi, dei Sereni, dei Caproni, quella dei Bodini, dei Pagano,  ma anche quella dei grandi autori francesi, da Apollinaire a Valery, o dei grandi surrealisti spagnoli come Lorca, un poeta che per tutta la vita visse nomade e disordinato, che fece tutti i mestieri possibili, pastore di pecore in Albania e in Montenegro, legionario a Fiume vicino a D’Annunzio, riportandone anche una ferita al braccio destro, che da allora in poi poté usare poco e male; un poeta che divenne marinaio su navi da carico e andò girovago per tutti i mari, i porti e i bordelli del mondo; poi fece il gabelliere in Sicilia (“La notte il gabelliere/ è più povero di Giobbe/ La lepre ha la tana/ la pecora la… il gabelliere sconta il peggio”) e  si fermò  (e, direi, si formò)  a Parigi,  allora capitale universale della cultura, dove conobbe i maggiori artisti del tempo e fece tutte le esperienze d’avanguardia subendone tutte le suggestioni e fascinazioni possibili; scelse i suoi modelli “eroici”, Rimbaud, Eluard, Esenin e Garcia Lorca, di cui fu grande amico.

 

La poesia siamo noi

Un poeta che disse che la poesia non si fa, la poesia siamo noi, quello che avremmo voluto essere e non siamo. “Alla malora le carte / cartigli e scartoffie/ che potevano darmi la gloria…E’ follia, follia, restare chiuso in un calamaio/ come la seppia nel mare/ che fa macchie d’angoscia e le sparpaglia”.  Per Carrieri, che se ne andava in giro nudo, con i suoi pensieri, ma libero (“Non più gabella, non più barriera…/ senza sonno e senza frontiera”), il ritorno nella terra dei suoi avi, nella Magna Grecia, a contatto con il Grande Carrubo, era un modo per rigenerarsi. C’è ancora chi lo ricorda settantenne col suo basco, le tele e i  pennelli (sì, perché fu anche pittore e critico d’arte di valore) andarsene al solito posto, sulla pietra glabra caotica e rocciosa, butterata e silente quinta teatrale del Grande Carrubo della Paccianna, si poggiava lì seduto come una “nuvola in calzoni neri” e accarezzava il fondo campestre (ora sfigurato da una orrenda edificazione) e il volo della vespa solitaria, gli sfilacciati sentieri, la sinfonia della mosche, i terreni nudi, le acque paludose; aspirava il profumo del mirto e il fragore dei papaveri e delle margherite di campo. “La poesia non è scrivania / e tanto meno carta…La poesia è in alto e anche in basso/ dove crescono semi/ fiumi e vermi”.

 

Sacerdote antico

Raffaele Carrieri si faceva sacerdote antico dinanzi al Carrubo-tempio votivo. “Tremano gli indovini / a leggere nelle tue mani / i miei profili oscillanti”. Da vecchio  poeta tarantino-spartano, da “alchimista fuggiasco /dalle remote ginestre / di Finisterre”, egli aveva dentro di sé echi di guerrieri nudi, pieni di coraggio e d’avventura, e  filtri e magìe d’antico stregone. Nella sua bisaccia  di nomade si portava la  favola lunga, inesauribile, che non ha inizio né fine, ma nel cui sottofondo è possibile avvertire  un senso sottile di sofferenza e di tensione; ricreava,  quasi per istinto, la sua terra d’origine, quella Magna Grecia vitale e preziosa, di lamine metalliche, di mare e fantasia, miti e riti che alla fine gli lasciava un retaggio di malinconie (I tuoi rami sono lunghe mani di ragazze more…/ il tuo profumo è una scala di tondi lisci gradini / alla fine se ne vanno i cavalli / sentendo da lontano il mare / come gli zingari il rame”).  Alla sua Patria antica, Taranto, e la Puglia in generale, che lo ha trascurato,  che lo trascura,  ha lasciato un linguaggio immaginoso  ed epigrammatico, ora ermetico, ora surreale, con dei versi che “sono degli orologi, regolati sulla vita e sul calcolo”.

E’ un poeta che segna i tempi dell’indugio e le antiche cadenze, ma anche un pittore e un musicologo, un artista che conosceva il canto disperato dei “pompili” e attraversò tutti i boulevard di Parigi assieme a Prevert e ai clochards dei ponti della Senna,  un  uomo che fu tutto e il contrario di tutto: raffinato e trascurato, semplice e imprevedibile, generoso e implacabile, lucido e malinconico giocatore di prestigio, equilibrista del calembour, inesausto bevitore di Pernod, consolatore di puttane e mistico sacerdote del Grande Carrubo di Gallipoli.  Noi lo abbiamo davanti agli occhi, pur non avendolo mai veduto in vita nostra (“Anche a noi capita talvolta d’essere guardato così, come si guarda uno che non dovrebbe esserci, uno che non c’è mai stato”) e potremmo salutarlo così, coi versi del suo grande amico poeta milanese Giovanni Raboni, che lo vide morire, nel 1984, a pochi passi da casa sua: “E noi davanti agli occhi non avremo che la calma distesa del passato/ a ripassare senza fretta / fermando ogni tanto l’immaginazione,/ tornando un po’ indietro, ogni tanto/ per capire meglio qualcosa, / per assaporare un volto, un vestito…un albero antico”.

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