Un futuro da insegnare

di Antonio Errico

La via d’uscita

Il 25 settembre Milleduecentosessantaquattro, sul far del giorno, il Duca d’Auge salì in cima al torrione del suo castello per considerare “un momentino” la situazione storica. La trovò poco chiara.

Comincia così I fiori blu di Raymond Queneau.

Accade, alle volte, di soffermarsi “un momentino” a considerare la situazione storica e di trovarla poco chiara.

Probabilmente perché i tempi non sono mai chiari, perché la Storia si fa nella confusione, nella contraddizione, attraverso i contrasti, i conflitti, le incoerenze, le antinomie, più o meno evidenti, più o meno laceranti, con percorsi indefiniti, discontinui, con fratture.

In fondo non c’è mai niente di nuovo sotto il sole, e se accade che qualcosa ci sembri nuovo, è semplicemente per il fatto che ignoriamo che sia già accaduto in un altro tempo, in un altro luogo.

Allora quando riconosciamo all’epoca che si vive una condizione di complessità provocata – anche – dalle frane dei punti di riferimento, dall’incrinarsi o dal frantumarsi delle certezze, dal frastagliarsi delle identità, forse dovremmo considerare, fra le altre cose, che non ce n’è stata mai un’altra semplice, lineare. Non c’è stata mai un’epoca che non abbia attraversato crisi, che non si sia confrontata con la complessità. Certo, esistono livelli di complessità diversi: un’epoca ne registra uno più basso oppure più alto di quello di un’altra. La contemporaneità registra un livello di complessità alto, altissimo.

La rapidità con cui mutano gli scenari culturali, sociali, economici, determina complessità. Sono complesse le esperienze di lavoro e, forse anche di più, quelle del non lavoro, dell’inoccupazione, della sottoccupazione. Sono complesse le relazioni intersoggettive, le dinamiche interculturali.

Sono complessi i processi di acquisizione delle conoscenze perché gli ambiti del sapere hanno confini che si slargano, si sovrappongono, a volte si confondono, e il tessuto di conoscenze e competenze personali tiene per un tempo limitato, ha bisogno di essere intrecciato con conoscenze e competenze nuove, di diversa provenienza e diverso genere. Ogni professione richiede costanti adattamenti, rimodulazioni, riformulazioni di concetti e di pratiche.

Quello che si rivela utile sapere e saper fare oggi, domani o domani l’altro dovrà essere necessariamente riconvertito, riorganizzato. Teorie e metodi richiedono – anche in modo pressante – varianti, innesti. Il sapere moltiplica le sue forme e le sue espressioni.

Probabilmente è questa moltiplicazione che occorre prioritariamente comprendere per poter essere in grado di decifrare e interpretare la complessità dei diversi fenomeni sociali, della Storia e delle sue manifestazioni. Senza strumenti di decodifica, di lettura, di analisi, non si potrà fare altro che limitarsi ad osservare ed a prendere atto della confusione di tutto. Non potremo capire da dove vengono i problemi e quali possano essere le soluzioni, da che cosa sono generate le turbolenze che attraversano il sociale, che cosa produce le crisi e in che maniera si possono governare; tutto ci sembrerà frammentario, disordinato, sottoposto al caso; non avremo autonomia di giudizio, capacità critica, disponibilità alla flessibilità, per cui assumeremo un comportamento passivo nei confronti degli eventi, li subiremo senza possibilità di modificarli.

Ecco, dunque, che per non ritrovarsi nella condizione del Duca d’Auge, per non restare a guardare senza capire, si rivela indispensabile mettersi nella condizione di apprendere per tutta la vita. La formazione negli anni della scuola e dell’università non basta più; non basta più l’apprendimento formale. Serve realizzare una conoscenza in ogni contesto in cui si agisce, costantemente e trasversalmente. Non importa se quello che s’impara possa avere un esito oppure no.

Alla fine del primo saggio di Perché leggere i classici, Italo Calvino ricorda una cosa che diceva Cioran a proposito di Socrate: mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. “A cosa ti servirà?” gli fu chiesto. “A sapere quest’aria prima di morire”, rispose Socrate.

Certo, potrebbe anche sembrare banale. Ma a volte dietro l’apparenza del banale si nascondono sostanziali verità.

Dal torrione del suo castello, il Duca d’Auge osserva i resti del passato che si trascinano alla rinfusa, gli Unni che cucinano bistecche alla tartara, i Gaulois che fumano gitane, i Romani che disegnano greche, i Franchi che suonano le lire, i Normanni che bevono calvadòs. Sagome sfatte all’orizzonte. Fenomeni consunti. Rimasugli che resistono allo sbriciolamento.

Guarda e non capisce tutta quella confusione della storia, e si chiede: “Non si troverà mai via d’uscita?”

Probabilmente è proprio a questo che serve il conoscere: a trovare una via d’uscita. Ma si può trovare una via d’uscita quando si è in grado di scegliere, di orientarsi, e ci si può orientare quando non si è costretti a percorrere una sola via perché le vie che si conoscono sono tante, quando si possiedono i metodi per interpretare quello che sta accadendo intorno a noi e anche dentro di noi, per dissipare in qualche modo e per quanto è possibile la fumea che si spande, s’infittisce, ci impedisce di capire.

 

La forma dell’informe

Per la prima volta nella storia della civiltà, gli adulti si trovano nella condizione di non poter insegnare ai giovani l’uso degli strumenti con i quali si accede al sapere.

Per secoli gli strumenti si sono tramandati di generazione in generazione; pur se con varianti dovute all’evoluzione, sia la struttura che le modalità d’uso rimanevano piuttosto identici.

Poi, dalla generazione Gutemberg è nata la generazione digitale e da quel punto in avanti si è scardinata la relazione di insegnamento, perché la generazione digitale si è appropriata dei metodi di acquisizione delle conoscenze attraverso i nuovi strumenti.

Non c’è assolutamente nulla di male in questo. Anzi, si tratta di una condizione che ha un fascino straordinario, che finalmente scardina il processo di trasmissione fondato su pratiche e linguaggi consueti. I nativi digitali riescono a fare molte cose contemporaneamente: navigano in rete, ascoltano musica, leggono, mandano messaggi, guardano la tv e fanno zapping. Con rapidità incredibile si aggirano tra forum, blog, social network. Per loro le forme di comunicazione sono complementari, coesistono, si sovrappongono. Mettono insieme vecchi e nuovi media, li integrano, li fanno interagire.

Finalmente si verifica una condizione di autoapprendimento che come si sa è l’apprendimento più efficace, quello che consente di portarsi verso le conoscenze nei modi più coerenti con la personalità e più aderenti alle necessità di formazione.

Pochi fenomeni hanno la stessa bellezza di quello che rappresenta un bambino che da sé fa un’esperienza di conoscenza usando strumenti che governa quasi per un dono di natura.

Così sembra che il sapere di genitori e maestri non abbia più funzione, che sia destinato a consumarsi senza riprodursi, che le loro esperienze si debbano esaurire senza tramandarsi.

Potrebbe anche accadere: accadrebbe nel caso in cui i genitori, i maestri, adottassero i metodi e gli strumenti che non appartengono alla loro formazione, nei confronti dei quali si ritroverebbero inevitabilmente inadeguati o comunque meno competenti rispetto alle competenze che hanno le generazioni digitali.

Sarebbe un errore storico, oltre che pedagogico. Da sempre, gli adulti insegnano quello che i giovani e i ragazzi non sanno, in termini di conoscenze, di metodi, di esperienze. Nella dimensione formativa di questo tempo c’è una condizione che le generazioni digitali non hanno. A loro mancano le forme del sapere. Mai nessuno ha avuto la quantità di informazioni che adesso hanno i giovani, i ragazzi. Mai nessuno ha avuto la possibilità di recuperare quelle informazioni con una rapidità sbalordente. Mai nessuno ha avuto tanti strumenti e occasioni e possibilità di cercarsele oppure di riceverle senza neppure cercarle. Però non sanno metterle insieme, selezionarle, connetterle, sistematizzarle, contestualizzarle. Non sanno organizzarle in una forma.

Non lo sanno semplicemente perché i mezzi che usano non sono fatti per questo.

Allora gli adulti possono insegnare a costruire forme di sapere, ad intrecciare i fili che provengono da gomitoli diversi, a condurre le informazioni nei loro contesti, a verificarle, a valutarle. Perché un’informazione priva di contesto, di cui non si conosce la consistenza e la fonte, può essere falsa ed un’informazione falsa può essere pericolosa, può plagiare, può ridurre o azzerare la capacità di reazione psicologica, critica, culturale.

Insegnare ad attribuire una forma, a ricostruire i contesti, consente di verificare quale fra di esse risulta fuori posto, non si connette alle altre. In particolare permette di riscontrare se e quanto sia aderente alla propria personalità o semplicemente a quello che si intende cercare e comprendere.

L’eccesso di informazione disorganica è, probabilmente, la condizione più pericolosa in cui possono ritrovarsi le generazioni digitali. In fondo l’età è quella in cui alquanto facilmente si diventa preda di sirene d’ogni sorta, dei loro canti che provengono dalle cosiddette nuove tendenze. Ne esistono in ogni settore e attirano “colui che ignaro s’accosta”, come dice Circe a Ulisse.

Solo il non essere ignaro, dunque, solo l’aver acquisito la competenza a dare una forma all’informe può salvare dal fascino malefico del loro canto.

Allora gli adulti devono insegnare a configurare forme di sapere consapevole e critico in modo che i giovani possano evitare le innumerevoli isole delle sirene disseminate e occultate nello sterminato oceano virtuale.

Saper riconoscere le isole avvelenate ed essere in grado di non subire l’incantamento delle sirene, in questo tempo diventa essenziale forse più che in qualsiasi altro tempo. Perché il loro numero cresce in modo incontrollato, le loro voci si moltiplicano in continuazione, si spandono a dismisura, diventano sempre meno identificabili, sempre più incontrollabili.

Probabilmente non è un caso che Omero non le abbia descritte fisicamente. Probabilmente intuiva che le loro sembianze si sarebbero trasformate in base al tempo, alle intelligenze degli uomini, alle loro esperienze di conoscenza, alle ambizioni, ai desideri. Aveva intuito anche che a un certo punto, in una certa epoca, una volta che fosse stato completamente svelato l’inganno mortale del loro canto, avrebbero trovato un altro richiamo. E’ stato Kafka a intuire che l’ altro richiamo delle sirene, ancora più terribile del canto, fosse il loro silenzio.

Quello che occorre insegnare e il modo in cui lo si insegna sono definiti dalla cultura del tempo presente considerato in relazione tanto alle espressioni del passato quanto alle prospettive del futuro.

L’insegnamento non può essere mai indifferente. Quando è indifferente è anche sterile.

Ora è il tempo in cui agli adulti è assegnato il compito di insegnare a chi adulto non è in che modo salvarsi dalla malia del canto o del silenzio delle sirene virtuali. Per farlo non hanno altro che quei vecchi strumenti che sono le discipline: la filosofia, la storia, la fisica, la biologia, la chimica, il diritto, e quell’altra strana cosa che si chiama letteratura. Sono ancora questi vecchi strumenti che possono delineare forme, elaborare categorie con le quali orientarsi evitando la deriva o il naufragio nell’indefinito dell’informazione.

 

Auto da fé

Di quale cultura si avrà bisogno fra vent’anni, fra dieci; che cosa sarà indispensabile sapere e saper fare; quali strumenti si dovrà essere in grado di usare per poter avere consapevolezza delle esperienze, per potersi confrontare con i codici del sapere, con le faccende da sbrigare, per attribuire significatività alle relazioni sociali, per praticare una cittadinanza reale, per poter affrontare situazioni di lavoro nuove o continuamente rinnovate. Probabilmente non è un interrogativo che coinvolge soltanto chi in questo tempo si trova in una fase di formazione, che fra dieci anni ne avrà venti, fra venti ne avrà trenta e si ritroverà al centro di scenari che in qualche modo avrà anche contribuito a conformare.

Interessa tutti senza distinzione di generazioni, di condizione sociale. Riguarderà qualsiasi adulto che dovrà semplicemente prendere un aereo o un treno, prenotare una camera d’albergo, leggere le istruzioni per qualcosa, chiedere informazioni a uno sportello o per la strada, pagare la bolletta all’ufficio postale, annotare un nome e un numero sull’agenda.

Forse anche le cose più semplici e consuete dovranno essere fatte in un modo nuovo, con nuovi mezzi, con linguaggi diversi da quelli di adesso.

Alcuni passaggi avverranno in modo graduale, che forse neanche ce ne accorgeremo. Ce ne saranno alcuni che avverranno all’improvviso, per esempio quelli determinati dalle macchine. Alcuni di essi riusciremo a governarli agevolmente; altri saranno piuttosto complicati; alcuni ci renderanno più comoda la vita, altri invece ci molesteranno. Com’è sempre accaduto e come accade per molte cose, in fondo. Ma quanto e come riusciremo a confrontarci con la mutazione improvvisa o graduale, dipenderà dalla cultura personale e da quella della comunità in cui ci troveremo. La cultura rigida avrà difficoltà di adattamento; quella mobile, flessibile, flessuosa, si modellerà abbastanza facilmente.

Per esempio sarà necessario conoscere le lingue. Non una, due. Molte lingue. Anche per parlare con il vicino di casa. Ma, forse, più che conoscere molte lingue, sarà necessario essere disponibili ad apprendere rapidamente quella che serve a seconda delle circostanze.

Poi bisognerà avere una capacità di selezione ancora più scrupolosa di quella che serve oggi. Non è agevole nemmeno immaginare la quantità di dati e di informazioni che avremo a disposizione. Ma questo non ci renderà più sapienti, non ci darà più conoscenze, e non sapremo che farcene della maggior parte delle informazioni se non avremo la capacità di riportare ogni dato, ogni informazione, in un contesto di senso, di elaborare punti di riferimento, di organizzare l’informe in un forma, una struttura coesa, coerente. Resterà tutto sfilacciato e sospeso, non produrrà esperienza. Poi, chissà se non sarà necessario recuperare il significato di quello che Montale diceva in “Auto da fé”: la cultura è quello che rimane nell’uomo quando ha dimenticato tutto quello che ha appreso. Forse servirà imparare a levare piuttosto che a mettere, a selezionare le cellule riproduttive del sapere, a tenere – trattenere- soltanto le fondamentali unità di quel tutto che si presenta nella forma di onda gigantesca o di rivolo davanti ai nostri occhi, alla mente, alla vita.

Bisognerà reimparare tanto a ricordare quanto a dimenticare.

Quello che alcuni ritengono con certezza è che fra venti anni, fra dieci, cambierà il nostro modo di apprendere, di conoscere, di studiare, cambieranno le cose che studieremo. E’ vero. Però poi viene da domandarsi se il modo di apprendere, di conoscere, di studiare, non sia sempre cambiato, non cambi continuamente, in relazione al tempo, ai mezzi che si hanno, alle finalità, per cui qualche volta si ha difficoltà a capire in che cosa consista veramente la novità.

Poi ci sono altri – i conservatori, i tradizionalisti – che sostengono il contrario: dicono che a un certo punto si tornerà all’antico, a quello che ha dato risultati, alla ricerca di una cultura del sostanziale; è un’idea che si può sintetizzare nella considerazione che non conta la quantità di quello che si conosce ma la sua qualità, e per qualità intendono la competenza che si ha nel riprodurre le conoscenze, nel trasferirle, nell’applicarle.

Forse la difficoltà più grande consisterà nel riuscire ad attribuire una dimensione storica alla cultura, nell’elaborarla nel contesto di una struttura stabile e adattabile allo stesso tempo. Si assiste spesso, già da qualche decennio e negli ultimi anni in modo più diffuso, ad un’acritica, superficiale, estemporanea adesione a mode e modelli dall’epistemologia inconsistente, che mancano di qualsiasi radice culturale. Accade anche in contesti, come quello della formazione, che non possono prescindere dalla dimensione storica della cultura se non con il rischio di rendere inefficace qualsiasi esperienza di conoscenza. Perché ogni cultura, in qualsiasi tempo, deve indispensabilmente avere una relazione sistematica con la realtà, con l’immaginario, con i miti, con i riti, con la scienza e anche con le superstizioni, con le mentalità e le modalità di rappresentare soggettivamente e collettivamente l’universo, con le coerenze e con le contraddizioni dell’epoca, con il senso del passato e con quello del futuro.

Forse la sostanza della cultura è proprio in questa relazione. Forse senza questa relazione non c’è cultura ma un’amorfa mescolanza di impulsi, richiami, di bip bip insignificanti.

 

Per non fare la fine dei dinosauri

In un libro che s’intitola Un cerino nel buio viene riportata una conversazione fra l’autore Franco Brevini e il filosofo della scienza Mauro Ceruti. A un certo punto Brevini dice che nei momenti di crisi profonda gli animali troppo specializzati come i dinosauri, che si cibavano di una o di poche risorse, come le piante verdi la cui riproduzione era inibita dall’oscurità che si era rovesciata sulla terra, sono i primi ad essere danneggiati. Gli animali versatili, invece, quelli flessibili, capaci di adattarsi ai nuovi contesti, hanno maggiori possibilità di farcela, com’è accaduto ai mammiferi da cui discendiamo, i ratti del mesozoico.

Ceruti, da parte sua, sostiene che questa legge della natura può essere applicata alla specializzazione nella formazione, nella cultura, che quando è troppo circostanziata, quando non ha una prospettiva d’insieme, trasforma le cose apprese in una prigione da cui non si riesce ad evadere. L’iperspecializzazione non consente di vedere i nessi, le interconnessioni, gli intrecci. Per questa ragione, la scuola deve realizzare una formazione che consenta l’apprendimento per quanto dura l’esistenza, una competenza finalizzata allo sviluppo non solo delle conoscenze ma della stessa capacità di conoscere.

Ora noi viviamo un tempo di crisi profonda, complessa, destinata ad amplificarsi, che si può sintetizzare nell’interrogativo che riguarda la fisionomia culturale che serve già oggi e che più di oggi servirà domani nei contesti socio-lavorativi, senza dubbio, ma anche nella configurazione di personalità che siano in grado di confrontarsi con l’esperienza dell’incertezza, con quella dell’incontro con culture “altre”, con la rapidissima evoluzione dei linguaggi e degli strumenti del sapere.

Probabilmente è da almeno due decenni che non ha più senso elaborare rigide distinzioni tra una formazione marcatamente specialistica e una a struttura trasversale. Già questo presente storico, sociale, culturale, richiede una formazione che integri la specificità delle conoscenze con la flessibilità degli stili di pensiero, con l’adattabilità dei comportamenti, con la capacità di mediare fra tradizione e transizione, fra l’acquisito e la tensione della ricerca che talvolta può anche scombinare l’acquisito, fra il vecchio e il nuovo che non devono contrastarsi ma combinarsi in una dimensione equilibrata, consistente, resistente.

Forse siamo già e saremo sempre più una proiezione della figura di Ulisse. Non dell’eroe ma dell’uomo che sente, ad un tempo, il richiamo di quello che ha lasciato e l’attrazione per l’avventura nuova.

Se è fuori d’ogni dubbio che la contemporaneità ha bisogno di saperi specialistici, in quanto sono questi saperi che, prevalentemente, consentono il progresso di ogni scienza, altrettanto fuor di dubbio è il bisogno di un’interazione fra i diversi saperi specialistici, perché è questa interazione che genera la crescita complessiva, dalla quale ciascuno può trarre vantaggi.

La progettazione e la realizzazione di un’automobile avviene attraverso la convergenza sull’oggetto di conoscenze specifiche che vanno dalla meccanica al design. Il prodotto finale è il risultato di quella convergenza. Allora, uno prima guarda la macchina da fuori, per cui l’accostamento è di tipo estetico; poi verifica se è comoda da dentro, con un’attenzione al benessere, quindi; a meno che non sia un tecnico o un appassionato, nemmeno apre il cofano per guardare il motore. Vale a dire che dà per scontata la qualità della parte essenziale, quella che con molta probabilità ha richiesto una più significativa competenza specialistica.

Facciamo la stessa cosa anche per una casa, di cui non andiamo a verificare le fondamenta.

Anche nei confronti di una società ci comportiamo più o meno alla stesso modo: guardiamo se ci piace, ci chiediamo se ci stiamo bene, rivolgiamo attenzione al funzionamento complessivo della scuola, della sanità, della giustizia, dando per scontato che la loro qualità dipende dalle competenze specifiche che la determinano.

Ecco, dunque,il motivo per il quale si ha necessità di un sapere specialistico che si armonizzi con quello complessivo e quindi di un processo formativo che dalla scuola dell’infanzia all’università, ai percorsi post universitari, elabori curricoli che dalla connotazione disciplinare, che risulta comunque indispensabile, aprano finestre sull’interdisciplinare. Forse agli studi di ingegneria serve anche qualche conoscenza di filosofia, e a quelli di filosofia una cosa semplice semplice di ingegneria non farebbe male.

Quasi mai i fenomeni della cultura arrivano a noi in maniera settoriale, attraverso i loro singoli elementi.

Generalmente si manifestano nel loro insieme, che poi scomponiamo analizzando quelli che più ci interessano non in assoluto ma in quel momento, per un determinano fine, per curiosità, per piacere, senza però trascurare il contesto al quale appartengono e all’interno del quale hanno senso e funzione. Poi, può accadere che, in un altro momento, altri fini, altre curiosità, altri piaceri, suscitino l’interesse per altri elementi dello stesso contesto.

Forse non è del tutto improprio, allora, pensare ad una formazione strategica, che consenta di comprendere e interpretare i fenomeni globalmente e particolarmente, di individuare i nodi che li legano, le cause che li generano, le conseguenze che producono, e in relazione a queste conoscenze operare delle scelte di opportunità individuale e collettiva.

La formazione strategica è quella che permette di confrontarsi lucidamente con i problemi di ogni genere e di risolverli o quantomeno di ridefinirli, di determinare situazioni nuove innestandole su quelle esistenti, di non farsi travolgere dall’onda dei cambiamenti improvvisi, di governare i processi di globalizzazione, di essere protagonisti del proprio tempo e del proprio destino.

La formazione strategica, funzionale, prospettica, che contemperi la conoscenza del generale e del particolare, forse è l’unica condizione che può impedire di fare la fine dei dinosauri.

 

Ad occhi aperti

C’è un fascino a volte anche indecifrabile nelle cose che passano rapidamente. Forse perché in qualche modo sono metafora dell’esistenza; forse perché lasciano il posto ad altre cose, a nuove esperienze, che magari ci attraggono di più, che magari ci coinvolgono di più; forse perché in fondo, anche inconsciamente, non ci fa piacere che quello che l’uomo costruisce duri più a lungo del pensiero che lo ha generato, della mano che lo ha composto.

Passa tutto davvero molto in fretta, spesso senza nemmeno lasciare traccia, oppure lasciandone una così, indeterminata, confusa.

Le cose della cultura non fanno differenza. Passano rapidamente, come tutte le altre. Però in questo tempo passano assai più rapidamente che in qualsiasi altro tempo.

Si pubblicano libri che per una settimana esplodono in un successo planetario. Poi, dopo qualche mese, a malapena ricordiamo chi sia l’autore. Accade la stessa cosa per un film, un disco. Sembra che ogni cosa si consumi, che bruci in un fuoco di novità costantemente alimentato.

C’è un fascino in questo, certo. Ma se pensiamo alla funzione di energia collettiva che le espressioni della cultura assumono in un contesto sociale, allora viene il sospetto che in questo tempo manchino sistemi che si costituiscano come riferimento.

Si insinua il sospetto che la condizione che caratterizza la produzione e il consumo culturale sia quella della provvisorietà. Coerentemente con tutto il resto.

Si dice: sono cambiato i sistemi, sono cambiati i linguaggi, sono cambiati le modalità e gli strumenti con cui vengono proposti i sistemi, vengono veicolati i linguaggi.

E’ vero. Ma la domanda ritorna: quale sistema, quale linguaggio, ha maggiore rilevanza; quale incide più decisamente nell’orientamento dei costumi, nella circolazione delle idee, nella conformazione dei comportamenti.

Se si volesse uscire dall’impasse, si potrebbe dire che la pluralità di forme, di manifestazioni, di teorie, con le quali si ci confronta, impedisce di trovarne una, o due, che rappresentino un modello.

Poi si potrebbe ripetere che anche questo è bello. Molte idee e molte parole sono più belle di poche idee e di poche parole. Molti esemplari, molti modelli, sono più belli di pochi esemplari, pochi modelli. La pluralità argina l’egemonia, favorisce il confronto. Bello è un termine vago. Ma qui sta per attraente, e anche per opportuno, per favorevole, conveniente.

La predominanza massiccia di una teoria e di un metodo nell’educazione, nella formazione, nell’istruzione, per esempio, solitamente in passato ha prodotto distorsioni. In questo tempo, la molteplicità di teorie e di metodi nelle scienze umane, solitamente produce profili di cultura meglio articolati, formae mentis flessibili, creative, armoniose, intelligenze capaci di aprirsi al nuovo, all’altro, di andare oltre l’ordinario.

Resta però il fatto che ogni espressione della cultura dura poco: non riesce a strutturarsi, a consolidarsi. Una proposta viene quasi immediatamente sostituita da un’altra, un’interpretazione da una interpretazione diversa e spesso contraria, una teoria da un’altra teoria.

Ma se, indubbiamente, c’è il rischio che la conoscenza rimanga sempre superficiale, altrettanto indubbiamente c’è il vantaggio di una possibilità di scegliere quale espressione abbia una più coerente relazione con la finalità, il bisogno, oppure soltanto con il desiderio. Si può scegliere quale strada percorrere, si può scegliere di percorrerne più di una, se farlo lentamente o in fretta. Si può scegliere in quale punto indugiare, che cosa approfondire.

Ecco, probabilmente la bellezza sta tutta nella possibilità di scegliere nella molteplicità.

Se si entra in una libreria con centinaia di volumi anche disordinatamente lasciati sui banconi, sugli scaffali, in un primo momento si avverte un senso di disorientamento. Ma subito dopo si avverte il piacere della scoperta inaspettata. Forse è proprio una libreria in cui tutti i libri sono confusi, senza le etichette che indicano il genere attaccate agli scaffali, la rappresentazione più efficace delle forme di sapere della contemporaneità. I generi si mescolano, si contaminano, si riproducono, e allora per scegliere c’è bisogno di intuire, e dopo aver intuito di verificare. E’ inevitabile che l’intuizione a volte sia ingannevole. Ma in ogni caso si è conosciuto qualcosa di cui non si avrebbe avuto conoscenza.

Andare ad occhi chiusi. Ecco, questo non possiamo permettercelo più. Non abbiamo più la possibilità di fare le scelte, come si dice, ad occhi chiusi, presumendo di conoscere perfettamente, per lunga consuetudine, quello che scegliamo. Anche perché andare ad occhi chiusi verso qualsiasi luogo della vita e quindi verso qualsiasi luogo della cultura, non di rado fa sbattere la testa contro qualche muro che qualcuno ha alzato solo un istante prima. Ripetere e ripetersi in esperienze senza rinnovarle e rinnovarsi, oltretutto annoia.

La cultura di questo tempo vuole occhi aperti. Con gli occhi aperti si vedono forme di sapere cangianti, variopinte, variegate, polivalenti, fascinose, continuamente in divenire, che proliferano, trasfigurano significanti, significati, simboli, che si protendono verso territori concettuali di frontiera o inesplorati, che si esprimono con grammatiche inedite.

A volte sono forme ambigue, sfuggenti; a volte fenomeni senza coesione, sfilacciati, anche effimeri.

Ma certamente un sapere fluido è preferibile ad un sapere codificato a tal punto da diventare un rigido vincolo del pensiero.

 

Le cose che ci aspettiamo non si compiono, per quelle inattese un dio trova la via.

Se si escludono alcune certezze che ci ha dato e continua a darci la scienza, tutto il resto – ogni sfera della nostra esistenza, qualsiasi contesto del sociale – è attraversato da una costante, forte vibrazione di incertezza.

Fino a un certo punto della Storia, abbiamo avuto la possibilità di riconoscere bandiere, di individuare confini, di riferirci a idee, ideologie, valori, dottrine, teorie, sistemi; fino a un certo punto siamo stati in grado non di elaborare una certezza di futuro, certamente, ma comunque di formulare ipotesi intorno ad esso, di delineare prospettive, di intuire quello che sarebbe accaduto domani o domani l’altro, di investire il tempo e le energie per un progetto in quanto le situazioni intorno a noi erano tali da lasciarci pensare di poterlo realizzare.

Fino a un certo punto ci si è potuti affidare ad una continuità dei processi, è stato possibile contare su una certa durata delle cose: se non per decenni, almeno per qualche anno, in modo da poterne strutturare la conoscenza, consolidare la competenza, con la consapevolezza che quella conoscenza, quella competenza, si sarebbe potuta approfondire, migliorare, applicare in altre circostanze.

Fino a un certo punto è stato possibile verificare la loro compatibilità con le proprie esigenze.

Da molto tempo, ormai, non si può più fare. L’incertezza è diventata una realtà con la quale confrontarsi costantemente: ogni giorno, ogni minuto.

Le cose cambiano, si trasformano, con una rapidità impressionante.

C’è una bellezza in tutto questo, indubbiamente; c’è il fascino del costante ripensare i fatti e le storie che ci riguardano e quindi un costante ripensarsi; c’è la seduzione che esercitano su di noi i nuovi eventi, le piccole e grandi avventure; c’è la curiosità per le strade mai percorse, l’attrazione per l’incognita, per l’esplorazione di nuovi territori.

Ma esiste anche un rischio in tutto questo.

Il rischio del disorientamento, per esempio, che attraversa qualsiasi dimensione dell’esistenza, quelle con cui si impatta continuamente: un disorientamento che coinvolge tutti, che condiziona il nostro pensiero e conseguentemente le nostre scelte.

Non c’è bisogno di sfogliare il catalogo delle paure postmoderne compilato da Zigmunt Bauman nel suo saggio La società dell’incertezza per rendersi conto delle condizioni di insicurezza con cui ci si ritrova a convivere ininterrottamente. Ma forse conviene ricordare la sua affermazione secondo la quale la versione postmoderna dell’incertezza non si presenta come un semplice fastidio temporaneo che può essere mitigato o risolto; “il mondo postmoderno si sta preparando a vivere una condizione di incertezza permanente e irresolubile”. Sono passati quasi vent’anni da quando Bauman scriveva queste cose. Ci siamo, dunque.

Ora, il concetto che, probabilmente più di ogni altro, sembra avere un significato vaporoso, quasi inconsistente, è quello che viene sintetizzato con l’espressione dell’incertezza del futuro. E’ l’incertezza che fa più male, anche se a fare più male dovrebbe essere l’altra che riguarda l’incertezza del presente.

Perché il futuro nessuno può conoscerlo, nessuno sa come potrà essere; sul futuro nessuno può farsi dei conti, nemmeno per percorsi a breve termine. C’è chi pensa che in fondo noi non andiamo da nessuna parte, ma che da qualche parte siamo soltanto trascinati. Al futuro si dovrebbe non pensare perché molto spesso non si fa altro che distogliere dal presente energie di pensiero e di sentimento. Si dovrebbe saper riuscire a cogliere le occasioni e le opportunità del presente, sperando che possano proiettarsi nel futuro. Così forse si dovrebbe di tanto in tanto ripassare quello che dice il coro alla fine delle Baccanti di Euripide: le cose che ci aspettiamo non si compiono, per quelle inattese un dio trova la via.

Eppure l’idea di futuro è l’unica che dà motivazione o giustificazione al presente: al pensare e all’agire nel tempo che si vive.

Però i pensieri e le azioni del tempo che viviamo sono assediati e insidiati dall’incertezza.

Allora possiamo rassegnarci e subire l’assedio oppure cercare di romperlo rifondando antiche certezze o fondandone altre attraverso nuove idee, una più marcata flessibilità, una adattabilità che consenta di governare l’instabilità, le turbolenze, una forma di creatività ancora sconosciuta, una capacità di riprogettazione, anche una prudente intraprendenza nell’individuazione delle strade da percorrere. Senza alcuna pretesa di certezze ma confidando un poco in se stessi, molto negli altri, e in fondo anche nella buona sorte.

 

Insegnare cosa e come sarà

Si insegna quello che appartiene al passato, solitamente, prevalentemente. Si insegnano le cose che in qualche modo tengono al riparo dalla fluttuazione dei concetti, dal rischio dell’incertezza, dalla condizione della provvisorietà. Si insegna quello che si sa: quello che la storia o l’epistemologia hanno codificato, hanno inscritto in una rete di relazioni concettuali e semantiche, quello che l’esperienza e la tradizione della conoscenza hanno sottoposto a verifica, a validazione. Si insegnano le cose alle quali si può riconoscere una natura di scientificità.

Ma forse questa è un’epoca che richiede – talvolta impone – di tentare l’ulteriore, attraverso un processo costante di ricerca che esclude ogni situazione di definitività, di acquisizione compiuta e completa.

Forse questo è il tempo che richiama una diversa impostazione ermeneutica, un nuovo modo di rapportarsi e di confrontarsi con le storie, con gli accadimenti, con l’incognita e con l’incertezza che pervade l’esistenza di ciascuno, con le trasformazione rapidissime e le perturbazioni improvvise che coinvolgono l’esperienza di ogni giorno, con le difficoltà, i contrasti, le problematicità, le contraddizioni che attraversano ogni sfera del sociale.

E’ il tempo dell’interrogativo costante, del transeunte sistematico, dei passaggi epocali e quindi dei mutamenti di mentalità, delle forme concettuali che cercano riformulazioni, dei nuclei semantici che si rigenerano e chiedono una inedita organizzazione testuale, un’altra grammatica con cui esprimersi e rappresentarsi.

Si insegna il passato. Di tanto in tanto ci si affaccia sul presente per osservarlo, nell’attesa che diventi passato per poterlo insegnare.

Il futuro non si insegna. Il futuro è ciò che non si sa.

Allora, in questo tempo e in questa temperie culturale, il futuro è quello che si deve insegnare.

Allora, oltre a rispondere alla domanda, cosa e come è stato, cosa e com’è, occorre protendersi verso l’ulteriore e cercare di rispondere anche alla domanda: cosa e come sarà.

Futuro è parola e concetto di forte complessità semantica.

La pluralità dei sensi talvolta slitta verso l’ambiguità.

Futuro è immaginazione come configurazione del possibile, che però deve mettere in conto e deve fare i conti con l’imprevedibile e con l’imponderabile; deve fare anche i conti con l’enigma e col mistero che comunque trama l’esistenza tanto dei singoli quanto di una comunità.

Considerando tutta questa complessità ma anche che l’insegnamento è, prima di ogni altra cosa, un confronto con la complessità, diventa inevitabile tracciare percorsi di formazione al futuro.

Può sembrare quasi ovvio ma forse non è superfluo confermare che non si insegna per nient’altro che per il futuro.

In un saggio che si intitola Futuro, Marc Augé individua alcune condizioni che si rivelano essenziali per una educazione al futuro.

Sostiene Edgar Morin ne La via. Per l’avvenire dell’umanità, che la conoscenza è sconcertata tanto dalla rapidità delle evoluzioni e dei cambiamenti contemporanei quanto dalla complessità propria della globalizzazione, connotata da innumerevoli inter-retro-azioni fra processi estremamente diversi di tipo economico, sociale, demografico, politico, ideologico, religioso.

Il futuro è il tempo di una coniugazione, dice Augé: il tempo più concreto della coniugazione. “ Se è vero che il presente è inafferrabile, sempre travolto dal tempo che passa, e il passato sempre oltrepassato, irrimediabilmente compiuto o dimenticato”, il futuro è la vita che si vive individualmente.

La vita è fatta di conoscenza, di sapere che molto spesso si realizza attraverso l’esperienza diretta o mediata.

Non c’è istante, gesto, sguardo, pensiero, parola, non c’è sentimento, sensazione, emozione, percezione, passione, che non provengano da un’esperienza di conoscenza e non si trasformino in altra esperienza di conoscenza.

Ma qual è il tempo in cui questa conoscenza si carica di una valenza maggiore; in quale tempo dell’esistere potrà trovare un esito, potrà rappresentarsi come espressione.

Non è il passato. Il passato, con la sua rete di esperienza, con il prodotto della elaborazione concettuale, con la sistematizzazione della conoscenza, costituisce una condizione essenziale per il sapere. Ma non è al passato che il sapere si rivolge. Ogni disciplina si struttura sugli elementi del passato, ma nessuna si rivolge al passato.

Ogni disciplina, in quanto in continua tensione, in costante sviluppo, si proietta nel futuro, quindi ad esso si rivolge.

Ecco, dunque, che l’insegnamento di qualsiasi disciplina non può fare altro che formare un pensiero al futuro. L’insegnamento di qualsiasi disciplina non può fornire altra competenza che quella di saper rispondere alla domanda cosa sarà, come sarà domani, domani l’altro, e quindi di orientare verso una condizione futura che si riferisce ad ogni sfera dell’essere, quindi anche a quella del lavoro.

Orientare verso una condizione futura sostanzialmente non significa indicare una via ma insegnare a vedere le vie, a riconoscere quale o quali risultino più adeguate al proprio passo, a considerare che non sempre la via più dritta o più breve è quella migliore.

Significa insegnare anche a saper tornare indietro quando risulta più efficace rispetto all’andare avanti.

Significa insegnare a scegliere ed a gestire quelle condizioni di disorientamento che possono avvenire in certe svolte della vita, durante i suoi percorsi. Perché poi è vero che uno si distrae al bivio, come diceva Rocco Scotellaro.

Una formazione al futuro è quella che attraverso la conoscenza consente non solo di compiere una scelta tra le vie esistenti ma anche quella che consente di prefiguare situazioni e condizioni, di immaginare quali saranno le altre vie che si potranno aprire o come cambieranno quelle che già ci sono.

La conoscenza nel qui e nell’ora trova il suo senso soltanto se si fa proiezione nell’oltre rispetto al presente e nell’altrove.

Quindi non è nemmeno il presente il tempo in cui la conoscenza accresce il suo carico di valore.

Perché il presente è, per natura, transitorio; è una frontiera, o una soglia; ha il carattere e il senso di un passaggio. Il senso del presente è determinato dalla condizione di ricerca di un oltre, di qualcosa a venire.

Di conseguenza questa situazione impone una dimensione di conoscenza che sia in grado di decifrare e interpretare fatti, fenomeni e pensieri, e in certi casi, anche abbastanza frequenti, di intervenire su di essi, soggettivamente o come componente di una comunità, in qualche circostanza anche per modificarli.

La formazione al futuro è quella che fornisce gli strumenti per modificare l’esistente in funzione di una più significativa qualità dell’esistere individuale e sociale.

L’esistere individuale è un’altra delle condizioni che impongono una formazione al futuro.

“Rispetto al futuro – dice Augé- ci collochiamo come individui mortali, affettivi, con legami personali, come ricercatori o militanti, ma sono anche concepibili molte altre posizioni e ogni individuo può occuparne diverse simultaneamente. Ci collochiamo anche, e ciò non ha minore importanza, come esseri già implicati nel tempo, cioè in modo diverso a seconda che siamo giovani o vecchi:l’attesa, la speranza, l’impazienza, il desiderio o il timore non rimangono gli stessi nelle differenti età della vita”.

Preliminarmente occorre considerare che il futuro non ci appartiene. E’ un’ipotesi, una condizione immaginaria. Eppure si vive elaborando progetti, quindi collocandosi costantemente in quella condizione immaginaria, cercando di predisporre elementi che possano realizzare l’ipotesi.

Il pensare a cosa si farà l’istante successivo a quello in cui si sta pensando è già un progetto.

Non esiste chi non abbia un progetto. Non esiste un’età senza un progetto. La speranza stessa è un progetto.

Certo, gli anni che ciascuno conta e la condizione in cui si trova incidono in maniera determinante sulla consistenza del progetto.

Gli anni degli studi sono quelli in cui maturano i progetti più grandi, a volte smisurati, quelli che si spingono più in avanti, che sono complessi e complessivi, includono qualsiasi aspetto dell’esistenza, aboliscono i limiti, scardinano i vincoli.

E’ in questa fase, dunque, che si deve elaborare un sapere che sostenga il processo di realizzazione dei progetti, che fornisca gli strumenti per valutarne la fattibilità, per contemperare le finalità, calibrare gli obiettivi, scandire i passaggi in modo coerente e coeso, verificare la relazione, l’integrazione, l’interazione tra i particolari che costituiscono il generale, per organizzarsi e predisporsi all’agire.

La formazione, quindi, non può restare esclusa da questo processo di rappresentazione e conformazione del futuro, non può non implicarsi, non può non contemplare l’inedito, confrontarsi con il non-ancora; insegnare ciò che non si sa. Anzi: deve insegnare ad osare con cognizione delle condizioni su cui si può contare, degli effetti che possono prodursi. La formazione ha la funzione di preparare ad abitare il futuro.

Abitare il futuro comporta il conferimento di una ulteriore consistenza al proprio presente, in quanto spazio temporale aperto al divenire. Non solo. Significa anche collocarsi in modo positivo nella contrapposizione fra il tempo della fisicità e quello dell’interiorità; significa reagire in modo creativo all’inevitabile dominio che il tempo opera sugli esseri e sulle cose che ad essi appartengono.

Abitare il futuro comporta l’attribuzione di pregnanza semantica al proprio divenire nel tempo, rispetto tanto a se stesso quanto all’altro da sé. Perché come non si abita solitariamente il presente, allo stesso modo non si abita solitariamente il futuro.

Lo svilupparsi dell’idea di futuro e il percorso che si fa per la costruzione di esso, avvengono sempre considerando la presenza degli altri come elementi necessari o indispensabili.

Insegnare ad abitare il futuro vuol dire, forse prima di qualsiasi altra cosa, insegnare a pensarsi e ad agire in una comunità cooperante.

In questo senso assume particolare rilevanza l’incontro e il dialogo del sapere di ciascuno con il sapere degli altri.

Ogni incontro di esistenze rappresenta, in realtà, un incontro di saperi. Ma non necessariamente l’incontro di saperi sviluppa il dialogo.

Il dialogo è un evento che si verifica quando un sapere si rende disponibile ad assimilare altro sapere.

Per cui s’impone la domanda se sia possibile abitare un futuro – sociale, politico, economico, di convivenza, di lavoro – in assenza di dialogo e, soprattutto, in una civiltà connotata da diversità di ogni genere.

Anche la risposta s’impone ed è no. Ma non solo il dialogo risulta impossibile o quantomeno difficilmente praticabile; risulta impossibile anche la convivenza che non sia fondata sull’attivazione esistenziale del prefisso inter: integrazione, interazione, che presuppongono l’accoglienza, la prossimità, il riconoscimento, lo scambio, l’apertura continua di varchi che agevolino i passaggi di valori, di simboli, di espressioni della cultura, intesa come un sistema di relazioni tra visioni del mondo, forme di pensiero, linguaggi, consuetudini, diritti.

Insegnare ad abitare il futuro presuppone l’insegnamento del senso – e forse anche del sentimento- di appartenenza ad una comunità che non necessariamente è quella dell’origine culturale ma può essere quella nella quale si giunge percorrendo le strade dell’esistenza, che talvolta possono essere molteplici e anche lunghe, giacchè le piante hanno le radici per affondarle nella terra e gli uomini hanno le gambe per camminare, e mentre si cammina s’incontra l’altro e si diventa altro.

La formazione al futuro si fonda su una formazione all’alterità.

Significa insegnare a sentirsi appartenente all’altro e sentire che l’altro ti appartiene.

Fuori da questa consapevolezza di appartenenza non esiste alcuna possibilità di convivenza: del vivere con l’altro, dell’essere per l’altro, in una dimensione di costante e sostanziale reciprocità.

Certamente non sarà possibile un futuro prossimo che non consideri come essenziale la condizione dell’appartenenza.

Già senza questa condizione non risulta possibile il presente.

Senza questa condizione il presente s’intorbida di una conflittualità più o meno evidente e dichiarata che nel futuro si accentuerà, esasperandosi e trasformandosi da episodica a sistematica.

Si insegna l’alterità mostrando la pluralità dei punti di vista, sia da parte dello stesso soggetto che da parte di soggetti diversi, dimostrando che la prevalenza di un punto di vista rispetto ad un altro molto spesso costituisce un’imposizione, talvolta un’usurpazione dei diritti, una sopraffazione.

La Storia non di rado costituisce la dimostrazione che qualcosa è accaduto per imposizioni, usurpazioni, sopraffazioni.

Abitare il futuro, essere appartenente, convivere, comporta la comprensione di certe distorsioni della Storia e un gesto di riparazione che si concretezza nell’assunzione di comportamenti opposti.

In una disciplina che si occupa del passato, ci sono tutti gli insegnamenti per abitare il futuro.

E’ la storia che insegna l’indispensabilità della partecipazione al governo del proprio Paese, per esempio. Sono le alterne vicende, le relazioni tra causa ed effetto, le turbolenze, le derive, le biforcazioni, le fasi di stasi e quelle di ribollimento, le progressioni e le regressioni della storia che aprono una visione delle strade e consentono di scegliere quelle giuste anzichè quelle sbagliate.

La storia ci mostra creazioni sorprendenti, dice Edgar Morin, come è avvenuto ad Atene dove nacquero nel contempo la democrazia e la filosofia, ma ci mostra anche terribili distruzioni, non solo di società ma di intere civiltà.

Dice ancora Augé: “ Bisogna rivolgerci al futuro senza proiettarvi le nostre illusioni, dar vita a ipotesi per testarne la validità, imparare a spostare progressivamente e prudentemente le frontiere dell’ignoto: è questo che ci insegna la scienza, è questo che ogni programma educativo dovrebbe promuovere e che dovrebbe ispirare qualsiasi riflessione politica”.

Ecco, dunque, che il futuro si presenta come una ricerca, come un itinerario esperienziale, durante il quale si strutturano le condizioni che consentono il verificarsi degli eventi attesi.

Il futuro è una costante realizzazione che avviene attraverso la progressiva conquista dei territori ignoti. E’ la progettazione e la costruzione della propria esistenza al di là dei contesti che si vivono nel presente, un processo che si realizza con consapevolezza.

Insegnare la consapevolezza dei processi di costruzione del futuro è uno dei significati profondi della formazione. Probabilmente il più profondo, in quanto lo sviluppo di ciascuno, che nell’ambito di una comunità si risolve nello sviluppo di tutti, costituisce il fondamento della formazione.

In Cinque chiavi per il futuro, Howard Gardner propone quelle che sono le intelligenze, o mentalità, che in futuro eviteranno ad una persona di ritrovarsi in balia di forze “ che non potrà né prevedere né tantomeno controllare”.

L’intelligenza disciplinare, che è la modalità che caratterizza una particolare disciplina, un certo mestiere o una certa professione.

L’intelligenza sintetica, che accoglie le informazioni da diverse fonti, “ le comprende e le valuta obiettivamente, le combina in modi che abbiano un senso sia per l’autore della sintesi sia per gli altri”.

La capacità di sintesi si rivela indispensabile in contesti sociali e culturali in cui le informazioni si moltiplicano “ a ritmi vertiginosi”.

L’intelligenza creativa che, basandosi sulla disciplina e sulla sintesi, percorre le vie dell’innovazione proponendo idee nuove, ponendo nuovi interrogativi, elaborando nuove modalità di pensiero e risposte inedite, diversi modi di soluzione dei problemi.

“ Essendo agganciata ad un terreno non ancora governato da leggi, la mente creativa può aspirare a superare di un passo anche i computer e i robot più sofisticati”.

L’intelligenza rispettosa, che “registra e accoglie con favore le diversità che esistono tra i singoli individui e tra le comunità umane”, sforzandosi di comprendere le molteplici diversità, anche in considerazione del fatto che in un universo nel quale tutti sono interconnessi, non risultano più concepibili l’intolleranza e la mancanza di rispetto.

L’intelligenza etica “ riflette sulla natura dell’operare del singolo e sui bisogni e le aspirazioni della società in cui vive”.

Si tratta di un’intelligenza che concepisce, per esempio, il lavoro come fine che trascende l’interesse personale e come condizione per perseguire il benessere di tutti e il miglioramento dei destini di una comunità.

Queste intelligenze, sostiene Gardner, “ governano tanto la sfera dei processi cognitivi quanto quella dell’iniziativa umana: in questo senso esse sono globali, comprensive”.

Ma in nessun senso, avverte, un tipo di intelligenza esclude l’altro. Anzi, il sistema educativo ha il compito di curarsi che tutte e cinque le intelligenze vengano coltivate e sviluppate.

Insegnare il futuro vuol dire, quindi, formare intelligenze, mentalità, cioè competenze e abilità di decifrazione, interpretazione, espressione del mondo reale e immaginario.

Significa insegnare a pre-figurare: a delineare figure di situazioni che si costituiscano come orizzonti di senso verso cui tendere ed ai quali giungere per poi avere la possibilità di poterne delineare altri.

In fondo, e sostanzialmente, il progresso di tutti e di ciascuno consiste in questo: nel riuscire a rendere sempre più nitido, nel determinare le possibilità di raggiungere l’orizzonte che ciascuno si tratteggia nel pensiero.

Il tempo che verrà, ancora più di questo tempo, pretenderà una formazione che assicuri il possesso di quelle chiavi gardneriane di apertura delle porte del futuro.

E’ per questo che non si può fare a meno di insegnare a prefigurare gli scenari che si configureranno da qui a dieci, venti, trent’anni. Perché fra dieci, venti, trent’anni, a seconda dell’età che ha oggi, chiunque frequenti una scuola si troverà in situazioni totalmente diverse da quelle di oggi ma che da quelle di oggi saranno generate, con richieste da parte dei contesti di lavoro alle quali potrà rispondere se avrà maturato una formazione flessibile, aperta, capace di dare accoglienza al nuovo, di consentire dinamicità al pensiero. Probabilmente le competenze settoriali non saranno più condizioni di certezza, perché se le costanti trasformazioni che interessano i diversi settori della progettazione e della produzione si accentueranno, di conseguenza cresceranno le esigenze di riconversione professionale o di adeguamento a nuove modalità e a nuovi mezzi.

Non può esistere una formazione che non profili un orizzonte di senso e non esiste un orizzonte di senso che non riguardi il futuro. Per cui il nesso tra formazione e futuro risulta intrinseco, strutturale, ineludibile.

Considerando poi che l’orizzonte di senso muta innanzitutto in relazione ai bisogni e alle prospettive di ciascuno, la formazione deve accentuare la valorizzazione degli stili di apprendimento in modo da garantire percorsi coerenti e coesi finalizzati allo sviluppo di persone e personalità, di conoscenze, competenze, esistenze che siano in grado di attribuire qualità alla sfera della persona e della personalità, delle conoscenze e delle competenze, dell’essere per se e per l’altro da sé, per una piccola o grande comunità, per una famiglia e per una nazione. Ecco, dunque, che si rende indispensabile un processo di insegnamento personalizzato, che si ponga come definitivo superamento di una proposta indifferenziata.

Dal modo in cui è l’insegnamento oggi, dal modo in cui sarà domani, dipenderanno i destini collettivi e individuali. Probabilmente è questa l’idea che deve girarci nella testa ogni volta che entriamo in un’aula di scuola, ma anche ogni volta che ne usciamo.

Tanto tempo fa, da qualche parte, qualcuno che camminava a quattro zampe, forse immaginò di poterlo fare con due soltanto. Così ci provò. Ci riuscì. Gli altri lo guardarono. Ci provarono anche loro. Ci riuscirono anche loro. Se oggi gli uomini camminano su due gambe, probabilmente lo devono a quell’immaginare. Allora bisogna immaginare il futuro. Perché quello che non si può conoscere si può immaginare. L’immaginazione è più importante della conoscenza, diceva Einstein. La conoscenza è limitata, l’immaginazione abbraccia il mondo, stimolando il progresso, facendo nascere l’evoluzione.

D’altra parte l’immaginazione del futuro è una condizione connaturata, che accade in maniera spontanea, inevitabile. Probabilmente molta parte del nostro tempo quotidiano, noi lo dedichiamo all’immaginazione del futuro: quello che sarà fra un minuto, fra un’ora, il giorno dopo, fra un mese, fra un anno, figurandoci in che modo svilupperà quello che stiamo facendo, la storia che stiamo vivendo, come saremo domani, domani l’altro, come saranno quelli che ci appartengono, ai quali apparteniamo, domani, domani l’altro. Spesso è proprio l’ immaginazione a determinare quello che sarà, per quanto è possibile decidere di noi, perché, poi, se non tutto comunque molto rimane imprevedibile.

Immaginiamo, dunque, costantemente, il modo in cui saremo, come sarà il mondo in cui viviamo, come saremo noi in quel mondo, i nostri destini personali e collettivi. Diceva Blaise Pascal in uno dei suoi Pensieri(82) che l’immaginazione è la parte predominante dell’uomo, quella maestra di errori e di falsità, e tanto più ingannevole in quanto non è sempre tale; infatti sarebbe regola infallibile di verità se non fosse regola infallibile di menzogna. Ma, essendo quasi sempre falsa, non dà nessun indizio della sua qualità, caratterizzando allo stesso modo sia il vero che il falso.

L’immaginazione dispone di tutto, dice Pascal: crea la bellezza, la giustizia, la felicità.

Quasi sempre l’immaginare è carico d’interrogativi, sia che si rivolga al nostro essere individuale, sia che si rivolga agli scenari culturali.

Relativamente a quest’ultima sfera l’immaginare diventa sempre più complicato. Si potrebbero fare innumerevoli esempi; ciascuno si pone una moltitudine di domande. Però, forse, ce n’è una che può sintetizzare tutte le altre: una domanda di fondo e fondamentale, che contiene la sostanza, il nucleo, l’essenza dei processi culturali. Questa domanda: si matureranno esperienze e conoscenze esclusivamente attraverso nuovi mezzi e nuove forme del sapere, attraverso linguaggi che sostituiranno quelli che adesso usiamo, oppure mezzi, forme, linguaggi vecchi e nuovi si integreranno sapientemente. Continueremo a studiare, a leggere fiabe anche sui libri di carta, oppure getteremo i libri nel più grande rogo della Storia, un immenso rogo senza fiamme, e leggeremo soltanto su uno schermo. Andremo ancora a scuola con uno zaino sulle spalle o soltanto con un tablet sotto il braccio. Avremo il passato dietro di noi oppure ce l’avremo ancora davanti, com’è sempre stato.

Probabilmente in questo tempo è difficile immaginare. Codici, canali, strumenti, sono cambiati e cambiano in continuazione e con una rapidità che la storia della cultura non conosce. Arrivano generazioni che portano non solo pensieri nuovi, nuove visioni del mondo, ma anche inedite espressioni del pensiero, originali rappresentazioni delle visioni. Non sono tanto i linguaggi che costituiscono la differenza; sono i nuovi pensieri, le nuove visioni.

Chi oggi ha dieci anni, quale conformazione culturale avrà quando ne saranno passati altri dieci.

E’ abbastanza generico fare riferimento al loro essere digitale. Quella è l’origine; quale sarà lo sviluppo? Poi ci si chiede se le forme culturali di domani saranno migliori di quelle di oggi. Certo, è una domanda banale, ma se molti se lo chiedono forse vuol dire che è meno banale di quello che sembra. Qualcuno può anche affermare che nella cultura non esiste il bene e il male. E’ un’affermazione falsa. Il bene e il male esistono nella cultura per la semplice considerazione che esistono nella natura dell’uomo, e siccome è l’uomo che determina la cultura che a sua volta determina la Storia, nella quale si distingue anche il bene dal male, allora anche le forme di un tempo culturale possono essere migliori o peggiori di quelle di un altro.

Ma a noi piace immaginare che le forme e le espressioni culturali del tempo a venire saranno migliori di quelle che abbiamo avuto, di quelle che abbiamo. Che le generazioni che stanno arrivando abbiano dentro il lievito di una pittura, una poesia, una musica, una scienza, un’architettura più belle di quelle che conosciamo. A noi piace immaginare, e sperare, che sappiano stupirci con un’altra bellezza che magari contemperi presente e passato, il suono che hanno le parole dell’Infinito di Leopardi con quello di altre parole di una lingua che loro inventeranno.

 

L’attrazione della profondità

Quello che vediamo è soltanto superficie; quello che sentiamo è sempre superficie; non tocchiamo altro che la superficie delle cose: l’esterno, la crosta, la corteccia, il guscio, l’involucro.

La relazione tra l’essere e le cose, spesso anche tra l’essere e l’essere, è un contatto tra superfici. Finanche le parole, che di un uomo sono l’espressione più profonda, più intima, non di rado riescono soltanto a darci una parte delle cose, la loro apparenza, e nei casi i cui tentano di sintetizzarne la sostanza, devono ricorrere al simbolo, alla metafora.

Dice Marcel Proust in Dalla parte di Swann: “Le parole ci presentano, delle cose, una piccola immagine nitida e consueta, simile alle figure che si appendono alle pareti delle scuole per dare ai bambini l’esempio di quel che sia un banco, un uccello, un formicaio, cose concepite come uguali a tutte quelle della medesima specie”.

Ecco, dunque, che la rappresentazione, la riproduzione, la mimesi, l’indistinto, l’indifferenziato, non mostrano la profondità. La profondità sta nella differenza, nell’analisi esatta, nella comparazione che rivela l’unicità e l’irripetibilità del segno o del simbolo o del significato.

Soltanto l’analisi ci consente di andare al di là della superficie, di tentare la profondità.

La profondità è una dimensione che non si vede, non si sente, che qualche volta si può solo percepire, immaginare.

Immaginiamo la profondità del mare, ma non la conosciamo. L’analisi ci mette nelle condizioni di creare strumenti e di compiere azioni che ci consentono di giungere alla profondità, di conoscerla.

La funzione della conoscenza consiste soprattutto nel perforare la superficie dei significati per scoprire quelli profondi.

La differenza tra conoscenza superficiale e conoscenza profonda degli esseri , dei fenomeni, delle cose, in sostanza è probabilmente questa: scoprire l’oltre della superficie.

Allora il fine della formazione è andare al di là – al di sotto – della superficie per realizzare una conoscenza profonda.

Restare in superficie comporta il negarsi la sostanza, l’essenza, il nucleo da cui le cose hanno origine, l’elemento su cui le cose si fondano. La foglia esiste soltanto perché esiste la radice dell’albero. Le parole di una poesia perché un concetto le ha elaborate. I fatti della storia hanno cause e moventi profondi e talvolta misteriosi.

La conoscenza avviene nella dimensione della profondità. Nella profondità avviene la comprensione, si instaura il rapporto tra l’essere e il sapere.

Non ci può essere scienza né conoscenza senza una tensione verso la profondità.

La ricerca – ogni ricerca- non è altro che una tensione alla profondità, e la ricerca costituisce un elemento essenziale della formazione.

Allora ogni processo di formazione deve porsi il problema di arrivare alla profondità e di come arrivarci, pur nella consapevolezza che esistono dimensioni di profondità alle quali probabilmente non si potrà giungere mai.

Dice Thomas Mann nelle prime righe del prologo de Le storie di Giacobbe: “ Profondo è il pozzo del passato. Non dovremmo dirlo insondabile?”. Più che mai insondabile – aggiunge – quando si parla del passato dell’uomo: “essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura gioconda ma oltre natura misera e dolorosa”.

Il suo mistero costituisce l’alfa e l’omega dei nostri discorsi e delle nostre domande; carica di tensione ogni nostra parola; conferisce urgenza ad ogni nostro problema. E quanto più si scava nel “sotterraneo mondo” del passato, quanto più si penetra e si cerca in profondità, “ più i primordi dell’umano, della sua storia, della sua civiltà, si rivelano del tutto insondabili e, pur facendo discendere a profondità favolose lo scandaglio, via via e sempre più retrocedono verso abissi senza fondo”.

Però la ricerca consente comunque di arrivare ad un punto che è al di sotto della superficie, e quindi ad una conoscenza ulteriore.

Per cercare la profondità del sapere si ha bisogno di metodi, strumenti. Soprattutto si ha bisogno di motivazioni. Senza una motivazione non c’è ricerca, non ci può essere discesa verso la profondità.

Addirittura, oltre alla motivazione, diventa necessaria, forse indispensabile, l’attrazione: devono attrarre i significati nascosti nelle profondità, deve costituire un’attrazione il loro disvelamento. Perfino una semplice domanda deve avere in sé l’attrazione per la risposta.

Perché la conoscenza è generata sempre da una domanda; poi, solitamente, la risposta alla domanda a sua volta pone una domanda ancora, fino ad arrivare alle domande che non hanno una risposta: quelle che riguardano le cose prime o le cose ultime, per esempio.

Il principio della nostra relazione con il sapere – di una relazione dinamica, sostanziale, non imposta, non puramente convenzionale- è determinato dall’attrazione.

Banalmente: quando si dice questa disciplina mi piace, quest’altra no, e nell’ambito della stessa disciplina, questi argomenti mi piacciono, questi altri no, implicitamente si sta dichiarando che nei confronti di quella disciplina o di quegli argomenti si prova o non si prova un’attrazione.

Poi, accade anche che cambi il maestro e cambi il rapporto che si ha con la disciplina o con gli argomenti, perché qualcuno accende o spegne l’attrazione.

In fondo quasi mai si procede verso la conoscenza in modo autonomo; c’è sempre qualcuno che, quantomeno, indica la direzione.

Il movimento che si compie in rapporto al sapere può essere generalmente orizzontale e verticale.

Nel movimento orizzontale si stabilisce un rapporto con il visibile, con il contesto, il sistema complessivo; in questo caso è il senso dell’insieme che predomina.

Nel movimento verticale predomina il senso del particolare, dell’elemento che talvolta risulta invisibile ma dal quale il visibile viene generato, per cui il limitarsi al movimento verticale preclude la conoscenza della genesi degli oggetti del sapere.

Conseguentemente, ogni processo di insegnamento deve necessariamente articolare e contemperare i due movimenti. Da questa articolazione deriva la compiutezza dell’apprendimento, o almeno la sua significatività.

Il movimento orizzontale comincia con lo sguardo, o con l’ascolto, o con il tatto, con un gesto o un comportamento che accosta il soggetto che apprende alla cosa da apprendere. E’ attraverso questi elementi che si stabilisce il primo contatto con la forma, con la parte che appare, che si mostra. Il contatto con la forma dell’oggetto del sapere è fondamentale: da esso dipende, in modo considerevole, la componente dell’attrazione, che però non ha nessuna relazione con la semplicità o la complessità della forma. L’attrazione è fortemente influenzata, invece, dalla coerenza della forma, dalla sua dinamicità. Siccome il movimento orizzontale avviene prevalentemente attraverso i sensi, è ad essi che risponde, quasi esclusivamente; non all’utilità, o alla funzionalità, per esempio. Invece risponde ad una percezione di necessità.

Allora l’insegnamento deve innanzitutto suscitare un sentimento della forma; deve far intuire che quella cosa che appare in qualche modo ha un legame con la propria esistenza, in qualche modo appartiene al proprio universo. Il sentimento dev’essere indotto all’intensificazione fino al punto da far percepire la necessità di approfondire la conoscenza di quella forma.

E’ da questa percezione di necessità che si genera il movimento verticale, il processo verso la profondità.

L’esperienza dello sguardo, dell’ascolto, del tatto, della percezione, della sensazione, si integra gradualmente con l’ esperienza della riflessione; si prova la necessità di conoscere che cosa contiene la forma.

La scoperta dei significati accade come conseguenza del movimento verticale. Se la forma è la superficie, il significato è la profondità.

Probabilmente soltanto nel linguaggio dell’arte la forma coincide con il significato, i confini, o le differenze, fra superficie e profondità si riducono o si azzerano, movimento orizzontale e verticale sono un solo movimento.

Insegnare la ricerca della profondità, significa portare alla scoperta dei nuclei semantici delle cose, delle storie, dei fenomeni, degli eventi, della realtà, dell’immaginario.

Significa, per esempio, indagare la molteplicità di sensi che hanno le parole, una molteplicità che, non di rado, rimane senza una rivelazione perché l’interpretazione si ferma sulla soglia della forma, non l’oltrepassa, non si muove in verticale verso la profondità che accoglie la sostanza.

Il movimento in verticale è un’esperienza di approfondimento.

Apprendere e insegnare sono un’esperienza della stessa natura: un approfondimento graduale e costante, sia che si proceda dal particolare al generale, sia che si proceda dal generale al particolare, che dall’elemento si ricostruisca l’insieme o che dall’insieme si tragga l’elemento.

Il confronto con qualsiasi tipo di testo, per esempio, comporta il passaggio dalla fase della decifrazione a quella della comprensione, a quella dell’interpretazione.

Il punto più profondo del confronto sta nella interpretazione.

Il passaggio da una fase all’altra, il movimento verso la profondità, ha un grado di complessità che è direttamente proporzionale alla complessità del testo.

L’atto dell’interpretazione è la condizione che consente di individuare il senso ( i sensi) del testo.

Ma che cos’è il senso?

La nozione evocata dal termine senso – sostiene André Martinet- è una delle più controverse della storia dell’umanità e risulta estremamente difficile, per chiunque s’interroghi sulla natura del senso, restare nel’ambito della linguistica senza prendere in considerazione gli innumerevoli problemi di ordine filosofico, logico, psicologico, sociologico, anche esperienziale.

Semplificando si potrebbe dire che il senso è una delle possibili realizzazioni del significato; è determinato dalle reazioni di varia natura – percettiva, emozionale, culturale- che i significati del testo provocano in colui che ha stabilito un rapporto con esso.

Un esempio. Una terzina del colloquio tra Dante e Cacciaguida: “Tu lascerai ogni cosa diletta/ più caramente; e questo è quello strale/ che l’arco dello esilio pria saetta”.

Queste parole significano semplicemente che il primo dolore causato dall’esilio consiste nel doversi staccare dalle cose più care. Questa è la superficie. Questo è il significato.

Il senso, invece, va oltre l’oggettività e la neutralità della considerazione e si determina in relazione alla carica di immaginario, all’evocazione di esperienze dirette o ricevute culturalmente, che quelle parole provocano nel lettore.

Il rapporto intimo, profondo tra un lettore e un testo culturale non si stabilisce attraverso il significato, dunque, ma attraverso il senso.

C’è un’esperienza di conoscenza soltanto nella dimensione della profondità. Di questo l’insegnamento deve tener conto. Con questo deve fare i conti. Soprattutto in quella che chiamiamo società dell’informazione.

Perché l’informazione è la superficie. Per sua natura si limita alla descrizione, al fatto, all’evidente. Il suo compito è questo. L’analisi, l’indagine sulle cause e le conseguenze del fatto, il disvelamento di quello che non è evidente, è un compito della formazione. Sono le discipline che consentono l’analisi, l’indagine, la comprensione.

La profondità della conoscenza richiede – pretende- un tempo non contratto, non predefinito, un tempo di insegnamento che sia piegato a quello di apprendimento di ciascuno, che agevoli il discendere, lo assecondi, che consenta la scoperta, la riflessione, l’associazione che con quello che si è scoperto in precedenza, la prefigurazione di quello che si potrà scoprire ancora, la comparazione tra quello che si è appreso.

Qui si riprende il termine comparazione nelle sfumature di significato che ad esso attribuisce Leopardi nello Zibaldone : la competenza nell’individuare rapporti fra cose disparatissime, trovare dei paragoni”, di “ravvicinare e rassomigliare gli oggetti delle specie le più distinte, come l’ideale col più puro materiale, d’incorporare vivissimamente il pensiero il più astratto, di ridur tutto ad immagine, e crearne delle più nuove”, la capacità di “scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe”, “di legare insieme i particolari, e di generalizzare”.

Il tempo, dunque, è una dimensione essenziale nella ricerca della profondità.

Chi insegna ha bisogno di un tempo disteso per la predisposizione delle condizioni che consentono l’esperienza.

Chi apprende ha bisogno di sviluppare l’esperienza secondo il proprio stile, il proprio modo, le conoscenze e le competenze che fanno parte della sua formazione.

Ecco, allora, che una delle condizioni fondamentali da predisporre è costituita da una personalizzazione dell’esperienza.

Si può andare in profondità tutti insieme, ma non tutti allo stesso modo, non tutti nello stesso tempo. Né si può giungere tutti alla stessa profondità. Ma ad una profondità comunque giunge ciascuno; nessuno si limita alla superficie.

Se tutti possono apprendere allo stesso modo una nozione, non tutti possono appropriarsi allo stesso modo del concetto. Ma, anche in questo caso, l’importante è non limitarsi alla nozione, ma stabilire un rapporto con il concetto. E’ inevitabile che si tratti di un rapporto personalizzato, perché il processo di interiorizzazione del concetto implica un coinvolgimento dell’esperienza soggettiva, della sfera emozionale, riattiva la stratificazione di tutte le altre conoscenze, di tutte le altre esperienze.

Insegnare la profondità è forse un’urgenza sociale, oltre che culturale.

In un articolo apparso su “Repubblica” il 26 agosto 2010 con il titolo “2026 – La vittoria dei barbari” , Alessandro Baricco scrive: “Ci siamo orientati a formare figure di senso mettendo in costellazione punti del reale attraverso cui passiamo con inedita agilità e leggerezza. L’immagine del mondo che i media restituiscono, l’idea di sapere che il mondo digitale ci mette a disposizione non hanno ombra di profondità: sono collezioni di evidenze sottili, perfino fragili, che organizziamo in figure di una certa potenza. Le usiamo per capire il mondo. Perdiamo capacità di concentrazione, non riusciamo a fare un gesto alla volta, scegliamo sempre la velocità a discapito dell’approfondimento: l’incrocio di questi difetti genera una tecnica di percezione del reale che cerca sistematicamente la simultaneità e la sovrapposizione degli stimoli: è ciò che noi chiamiamo fare esperienza. Nei libri, nella musica, in ciò che chiamiamo bello guardandolo o ascoltandolo, riconosciamo sempre più spesso l’abilità a pronunciare l’emozione del mondo semplicemente illuminandola, e non riportandola alla luce: è l’estetica che ci piace coltivare, quella per cui qualsiasi confine tra arte alta e arte bassa va scomparendo, non essendoci più un basso e un alto, ma solo luce e oscurità, sguardi e cecità. Viaggiamo velocemente e fermandoci poco, ascoltiamo frammenti e mai tutto, scriviamo nei telefoni, non ci sposiamo per sempre, guardiamo il cinema senza più entrare nei cinema, ascoltiamo reading in rete invece che leggere i libri, facciamo lente code per mangiare al fast food, e tutto questo andare senza radici e senza peso genera tuttavia una vita che ci deve apparire estremamente sensata e bella”.

Quanto meno queste scene dovrebbero costringersi a porci la domanda sulla fisionomia umana e culturale che la scuola intende contribuire a delineare per le generazioni del presente, per quelle del futuro.

Perché probabilmente – o certamente – esiste un’associazione tra il sapere di superficie e uomo superficiale, tra sapere della profondità e uomo profondo.

Vittorino Andreoli rintraccia questa associazione ne L’uomo di superficie.

Dice Andreoli “Superficie si contrappone a profondità, anzi la presuppone come fondamento stesso al senso che vogliamo attribuirvi. Quello di superficie è un uomo che manca di profondità. E “uomo profondo” è una delle specificazioni di qualità che in passato era applicato a coloro che si guardavano dentro piuttosto che fuori, che rifuggivano dall’apparenza per andare all’essenziale. L’uomo interiore cerca di vedere cosa ha dentro di sè, cerca il senso, il fine del suo stesso essere. Chiude gli occhi, tiene ferme le mani e si guarda dentro capovolgendo lo sguardo.[…] Gli uomini del profondo, invece, guardano all’anima. […] Una conoscenza quella interiore che si percepisce nel silenzio, inteso non come vuoto ma come indicibile e che soltanto nella contemplazione incontra il suo significato profondo”.

Insegnare la profondità presuppone la rinuncia alle convenzioni e alla staticità metodologica.

L’insegnamento della profondità richiede una predisposizione al confronto continuo con l’incognita. Ma il confronto continuo con l’incognita è una condizione che fa parte dell’esistere, e insegnare, apprendere, sono espressioni dell’esistere.

Richiede una disponibilità all’avventura. Anche all’incertezza che implica ogni avventura. Dice Morin ne I sette saperi necessari all’educazione del futuro: “ La conoscenza è dunque proprio un’avventura incerta, che comporta in se stessa e permanentemente il rischio di illusione e di errore”; dice che è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze.

Quando un insegnamento non ha la tensione verso l’avventura, non potrà fare altro che galleggiare in superficie precludendo a chi apprende la conoscenza del mare.

 

Viandanti

“Dimmi il nome con cui ti chiamano tuo padre e tua madre e quelli della tua città e coloro che vivono intorno”, chiede Alcinoo a Odisseo. E lui gli risponde, semplicemente: “ Sono Odisseo, figlio di Laerte”.

Nell’universo dell’ Odissea basta il riferimento all’origine, alla provenienza, a connotare l’identità. Perché è un universo che rappresenta se stesso e consente a ciascuno di rappresentarsi in esso.

E’ un’identità che si definisce dalla nascita, che resta immutabile fino alla morte, che anche dopo la morte è riconosciuta con gli stessi elementi dell’appartenenza.

Anche nei contesti della cultura contadina accadeva la stessa cosa.

Nella condizione della contemporaneità, invece, “ l’identità è sempre, e incurabilmente, separata dalla nascita”, dice Zygmunt Bauman . Non esiste un’identità fissata. Ogni identità dev’essere necessariamente costruita senza neppure la certezza che la costruzione possa giungere a compimento. Non si verifica un ritorno alla nascita.

Bauman riprende un’affermazione di Richard Sennett secondo cui “ un uomo o una donna possono divenire nel corso della loro esistenza come stranieri a se stessi, assumendo atteggiamenti o percependo sentimenti che non si adattano al quadro di riferimento della propria identità fornito dai caratteri sociali apparentemente fissi della razza, classe, età, genere o etnia”.

Indispensabilmente l’insegnamento deve confrontarsi con questo concetto polimorfo di identità, con la trama dei suoi sensi molteplici che si realizzano in relazione ai contesti storici, geografici, culturali, alle dimensioni esistenziali, alle esperienze soggettive e collettive, al sistema di simboli, di valori , all’immaginario.

Ma quale che possa essere l’ambito al quale si fa riferimento, rimane costante il significato di una condizione in continua evoluzione, sulla quale intervengono elementi di diversa natura e con diversa intensità.

Una breve, autorevole, annotazione preliminare si rivela indispensabile. Sostiene Claude Lévi-Strauss che “il tema dell’identità si situa al punto di confluenza non di due semplicemente ma di più strade insieme. Interessa praticamente tutte le discipline”.

Secondo Remo Bodei, la natura dell’identità non è quella di un unico filo, “quanto piuttosto di una corda lentamente e pazientemente intrecciata”. E’ composta dall’avvolgimento di più fili “ ciascuno dei quali appartiene a una propria storia, più o meno strettamente connessa ad altre nello spazio e nel tempo. Questa corda si rafforza tanto più, quanto più vengono resi visibili i fili da cui è composta, che, a loro volta possono diventare il bandolo per nuovi nodi. E tanto più di indebolisce, almeno nel lungo periodo, quando più di riducono o si recidono le connessioni verso l’esterno”.

Ecco, dunque, come la configurazione dell’identità si realizza attraverso le maglie di una rete relazionale, affettiva, emotiva, sentimentale, cognitiva, che gradualmente e con diversa intensità intreccia elementi soggettivi, interiori – anche intimi- con elementi esterni di diversa provenienza e natura che incidono su quelli soggettivi.

Il concetto di identità soggettiva, di conseguenza, si combina con quello di identità culturale, e l’identità culturale costituisce uno degli aspetti fondanti del processo formativo. Il primo, forse.

Diventa prioritaria, quindi, tanto la considerazione che l’identità culturale è innanzitutto plurale, flessibile, in costante trasformazione, che coinvolge le sfere del linguaggio, della politica, della religione, quanto quella che nell’ambito di contesti geopolitici complessi talvolta le identità possono esprimersi in maniera contrastante.

Si potrebbe esemplificare con un riferimento ai tratti di quella che viene definita come identità europea.

Fernand Braudel sostiene che l’analisi storica dimostra come l’Europa sia impegnata in un destino unitario: sul piano della religione, del pensiero, dell’evoluzione della scienza. Ma questo, sostiene Braudel, non significa che tutte le nazioni d’Europa abbiano la stessa cultura. Al contrario. Neppure i territori della stessa nazione hanno la stessa cultura, secondo il significato che l’antropologia ha attribuito al termine e che si può sintetizzare nella definizione formulata da Edward Tylor: “quell’insieme complesso che include il sapere, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume, e ogni altra competenza e abitudine acquisita dall’uomo in quanto membro della società”.

Ma i tratti dell’identità europea si rispecchiano con quelli dell’ identità mediterranea e questo rispecchiamento rappresenta in modo probabilmente più evidente la complessità dei concetti e delle forme delle identità che il postmoderno va profilando in maniera sempre più marcata.

Forse diventa molto difficile individuare i nuclei culturali dai quali si genera la pluralità delle forme di identità europea se non si mette in relazione l’Europa con il Mediterraneo.

La storia dell’Europa si è fatta su questo mare. Questo mare ha inciso e continua a incidere sul suo destino, e il destino degli uomini è legato a quello dei luoghi e delle idee, a nodo stretto.

Allora definire un’identità europea autentica, nella quale ciascuno possa riconoscersi, non è più soltanto una necessità. E’ un’urgenza. Perché se è vero che si può vivere in un paese anche se non lo si conosce, è ancora più vero che in un paese che non si conosce si può vivere soltanto da straniero, ai margini. Fuori. Ma il compito della formazione è – innanzitutto- quello di creare appartenenze, far maturare persone e personalità capaci di sentirsi dentro una cultura, un territorio, un tempo presente che attribuisce senso al passato e al futuro.

D’altra parte, come si fa a pensare di poter comprendere la storia nazionale, la realtà e l’immaginario di quel luogo in cui si vive, se non si annoda tutto questo alla Storia europea e a quel crocevia di lingue e di culture, di modi di pensare e di guardare il mondo, che è il Mediterraneo. Come può svilupparsi una identità consapevole se non si acquisiscono le strutture e gli strumenti per comprendere una civiltà nel suo progresso e nelle sue contraddizioni. Non è bastata e non potrà bastare mai una moneta per costruire una comunità. Un comunità si può costruire su un progetto di esistenze, per le esistenze. La Storia e la cronaca drammatica del Mediterraneo, che si ripete come una maledizione, riguarda l’Europa, inevitabilmente. Quindi occorre saper comprendere quello che accade perché quegli accadimenti riguardano i nostri destini; occorre un pensiero capace di scrutare gli scenari sociali, politici, economici, di indagare e interpretare i fatti, i fenomeni, le storie. Senza conoscenza, una identità consapevole diventa impossibile. Senza un sentimento comune di appartenenza non si potrà costruire un’Europa della solidarietà, della cooperazione, dello sviluppo, della democrazia, del progresso, dell’integrazione, della libera ricerca e del libero lavoro. Essere comunità significa mettere in comune, in comunione.

Il senso e il sentimento di appartenenza sono quasi sempre una conseguenza di una condizione naturale o di una condizione culturale, o dell’una e dell’altra che si richiamano reciprocamente: si sente di appartenere a qualcosa, a qualcuno, oppure si comprende di appartenere, e spesso si comprende perché un sentimento, un’emozione, sospinge verso la comprensione.

Ci sono millenni di storia che annodano il Mediterraneo all’Europa, per cui la dimensione nella quale diventa indispensabile agire dev’essere necessariamente quella culturale: si deve penetrare nel sistema che mette in relazione lingue, diritti, doveri, religioni, tradizioni, politiche, economie, mercati, identità, espressioni di pensiero, visioni del mondo, immaginari collettivi, processi formativi, riconoscendo le potenzialità sia delle loro specificità che della loro integrazione. Lungo le coste del Mediterraneo, scrive Matvejevic “passava la via della seta, s’incrociavano le vie del sale e delle spezie, degli oli e dei profumi, dell’ambra e degli ornamenti, degli attrezzi e delle armi, della sapienza e della conoscenza, dell’arte e della scienza. Gli empori ellenici erano ad un tempo mercati e ambasciate. Lungo le strade romane si diffondevano il potere e la civiltà. Dal territorio asiatico sono giunti i profeti e le religioni. Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa”.

Una identità europea non può che configurarsi come la sintesi virtuosa di una integrazione di connotazioni culturali.

Dice ancora Matvejevic che non si costruisce l’Europa senza riferimenti al Mediterraneo. Un’Europa separata dalla culla dell’Europa. E’ come se si volesse formare una persona privandola della sua infanzia e adolescenza.

Un insegnamento dell’identità europea che non tenesse conto dell’identità mediterranea, delle contaminazioni e delle interdipendenze, sarebbe dunque un’approssimazione storica.

Probabilmente non c’è disciplina – storia, storia dell’arte, letteratura, geografia, filosofia, matematica, antropologia, sociologia, diritto, scienze della terra- nella quale non sia possibile rintracciare la specularità tra queste identità.

In ogni epoca – antica, moderna, post-moderna- l’identità culturale si pone in una relazione strutturale con i luoghi.

Dopo aver detto il suo nome e il nome di suo padre, Odisseo indica qual è il luogo dal quale proviene, lo nomina, lo descrive, lo colloca in un contesto.

Ma la figura metaforica di Ulisse concentra tutti gli elementi da cui si svilupperà il concetto moderno di identità. Soprattutto contempla la condizione di una modernità che si realizza attraverso l’esperienza del viaggio.

Nel suo romanzo Le vie dei canti, Bruce Chatwin dice che in tibetano la definizione di “essere umano” è a-Gro ba, cioè “ viandante”, “ chi fa migrazioni”.

L’identità moderna è fortemente caratterizzata dalla condizione del fare migrazioni.

Anche in questo caso, l’insegnamento può procedere ad una analisi del concetto e dell’esperienza dell’identità tanto attraverso una ricostruzione critica delle migrazioni quanto attraverso l’osservazione dei fenomeni che tramano la contemporaneità e che determinano costantemente un ripensamento e una ridefinizione dell’idea e di conseguenza dell’espressione dell’identità.

Bauman accende alcune problematiche relative alla condizione dell’identità rispetto alle quali nessun insegnamento può restare indifferente.

Una di queste problematiche si riferisce proprio alla differenza che si è aperta tra il significato che all’identità ha attribuito il tempo della modernità e quello che le viene attribuito dalla contemporaneità.

Se la modernità ha avvertito l’identità come un esito solido e stabile, la postmodernità ha rifiutato ogni elemento di fissazione lasciando aperte tutte le possibilità. Se nella modernità la parola chiave riferita all’identità era creazione – la creazione dell’identità- , nella postmodernità la parola chiave è rintracciabile nel verbo “riciclare” sostiene Bauman.

Se “il principale motivo d’ansia dei tempi moderni, collegato all’identità, era la preoccupazione riguardo alla durabilità”, nella contemporaneità l’ansia è provocata dalla ricerca dei modi che consentono di evitare l’impegno che comporta la creazione dell’identità.

“La modernità è costruita in acciaio e cemento: la postmodernità in plastica biodegradabile”.

Ovviamente si tratta di concetti che l’insegnamento non può assumere in maniera acritica e incondizionata; anzi, deve sciogliere i nodi concettuali pervenendo ad una elaborazione ulteriore che contribuisca alla configurazione di un’idea che integri quella formulata dalla ricerca.

Ma è certo che diventa impossibile, per esempio, non confrontarsi – in modo serrato- con l’affermazione secondo la quale si pensa all’identità quando si avverte un’insicurezza rispetto alla propria appartenenza, “ quando non si sa come inserirsi nell’evidente varietà di stili e moduli comportamentali”.

Secondo questa posizione l’identità “è il nome dato al tentativo di sfuggire a questa incertezza”.

Identità e cultura sono annodate da un nesso strutturale, tanto nella loro connotazione singolare quanto in quella plurale.

Sostiene Edgar Morin che la cultura mantiene l’identità umana nei suoi tratti specifici; le culture mantengono le identità sociali nelle loro specificità.

L’essere umano è, ad un tempo, uno e molteplice; ogni essere umano porta in sé il cosmo, “le proprie molteplicità interiori, le proprie personalità virtuali, una infinità di personaggi chimerici, una poliesistenza nel reale e nell’immaginario, nel sonno e nella veglia, nell’obbedienza e nella trasgressione, nell’ostentato e nel segreto; porta con sé brulichii larvali in caverne e in abissi insondabili”.

E poi, ciascuno ha in sé sogni e fantasmi; ha desideri, amori, infelicità, indifferenze, stupori, smarrimenti.

Confrontandosi con la dimensione dell’identità sociale, Pirandello rappresenta la condizione umana di un soggetto che si proietta nella metafora di una condizione che coinvolge tutti. Mattia Pascal sostanzialmente dimostra che nonostante l’identità sia sfuggente impedisce che il soggetto possa sfuggire ad essa.

L’identità probabilmente è questo: l’esito di passato rievocato e di presente, una fisionomia che si delinea attraverso il confronto serrato, talvolta lacerante, con il tempo e con le sue espressioni, le sue figurazioni, le paure che suscita e i suoi richiami seducenti.

Identità. Io. “ L’Io si manifesta nel corso di un tragitto”, scrive Eugenio Scalfari. “ Non ha importanza la misura spaziale e temporale di quel tragitto. Hanno importanza invece i mutamenti, gli incontri”.

Ogni identità, ogni Io, contiene un cosmo, dunque, che inevitabilmente si confronta e talvolta si confonde con i cosmi di altre identità.

Allora insegnare l’identità comporta, ad un tempo, la predisposizione di un contesto di comunicazione che consenta la rivelazione del cosmo che ciascuno ha dentro e l’interazione dei diversi cosmi personali.

D’altra parte, un’identità che resti isolata, chiusa nei propri caratteri, che non si protenda all’incontro e al confronto, si riduce inevitabilmente ad una natura sterile.

Al contrario, l’identità che si apre all’altro, agli altri, che accoglie e rielabora i caratteri di altre identità, sviluppa la propria natura, si rende complessa e, di conseguenza, disponibile all’apprendimento delle forme di complessità che connotano la condizione della contemporaneità.

Perché tra identità e apprendimento intercorre una relazione strutturale.

La significatività dell’apprendimento è, in larga misura, determinata dalla possibilità di interscambio, di comparazione, di innesto di cognizioni e di esperienze, dai passaggi di conoscenze che avvengono tra persone, comunità, culture, dalla rigenerazione costante dei significati che si attribuiscono agli oggetti e ai fenomeni del sapere.

Insegnare l’identità significa impiegare le discipline in una prospettiva di dislocazione. Significa, dunque, spostare lo sguardo, dirigerlo verso l’altro e verso l’altrove. Per esempio porsi nella situazione di leggere e interpretare i fatti della Storia con metodi diversi e quindi con visioni diverse. Significa oltrepassare le delimitazioni e le convenzioni: perché i cosmi d’identità stanno sempre al di là delle delimitazioni e delle convenzioni.

Se plurali, molteplici, composite, complesse, cangianti, sono le identità, devono essere coerentemente plurali, molteplici, complesse, composite, diversificate le metodologie con le quali si conduce l’indagine nei territori del sapere.

Non si può più fare a meno di un’idea dinamica della Storia, né di una consapevolezza che quando si dice “società della conoscenza” si deve specificare “conoscenza planetaria”.

D’altra parte, Bauman rileva come la globalizzazione abbia raggiunto il punto di non ritorno. Ciascuno di noi dipende dall’altro, ciascun altro dipende da noi. Per la prima volta nella storia dell’uomo “ l’interesse personale e i principi etici di rispetto e aiuto reciproco puntano nella stessa direzione e richiedono la stessa strategia”. Allora l’insegnamento diventa la situazione culturalmente strutturata all’interno della quale si può sviluppare la consapevolezza che l’incontro delle identità, la loro interdipendenza, assumono un significato essenziale non solo per la convivenza ma anche per la sopravvivenza dell’umanità.

In assenza di incontro e di dialogo tanto tra identità individuali quanto tra identità culturali l’ombra della barbarie si allunga sui territori delle civiltà.

E’ nel reciproco riconoscimento dell’identità, nello scambio di connotati e di significati, che maturano comportamenti coerenti con quelle che sono le complessità e talvolta le perturbazioni, le ribollenze, le contraddizioni che tramano il tempo presente e che, con molta probabilità, in futuro diventeranno più fitte, più intricate.

 

Una incerta conclusione

Come tutti i fatti della vita, anche quelli della cultura assumono senso e valore in relazione alla loro consistenza: alla qualità, allo spessore, alla compattezza, alla rilevanza che assumono nei contesti in cui intervengono, alle visioni del mondo e dell’esistenza che generano, all’immaginario individuale e collettivo che conformano, ai riflessi che riescono a spandere nell’età alla quale appartengono.

Le forme della cultura, le espressioni del pensiero, la pittura, la scultura, la filosofia, la poesia, la narrativa, la musica, il teatro, che costituiscono ancora – più o meno consapevolmente – i nostri elementi di riferimento sono appunto quelli che hanno una consistenza semantica con la quale il tempo che viviamo si confronta e nella quale a volte si rispecchia. Molto spesso questi riferimenti provengono dal passato, e nemmeno da quello recente.

La nostra mente rifiuta quello che ci consente di approfondire, che a volte ci costringe, anche, a riflettere. Quello che può in qualche modo corrodere le nostre più o meno false certezze. Quello che ci permette di tenere il pensiero in superficie, che non disturba la nostra tranquillità personale e sociale. Stiamo bene in un villaggio globale in cui tutto quello che accade, compreso anche il dramma, appare sotto la forma dello spettacolo, sempre finto e comunque sempre lontano dal luogo e dalla condizione in cui noi ci troviamo.

Non vogliamo consistenza, senso concreto delle cose. Vogliamo l’effimera leggerezza, l’inconsistenza, la vaporosità del senso, in modo che sia difficile o impossibile farlo stratificare, che possa sfuggirci dal pensiero un attimo dopo. Quanto più il senso è sfilacciato, frammentario, disarticolato, tanto più agevolmente si lascia scivolare nella palude dell’inconsistenza.

Ma la cultura serve a provocare il pensiero. Se non a questo, a cos’altro.

Italo Calvino non fece in tempo a scrivere la sesta delle sue Lezioni americane; si sa soltanto che avrebbe avuto per nucleo semantico la “Consistency” e per riferimento di base Bartleby lo scrivano di Melville. Però si può ipotizzare che come è successo per le lezioni sulla leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità, anche in quella sulla “consistency” avrebbe individuato quei principi fondamentali per la letteratura del terzo millennio che inevitabilmente si riverberano sul pensiero del millennio.

La logica del mercato, del consumo, determina le nostre logiche e anche le nostre preferenze.

La pubblicità non è più soltanto l’anima del commercio; è diventata anche l’anima del gusto, perché il consumo di massa inevitabilmente determina il gusto di massa.

Ma la Storia dimostra che di un’epoca rimangono quelle espressioni del pensiero che sono state più consistenti. Se questa legge della Storia varrà anche nei secoli che verranno, si può immaginare che nulla, o davvero poco, resterà dell’inconsistenza di quel pensiero che oggi risulta dominante. La cosa certamente non ci conforta perché significa che come civiltà abbiamo dissipato il tempo. Già siamo noi stessi a destinare all’oblio molti fenomeni che nel momento in cui si presentano sembrano doversi costituire come pietre miliare della conoscenza.

Prima della legge della Storia esiste quella naturale della memoria che trattiene soltanto quello che è consistente; il resto lo macina e ne espelle i rimasugli.

Le cose di quest’epoca che invece resteranno certamente sono le scoperte delle scienza. Perché hanno una straordinaria consistenza. Perché hanno cambiato il nostro modo di stare sulla Terra e quello di guardare il cielo, di immaginare la luna.

La loro consistenza ci perdona il nostro stupido lasciarci sedurre dalle sirene dell’inconsistenza.

 

 

Nella stesura di questo lavoro si è fatto riferimento ai seguenti testi:

 

Franco Brevini, Un cerino nel buio, Bollati Boringhieri, Torino, 2008.

Zigmunt Bauman, La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.

Marc Augé, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino, 2012.

Edgar Morin, La via. Per l’avvenire dell’umanità, Cortina, Milano, 2012.

Howard Gardner, Cinque chiavi per il futuro, Feltrinelli, Milano, 2007.

Vittorino Andreoli , L’uomo di superficie , Rizzoli, Milano, 2012.

Zygmunt Bauman, La società dell’incertezza Bologna, Il Mulino, 1999.

Zygmunt Bauman, Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi, Laterza, Roma-Bari, 2003.

Claude Lévi-Strauss, L’identità, Sellerio, Palermo, 1980.

Remo Bodei Libro della memoria e della speranza, Il Mulino, Bologna, 1995.

Predrag Matvejevic, Mediterraneo. Un nuovo breviario, Garzanti, Milano, 1987.

Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Cortina, Milano, 2001.

Eugenio Scalfari, Per l’alto mare aperto, Einaudi, Torino, 2010.

 

[Dossier di “Scuola & Amministrazione”, marzo 2018]

 

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