ESCLUSIVAMENTE in inglese? Sì, grazie!

di Ferdinando Boero

Vale la pena, ovviamente, ritornare sulla discussione riguardo all’uso della lingua inglese in campo accademico. Di mestiere studio la biodiversità, la diversità della vita, e la lingua c’entra poco con questa parola, con cui l’amico Coluccia mi punzecchia per definire la diversità delle lingue. Magari potremmo dire glottodiversità, ma ci vorrebbe un linguista per coniare la parola giusta. Certo, la lingua è prodotta da esseri viventi e la sua diversità può essere ricondotta a qualcosa di bio. Come tutto allora. La biodiversità della letteratura. Ne riparleremo.

Esclusivamente, dice Coluccia, fa la differenza. Progetti da presentare esclusivamente in inglese, corsi da comminare esclusivamente in inglese. Niente di male se sono in inglese, ma non possono essere esclusivamente in inglese. Già, e come si fa?

La nostra Università eroga un corso di laurea magistrale esclusivamente in inglese. Si chiama Coastal and Marine Biology and Ecology. Vengono studenti da tutta Italia, e dall’estero. Quest’anno hanno iniziato a venire gli americani. Come in tutti i corsi magistrali gli studenti non sono molti. Si tratta delle punte di eccellenza della nostra Università, stando al numero di docenti di questo corso che ha contribuito al marchio di eccellenza attribuito dal Ministero ad un solo Dipartimento della nostra Università. Se il corso dovesse essere comminato anche in italiano, dovremmo fare il doppio di ore di lezioni, e ci sarebbero studenti che seguono i corsi in italiano e altri che li seguono in inglese. In certe discipline avanzate non ci sono libri di testo in italiano. Su cosa studierebbero gli studenti che seguono il corso in italiano? La letteratura scientifica è esclusivamente in inglese. Cosa leggeranno per fare la loro tesi? Se certi argomenti sono trattati esclusivamente in inglese, chiederanno ai giudici di pagare qualcuno che li traduca? Sinceramente non vedo alcuna operatività in queste proposte sull’applicazione del principio che i corsi non debbano essere esclusivamente in inglese. Forse dovremmo aggirare l’ostacolo con qualche attività in italiano, in modo da elidere quell’esclusivamente e dimostrare che il corso non è esclusivamente in inglese?

Abbiamo altro da fare, se vogliamo mantenere i traguardi che abbiamo raggiunto, che perderci in schermaglie che non contribuiscono certo al progresso del nostro paese. Non è di buon gusto parlare di sé, lo so. Ma ho coordinato un progetto europeo che vedeva la partecipazione di ventidue stati di tre continenti. Un progetto pagato dall’Unione Europea. La diversità delle lingue era enorme. Dall’arabo al georgiano. Abbiamo scritto il progetto in inglese, esclusivamente, e abbiamo parlato e scritto esclusivamente in inglese. Se ognuno avesse parlato nella propria lingua ci sarebbe stata Babele (con buona pace di Coluccia).

Gli italiani coordinano pochi progetti europei. La percentuale di insuccesso è alta, spesso per incapacità di confezionarli opportunamente (in inglese). Non parliamo poi di amministrarli. Il personale delle amministrazioni non conosce l’inglese e chiede ai ricercatori di tradurre tutto. Passiamo il nostro tempo a tradurre documenti per uffici in cui non si conoscono le lingue e che potrebbero tradurre parole come “stalking” in modo affrettato, data la scarsa domesticità con lingue che non siano la propria. Poi ci riempiamo la bocca di internazionalizzazione.

Ma dove vogliamo arrivare con i cavilli dell’esclusivamente? Davvero non capisco. I nostri studenti devono imparare a parlare, scrivere e pensare nella lingua che li porterà in giro per il mondo. E questo non si può ottenere se non facendoli calare completamente in quel modo di esprimersi. Prima che organizzassimo questi corsi, per gli studenti italiani c’era un solo modo per sprovincializzarsi: andare a studiare all’estero. Ora lo possono fare restando in Italia e, fuori dall’ambito di studio, possono parlare italiano. Così come fanno gli studenti stranieri che vengono a studiare da noi perché i corsi sono esclusivamente in inglese. In questo modo impediamo che gli studenti vadano via, e ne attiriamo dall’estero. Un buon servizio per l’Italia e l’italiano.

Questo non significa che, allora, l’italiano sia da cancellare. Come non lo è il francese, o il tedesco, o lo spagnolo (non vorrei fare la lista delle lingue che si parlano anche solo in Europa). La comunità scientifica parla inglese, in molte discipline. In quelle discipline non ci sono alternative. In altre magari ci sono. Le specificità sono più nazionali. Posso capire che si dica che fare progetti esclusivamente in inglese sia poco saggio, in alcune discipline. Ma che si voglia imporre la doppia versione in tutte è solo un inutile aggravio di lavoro.

In tutte le discipline, comunque, l’Unione Europea impiega ingenti fondi dedicati alla cooperazione tra gli stati europei. Anche in quelle umanistiche. E credo che in questi casi i progetti si scrivano in inglese. Anche se confesso di non saperlo. Non credo però che progetti tipo quello che ho coordinato, con 22 stati, sarebbero possibili se tutti pretendessero di parlare nella propria lingua. La pretesa sarebbe il preludio del fallimento nel ridicolo.

L’Europa garantisce la diversità linguistica nei suoi atti che, sui siti europei, sono tradotti in tutte le lingue dell’Unione. E ci sono stuoli di traduttori e traduttrici che permettono che nelle discussioni politiche ogni rappresentante parli nella propria lingua, in modo che non ci siano vantaggi per chi conosce meglio una lingua non sua o che ha come prima lingua quella in cui si svolge il dialogo.

I progetti di rilevante interesse nazionale sono sottoposti a esperti stranieri per la valutazione. E non possiamo pensare che questi leggano progetti in italiano. Prima era facoltativo presentare la versione inglese. Così molti presentarono solo la versione italiana. Risultato: chi presentò la versione inglese fu valutato anche all’estero, mentre chi presentò la versione solo in italiano ebbe valutazioni esclusivamente italiane. Devo spiegare altro? Meglio che siano esclusivamente in inglese, perché noi siamo italianamente furbi.

[”Nuovo Quotidiano di Puglia”, mercoledì 7 febbraio 2018]

 

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