La proclamazione dell’Impero

di Giovanni Bernardini

Il 2 ottobre 1935, verso sera, piazza Falconieri a Monteroni s’era riempita di gente. C’ero anch’io in divisa da balilla. Dopo qualche incidente di frontiera con l’Etiopia, provocato a pretesto della prossima offensiva militare per vendicare la sconfitta di Adua nel 1896, sotto il governo Crispi, e costruire il nostro impero coloniale, si attendeva la parola del Duce.

Tuonò infatti dal balcone di Palazzo Venezia: “Abbiamo pazientato quarant’anni. Ora basta”.

Un applauso frenetico, immenso esplose in tutte le piazze d’Italia. Eravamo dunque in guerra dichiarata. Nulla aveva potuto nell’aprile l’appello del Negus Hailé Selassié alla Società delle Nazioni a Ginevra, tanto che a settembre, di fronte alla minaccia italiana, aveva dovuto ordinare la mobilitazione generale.

Il 18 novembre la Società delle Nazioni delibera le sanzioni economiche all’Italia. In risposta il Regime fascista aveva organizzato l’offerta dell’ “Oro alla Patria”. Nello stesso 18 novembre o in data prossima le donne italiane, a cominciare dalla Regina Elena, si privarono della loro fede nuziale, sostituita da un anello d’acciaio. Malvolentieri lo fece pure mia madre.

Le nostre truppe avanzavano in territorio etiopico. I bollettini di guerra, la radio, i cinegiornali, la stampa esaltavano le battaglie per noi vittoriose.

Tali truppe erano in buona parte composte da volontari arruolati spesso nella prospettiva d’una paga e poi d’un lavoro nella nuova colonia. Si diffondevano canzoni come Adua è liberata,/ è ritornata a noi…; Io ti saluto e vado in Abissinia,/ cara Virginia./ Ritornerò…; Faccetta nera,/ bell’abissina,/ aspetta e spera/ ché già l’ora s’avvicina… Quest’ultima in seguito sarà quasi proibita, poiché sembrava favorire i matrimoni con le “belle abissine”. Sebbene non fossero ancora emanate le leggi razziali, il Fascismo non voleva contaminazioni dei bianchi con donne di colore.

A metà ottobre si erano riaperte le scuole. Feci quindi il mio ingresso alla III ginnasiale del Regio Liceo-Ginnasio “G. Palmieri” a Lecce. Non mi era del tutto nuovo dato che, due anni prima, ci avevo sostenuto gli esami di riparazione d’italiano per l’ammissione al Ginnasio. Quel rinvio a settembre in una materia valutata sempre con voti positivi era parso inspiegabile, tanto che mio padre aveva preferito che riparassi in una scuola di Lecce.

Ora però mi trovavo in mezzo a una folla di volti sconosciuti, nella piazzetta Carducci, al cui centro si erge il busto del poeta. Una piazzetta pressoché quadrata, un lato aperto su via Cairoli con la Libreria di Iole Natali, gli altri tre chiusi da un portico a colonne doriche con frontone nel quale spiccava il grande occhio d’un orologio e, sotto, la scritta “Religioni et bonis artibus” (Per la religione e le belle arti). Tutto assai diverso dal modesto ingresso del “Rinaldini”, situato addirittura a metà scalinata tra Caserma dei Pompieri e piazza Roma ad Ancona.

Il “Palmieri” era stato un convento, lo dimostravano i chiostri interni, alla fioritura odorosi di nespoli. Sui chiostri si affacciavano aule e uffici, al primo piano la sede del Convitto, a pianterreno anche un teatrino, dove gli studenti, di solito a fine anno scolastico, davano qualche spettacolo.

Alle spalle d’uno dei lati, su via Caracciolo, c’erano la vecchia Biblioteca Provinciale e la Scuola di Avviamento Professionale, detta spregiativamente “Regia Scarperia”.

Nella piazzetta, mi resi conto in seguito, si attendeva fra l’altro l’arrivo delle ragazze, tenute a entrare prima e indossare grembiuli neri, in classi rigorosamente maschili e femminili. Le più belle erano le sorelle Morelli, le Romano e alcune altre.

Per me l’impatto più difficile consistette nel passaggio dal rubicondo e bonario professor Mariani di Senigallia al toscano Michelini, magrissimo e severissimo. Era il nostro insegnante di Lettere in III C. Avevo però buone basi e presto mi sentii a mio agio. Lo stesso avvenne con i nuovi compagni, leccesi ma molti provenienti dalla provincia o da vicine province. Quest’ ultimi quasi sempre convittori in divisa.

Ragazzi di Monteroni ce n’erano due. Con uno di loro l’amicizia nacque in una particolare circostanza. Non ricordo se avevo perso il mezzo per tornare a casa o ci fosse altro motivo: m’ero messo in cammino a piedi quando mi raggiunse in bicicletta il compagno monteronese. Volle caricarmi sulla canna della bici e così, faticando un po’, mi portò in paese. Si chiamava Salvatore Pallara e, fra noi semplicemente Totò. Le straordinarie coincidenze della vita fecero sì che, al mio ritorno dal Nord nel maggio ’45, fosse il primo amico incontrato quaggiù, sempre sulla strada di Lecce, lui in bicicletta e anch’io su una avuta in prestito. Ricordava spesso quel momento davvero magico: dopo l’abbraccio commosso, io in tuta da operaio, zaino sulle spalle, lasciata cadere la bici, inginocchiato a baciare la terra…

Brillava da primo della classe non solo in III C, ma tra i migliori di tutto l’Istituto, Oronzo Parlangéli, proveniente da Novoli. Il destino gli riservava una prestigiosa carriera universitaria di linguista e purtroppo una tragica fine in incidente d’auto proprio nel pieno vigore intellettuale e fisico quando già lavorava, con numerosi collaboratori e coraggioso entusiasmo, alla realizzazione della grande Carta dei dialetti italiani.

All’inizio lo preoccupò quel nuovo arrivato da Ancona, che in italiano riportava voti migliori.

Preoccupazione però cancellata dalla successiva bella amicizia, che c’indusse a sedere nello stesso primo banco. Oronzino poi era un tipo simpatico, allegro, scherzoso, appioppava soprannomi a vari professori: a quello di filosofia al Liceo “lu cueddhu” per un tic nervoso al collo; al vecchio e grasso insegnante di religione “papa Ricotta”; a quello di greco, don Gennaro D’Elia, suo compaesano, “Kirchhoff” dal filologo tedesco citato più volte dal professore. Gli piaceva spesso servirsi del dialetto, tanto che, già universitario alla “Cattolica”, avendo intravisto in lontananza uno studente leccese della “Statale”, lo apostrofò: “Ehi, nunnu te l’oe!” (uomo venditore di uova). E quello non poté non fermarsi alla “manifesta loquela”, mentre qualche passante milanese avrà pensato trattarsi d’una lingua della “Terronia”.

Al professore di francese toccò il nomignolo di “Pireca”, forse coniato su un verbo greco e tuttavia manchevole nella memoria d’un preciso significato o riferimento. Io buttai giù versetti satirici su di lui per divertimento, senza malevolenza, forse sotto l’influenza del Giusti.

Con Michelini leggevamo Ricordanze della mia vita di Luigi Settembrini e mandavamo a memoria poesie di Giuseppe Giusti.

 

Tra l’inverno del ’35 e la primavera dell’anno successivo, le nostre truppe, passando di vittoria in vittoria, avanzavano verso la capitale, da dove il Negus era già fuggito. Il 5 maggio infine entravano in Addis Abeba comandate dal Maresciallo Badoglio.

Già nelle piazze d’Italia s’era data solennemente notizia della riconquista di Adua. Ora si attendeva che Mussolini desse gli annunci più esaltanti. Così fu il 5 maggio e, pochi giorni dopo, il 9 maggio, quando proclamò il riapparire dell’Impero “dopo quindici secoli sui colli fatali di Roma”. Vittorio Emanuele III, soprannominato “gambine” o “sciaboletta” per la corta statura, assumeva, accanto al titolo di Re d’Italia, quello d’Imperatore d’Etiopia.

Centouno colpi di cannone avevano salutato il primo giorno dell’Impero. Erano stati preceduti dallo scampanio di non so quanti campanili di tutta Italia e dagli altoparlanti che annunciavano il discorso di Mussolini. Le piazze s’erano riempite d’enorme folla, sventolio di bandiere tricolore e gagliardetti neri, divise fasciste, grida di “Duce! Duce!”, “Viva Casa Savoia!”… E Mussolini sfoderò la sua oratoria, ben pausata ad accogliere di volta in volta scroscianti applausi. Un’oratoria senza dubbio efficace, con riferimenti alla grandezza di Roma antica per accendere d’orgoglio gl’Italiani e stimolare specie noi giovani a nuovi doveri in quanto cittadini d’un Impero. “Il popolo italiano ha creato col suo sangue l’Impero, lo feconderà col suo lavoro e lo difenderà contro chiunque con le armi”. Qui il concetto che alla spada dovesse seguire la vanga: così faceva Roma, così l’Italia fascista.

La presunzione di ricalcare le orme d’una antica grandezza aveva portato il Regime ad assumerne i simboli (aquile, fasci ecc.) e il lessico (Littorio, littore, littoriali, Seniore, Console, Podestà, Duce ecc.). Si cantava l’Inno a Roma (Sole che sorgi libero e giocondo,/sul colle nostro i tuoi cavalli doma./ Tu non vedrai nessuna cosa al mondo/ maggior di Roma.), musicato nel ’19 da Puccini e ispirato al Carmen saeculare di Orazio. Tra le grandi scritte murarie come “Dio Patria Famiglia”, “Credere Obbedire Combattere” appariva anche “Roma doma”.

All’efficacia oratoria di Mussolini bisogna aggiungere un certo carisma emanante dalla sua personalità, perverso al pari o quasi con quello di Hitler, per cui la stragrande maggioranza del popolo italiano, come il tedesco, veniva travolto in una colpa collettiva.

Solo oggi, a rivedere alcuni filmati d’archivio, si evidenziano pose istrioniche e sbruffonesche del Duce, tali da cadere nel ridicolo.

La vittoria in Africa Orientale portò sulle copertine dei nostri quaderni le immagini a colori del Maresciallo Badoglio che entra in Addis Abeba montando un cavallo bianco e del Viceré Graziani, al quale “notabili delle più lontane contrade d’Etiopia con entusiastica fede attestano la loro devozione alla bandiera italiana apportatrice di civile progresso”. Sul retro dei quaderni una cartina geografica comprendente Abissinia, Eritrea e Somalia sotto la pomposa scritta “L’Impero italiano d’Etiopia”.

Non posso sostenere se dal Minculpop (Ministero della cultura popolare) giungessero delle “veline” ad obbligare l’assegnazione di compiti scritti d’italiano a tema fascista. Certo è che questi erano frequenti. Io li svolgevo con molta cura e papà riempiva i suoi giorni d’aspettativa anche ricopiandoli diligentemente dalle minute e seguendo con affettuosa soddisfazione i miei successi scolastici. Ho ritrovato quei quaderni pieni della grafia paterna aguzza e a volte difficile a decifrarsi. Rileggendo i temi, li ho notati zeppi di retorica, spesso ripetitivi e prolissi. Ma la valutazione era alta, dal 7 addirittura al 9. Ignoro cosa dentro di sé pensasse mio padre, che nella data trascriveva persino l’anno dell’Era fascista. Forse a lui importava solo il buon voto.

In due quaderni figure di balilla e avanguardisti, sopra la frase “Giovinezza in marcia”. Verso dove? È lecito supporre, secondo l’ideologia dominante, verso un radioso avvenire di gloria imperiale. Invece andavamo inconsapevoli incontro a sangue e rovine d’una guerra più grande e orribile della 1ª guerra mondiale. Infatti, quello stesso anno ’36, ne comparvero i prodromi allorché a luglio il Generale Francisco Franco provocò la rivolta dei presidi in Marocco e, a capo dei nazionalisti, iniziò la guerra civile in Spagna.

Nonostante le dichiarazioni di non intervento nel conflitto spagnolo, Italia e Germania di fatto mandarono aiuti militari agli insorti nazionalisti, facendo le prime prove dei loro nuovi armamenti e della loro organizzazione bellica.

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