Un limite per la scienza

di Ferdinando Boero

I cinesi clonano una scimmia, un macaco. I cloni sono cosa abbastanza comune, anche nella nostra specie. I gemelli monovulari sono un clone. L’uovo fecondato, lo zigote, comincia a dividersi ma le prima divisione porta al distacco delle due cellule. Dovrebbero restare assieme e, dividendosi ulteriormente, portare all’embrione e, poi, al feto. Una volta divise, ognuna ricomincia il processo e si formano due individui geneticamente e morfologicamente identici: i gemelli monovulari (derivanti da un singolo ovulo). Con la clonazione artificiale si prende un ovulo, si toglie il nucleo e lo si sostituisce con il nucleo di una cellula di un altro individuo. Poi lo si inserisce nell’utero materno e la gestazione continua. Il nuovo individuo sarà identico al donatore del nucleo. Più o meno. Il primo mammifero clonato è una pecora: Dolly. Ben presto, però, il clone di pecora è invecchiato e ha raggiunto rapidamente lo stato di “usura” dell’individuo da cui si è preso il nucleo. Come se in una carrozzeria bella nuova (l’ovulo) si fosse inserito un motore con duecentomila chilometri (il nucleo del donatore).

Rifare questa operazione in una scimmia ci dice che siamo oramai in grado di fare quel che ci pare. Se riusciamo con un primate, riusciremo anche con gli umani. La domanda che sorge spontanea è: per fare cosa? Una volta che, per esempio, si ottenesse un clone umano, col nucleo di un individuo donatore e l’ovulo denucleato di una madre, che potremmo fare con quel clone? Lo mandiamo a scuola con gli altri bambini? O lo teniamo come riserva, come donatore di pezzi di ricambio nel caso che il donatore del nucleo dovesse avere problemi di qualunque tipo? Se il clone è geneticamente uguale al donatore, non ci dovrebbero essere problemi di rigetto in caso di trapianto. Penso a un possibile clone di me stesso. Ovviamente all’inizio sarebbe un neonato, poi crescerebbe. Che si fa con questo bambino? Non avrà le mie stesse esperienze, diventerà “altro”. Non vedrà i Beatles a 14 anni, non avrà i miei compagni di scuola, e non avrà mio padre e mia madre, e mia sorella. Se ci penso, provo un certo disagio. Non mi piace pensare che la scienza abbia dei limiti, ma poi mi trovo a pensare a domande che mi inquietano. Noi e gli scimpanzé abbiamo il 99% di identità genetica. Più di quella di cavallo e asino. Cavallo e asino danno ibridi: il mulo o il bardotto, a seconda che sia un asino a fecondare una giumenta o un cavallo a fecondare un’asina. E’ quasi sicuro che si potrebbero avere ibridi tra uomo e scimpanzé. Magari qualche dr Mengele ci ha già provato. Che faremmo di questi ibridi? Come li considereremmo?

Penso che ci siano limiti anche per la scienza. Ci sono curiosità che potrebbero restare tali. Gli scienziati cinesi hanno dimostrato che si possono ottenere cloni di primati. Bravi! Ora sappiamo che si può fare. Ma adesso si potrebbe cercare di usare la scienza per scopi più nobili, ad esempio, tanto per restare in Cina, per trovare sistemi di produzione che non distruggano il pianeta.

[“Il Secolo XIX” di giovedì 25 gennaio 2018]

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