Satura 1

di Paolo Vincenti

Hanno fatto molto discutere le recenti inchieste del sito di notizie Fanpage,  rimbombate durante la campagna elettorale anche grazie a “Le Iene” che le hanno trasmesse. Alcuni giornalisti fattisi passare per faccendieri, lobbysti, incontrano i politici e propongono loro affari disonesti. I politici, ladri per definizione, ci cascano e vengono indagati ed arrestati. È balzata così agli onori delle cronache nostrane la figura dell’agente provocatore. Io sono balzato sulla sedia. Non essendo un giurista, non credevo fosse possibile né ammessa dalla legge tale figura. Invece mi sono dovuto ricredere. Infatti consultando la rete, ho potuto verificare quanto segue: “ Agente Infiltrato, Agente Provocatore e Utilizzabilità  Delle Prove: Spunti Dalla Giurisprudenza Della Corte Edu. Cass., Sez.Iii, 7.4.2011 (Dep. 3.5.2011), N. 751, Pres. Squassoni, Rel. Ramacci, Ric. Ediale E A. La sentenza qui allegata affronta, tra le altre, la tematica dell’ ‘agente provocatore’. Il caso è quello consueto: un agente di polizia, celando la propria qualifica, riesce ad entrare in contatto con un traffico criminale, ed al fine di raccogliere prove e/o far cogliere in flagranza i suoi ignari interlocutori compie un’attività che, per la sua componente di “adesione fattiva” al comportamento criminoso, va ben al di là di una ordinaria “indagine” su fatti commessi o in corso di realizzazione. In simili evenienze, qualora risulti che il soggetto, lungi dall’operare da semplice “infiltrato”, abbia posto in essere un contributo da considerarsi a tutti gli effetti concorsuale – circostanza che si verifica in modo particolarmente evidente in caso di provocazione ‘in senso stretto’, cioè quando il provocato venga in vario modo indotto a commettere un reato che altrimenti non avrebbe realizzato – si pongono fondamentalmente due questioni. – In primo luogo, v’è da interrogarsi circa la possibile punibilità dello stesso provocatore, o comunque del soggetto che abbia posto in essere un contributo concorsuale rilevante, al di fuori dei limiti stabiliti da espresse clausole di non punibilità in tema di operazioni ‘sotto copertura’. La corresponsabilità è normalmente riconosciuta dalla giurisprudenza ….   – In secondo luogo, emerge il problema della responsabilità della persona ‘sollecitata’ a delinquere dall’agente di polizia. Detta responsabilità è normalmente riconosciuta dal punto di vista sostanziale …” (https://www.penalecontemporaneo.it/)

Ma siamo o no in uno Stato di diritto? Qui si condannano le intenzioni. Sono basito. Leggo poi che il mondo del diritto è diviso su questo argomento. Alcuni Pm sono nettamente a favore dell’agente provocatore, altri sono contrari. Fra questi ultimi, Raffele Cantone, Presidente dell’Anac, che in un articolo sul “Corriere della Sera”, del 21 febbraio 2018, firmato insieme a Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto Penale alla Statale di Milano, e intitolato“Va punito chi fa reati, non chi potrebbe farli. Ecco tutte le incognite dell’agente provocatore”, scrive:  “problematico ricorrere a qualcuno, in genere un appartenente alle forze dell’ordine, che istiga a commettere un reato per assicurare alla giustizia chi non ha ancora compiuto alcun delitto. Quando un falso imprenditore propone a un amministratore pubblico una tangente sta infatti creando artificialmente un reato che non sarebbe stato commesso in assenza della provocazione”. Gli autori, dopo aver richiamato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sostengono che “Anzitutto va ricordato quel che si insegna agli studenti di giurisprudenza: il compito della giustizia penale è punire (e perseguire) coloro che hanno commesso reati, cioè fatti socialmente dannosi, non coloro che si mostrano propensi a commetterne. In secondo luogo, è opportuno riflettere sul fatto che uno Stato che mette alla prova il cittadino per tentarlo e punirlo, se cade in tentazione, non riflette un concetto di giustizia liberale. D’altra parte si tratta di una pratica investigativa che, all’evidenza, si può prestare ad abusi: chi decide chi, quando e come provocare?».

Va da sé che le canaglie finite nell’inchiesta di Fanpage siano dei farabutti, dei lestofanti, a loro va tutta la nostra riprovazione morale. Ma la riprovazione, lo schifo, lo sdegno, non possono trasformarsi in denunce penali se essi non commettono reati o se vi sono spinti da falsi intermediari. Bisogna colpire chi delinque sua sponte, cazzo! Io punirei addirittura gli agenti provocatori.  Bisogna mazziare chi corrompe o viene corrotto, ma fra fetenti, non chi viene gabbato da un poliziotto. Se pure uno è una bestia, non può essere turlupinato dalle forze dell’ordine. Il dibattito è aperto.

 

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Il Grillo sparlante. Il giacobinismo di Grillo, che ha avuto una dimostrazione plastica l’anno scorso nella richiesta di instaurare un tribunale del popolo, si esplica in rete con il suo famigerato blog attraverso una gogna mediatica alla quale vengono condannati tutti coloro – politici, giornalisti, commentatori-, che non la pensano come lui. Il nuovo Terrore si puntella su due cardini: quello mediatico, per i suoi avversari politici, la stampa e le tv che gli sono avversi, e quello economico, per gli stessi grillini, che rischiano espulsione dal movimento e salata multa nel caso sgarrino, come abbiamo constatato poco prima delle elezioni in occasione dei mancati rimborsi di alcuni parlamentari 5 stelle.  La giuria popolare invocata da Grillo contro le bufale on line avrebbe potere di stabilire cosa è vero e cosa è falso, secondo la farisaica dicotomia fra bene e male utilizzata come grimaldello nella scalata al potere e nel suo consolidamento da tutti i dittatori della storia. Grillo aspirante Stalin o Hitler? Beh, questo accostamento risulta francamente eccessivo. A Beppe mancano un po’ di letture e alcune di quelle psicosi che tormentavano la mente del Fuhrer. Soprattutto, gli manca il complesso di inferiorità (ha avuto una carriera fortunata, ha successo e soldi, è telegenico) che negli psicopatici criminali si associa a quell’ ebbrezza di onnipotenza, a quell’ esaltazione fanatica che porta poi distruzione e morte, come la storia ci insegna. Tuttavia, il Robespierre di Genova deve aver letto almeno “1984” di  George Orwell, libro che dopo l ‘elezione di Trump ha conosciuto un boom di vendite nel mondo.  L’opera di Orwell riporta alla trasmissione televisiva “Il grande fratello” da cui proviene Rocco Casalino, il responsabile della comunicazione 5 stelle. Tutto torna. E dunque, Grillo cerca di impostare il movimento come la casa mediasettiana del GF, in modo tale che lui abbia il controllo totale sui tele-ospiti e addirittura potere di vita e di morte su di loro. Quello che stupisce è che, mentre le sue bordate dovrebbero destare ilarità nelle persone intelligenti, semmai essere accompagnate da un coro di fischi e pernacchie, invece inducono reazioni scomposte e durissime, cioè molti se la prendono davvero con il Grillo sparlante. Come se appunto non stesse (s)parlando un grillo. Ed è così che il suo pensiero, come per esteso il Movimento, legittimato dall’opposizione stizzita dell’establishment, ha continuato a proliferare.

Da Russoe a Machiavelli.  Ora che tanti si affrettano a salire sul carro grillino del vincitore, dalla Confindustria di Boccia, alla Fiat di Marchionne, da Scalfari forse anche alla Cisl della Furlan, a me torna in mente  la famosa fiaba di Andersen “I vestiti nuovi dell’Imperatore” (Il re è nudo).

I Cinque stelle sono del tutto inaffidabili, pronti a dire una cosa e il suo contrario in base alle convenienze. Da forcaioli a ipergarantisti. Ricordate il nuovo codice etico fatto approvare apposta per blindare la imbarazzante (ma per nulla imbarazzata) Sindaca di Roma Raggi, travolta dai guai giudiziari?  Da grilli a camaleonti, insomma, senza far tanti complimenti.

Hanno dato pessima prova nelle amministrazioni comunali in cui stanno governando: oltre che a Roma anche a Torino. Si sono presentati agli elettori, mostrando un libro dei sogni che loro stessi non sanno leggere.  Hanno puntato tutto sulla pancia della gente, stufa della politica politicante, ma non sul cervello, sul ragionamento, sull’analisi seria e dettagliata. Con un programma copiato dalla rete, con una squadra sghemba e con due veri padroni quali Grillo e Casaleggio cui rendere conto, e che intanto fanno soldi a palate, come appena dimostrato dalle dichiarazioni dei redditi rese note dalla stampa, che certezze possono offrire i nuovi capiparte? Non c’è nuovo che tenga. I grillini sputavano su Forza Italia, il partito azienda. Ma che cos’è il Movimento Cinque Stelle, se non una versione aggiornata del partito berlusconiano? La differenza è che qui i padroni sono due, Grillo e Casaleggio, tutto deve essere vagliato e concordato con loro. Fra (Raggi)ri e congiure, dunque, doppiopesismi, purghe grilline, bavagli alla stampa, liste di proscrizione, (Diba)ttiti oscurati, e foglie di (Fico) cadute, la tragicommedia a Cinque Stelle ormai ci è nota. L’impressione, vicina a diventare certezza, è che questo innamoramento della gente per le forze populiste e sovraniste passerà presto. Il Paese purtroppo non ha anticorpi per difendersi dai virus che ciclicamente lo attaccano. Non ha saputo rispondere all’infezione berlusconiana, non ha sviluppato immunodifese per il renzismo ed ora sembra vittima del grillismo. Ma i Cinque Stelle stanno dando ampia dimostrazione di poter divenire peggio del peggio che all’inizio denunciavano. Essi hanno mollato tutta l’artiglieria pesante che avevano messo in campo agli esordi, e ora sembrano vecchi democristiani, falsi e ipocriti. E del resto la corruzione è endemica nel nostro Paese, come conferma il bel libro “La corruzione. Una storia culturale”, di Carlo Alberto Brioschi (Guanda 2018), un excursus sulla disonestà dall’Antico Testamento fino ad arrivare ai giorni nostri, ed è sconfortante constatare come i corrotti siano sempre stati presenti nella politica da Tacito e Seneca a Richelieu. I nuovi caporioni, che hanno già dimostrato incompetenza, temo dimostreranno presto corruttela. Il Movimento Cinque Stelle è come lo Yomo, al quale faceva pubblicità negli anni Ottanta Beppe Grillo: uno yogurt scaduto.

Donne e belve. Grande risalto è stato dato quest’anno all’anniversario del rapimento di Moro e della strage di Via Fani. Ne hanno parlato tutti i tg, “Unomattina” e “La vita in diretta”, su Rai 1, poi la trasmissione “Il condannato. Cronaca di un sequestro”, di Ezio Mauro, su Rai3, la trasmissione di La7 “Aldo Moro storia di un delitto”, di Andrea Purgatori, quella di Francesca Fagnani, “Belve” su Nove,  e diversi spazi di approfondimento nei vari canali all news. Naturalmente è stato un profluvio di ex brigatisti rossi, tirati fuori dalla naftalina con cadenza annuale  per farli farneticare urbi et orbi. Premetto che a me non importa proprio nulla di ascoltare questi indecenti (e ne ho le tasche piene anche del caso Moro, dopo tanti anni di solfa mediatica e retorica politica) e infatti non ho seguito alcuna trasmissione. Però vuoi o non vuoi, a meno di più piacevoli sollazzi sul famoso atollo tropicale, le notizie qui ti piovono addosso e non puoi evitare di essere informato. Dunque, alla trasmissione di La7 sono stati invitati i terroristi Prospero Gallinari, Valerio Morucci, Raffaele Fiore e Mario Moretti. Su Nove, la Fagnani ha intervistato Adriana Faranda, quasi fosse una superstar, e così ha fatto anche Ezio Mauro su Rai3.  Orbene, se doveroso è il ricordo, e comprensibile anche la spettacolarizzazione dell’evento che ne fa la tv, appare francamente inammissibile l’ondata di generale accettazione soporifera, se non di buonismo, che si è riversata su suoi beceri protagonisti, ossia i Brigatisti Rossi. Questi dilagano nei salotti televisivi con la loro assurda “versione di Barney”. Inoltre, pontificano dagli schermi senza avere alcun contraddittorio, favoriti dal gioco di luci della sapiente fotografia televisiva che conferisce loro più fascino e sintomatico mistero. Ma se non stupisce più di tanto la glorificazione della Faranda, fatta nella trasmissione “Belve” da Francesca Fagnani (le si riconosce almeno l’onesta del titolo), io rimango disarmato di fronte all’incontro fra la Faranda e Agnese Moro, figlia del leader democristiano ucciso nel 1978, tenutosi alla chiesa di San Gregorio al Celio a Roma il 15 marzo. L’ex brigatista e la figlia di Moro, faccia a faccia a colloquiare come due vecchie amiche e l’Agnese che addirittura incoraggia l’Adriana, tradita dalla forte emozione, e la accarezza e la abbraccia. Che scene disgustose. Per l’amor di Dio, il perdono ha un valore altissimo e va praticato da un buon cristiano. Ma da perdonare a condonare… Arrivare ad un simile gesto, entrare non dico in empatia ma addirittura in amicizia con uno che ti ha massacrato il padre, non è da cristiane, e nemmeno da belve, è da coglione.

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Liberate Capalbio! “Oddio, gli immigrati a Capalbio! Questi indesiderabili puzzolenti negroni vengono ad inquinare l’aria di una delle più esclusive località turistiche d’Italia?  Via, pezzenti, tornatevene da dove siete venuti! Qui non vi vogliamo!” Ha fatto discutere l’estate scorsa la sortita del Sindaco di Capalbio, Luigi Bellumori, che si rifiutava di dare accoglienza a 50 immigrati destinati proprio al comune toscano. In barba a tutta la trita e ritrita retorica sull’accoglienza, ammannita per cinque anni dal governo Pd. Capalbio, in provincia di Grosseto, nella splendida Maremma, è da lungo tempo località privilegiata di vacanza per vip e intellettuali di sinistra, i cosiddetti “radical chic”. Spesso è stata oggetto di ironia e dileggio, perché i cervelloni che sceglievano come buen ritiro la marina maremmana sostenevano di isolarsi dal mondo, durante il loro soggiorno di relax, e di non leggere i giornali né di possedere il televisore. Questo loro atteggiamento snobistico ha creato l’espressione “intellettuali di Capalbio”, per indicare una categoria di persone che vive lontano dalle noie e dagli affanni della contemporaneità. A Capalbio, non si sapeva dove alloggiare gli ospiti indesiderati. Oltre al Sindaco, tanti operatori commerciali, ristoratori e albergatori, si lamentavano della situazione venutasi a creare perché essa avrebbe potuto scoraggiare il turismo e determinare un calo delle prenotazioni. Effettivamente, quello era già un segno che il vento stesse cambiando pure a Capalbio. I giornali e le forze politiche di centro-destra si sono scatenati nel tacciare di ipocrisia la sinistra che a parole è favorevole all’accoglienza e all’integrazione, ma poi nei fatti si rivela intollerante proprio come un qualsiasi leghista.  Cioè, sostenevano Lega e Fratelli d’Italia, quando si tratta di accogliere gli extra comunitari nelle zone degradate delle città, va tutto bene, ma quando invece il fenomeno interessa i luoghi di ristoro o di residenza della “sinistra al caviale”, allora sorgono problemi di ordine pubblico e spuntano tanti distinguo. E sì che il vento stava cambiando, e se ne è avuta conferma alle recenti elezioni politiche del 4 marzo, quando, nella storica roccaforte della sinistra, ha trionfato la Lega Nord. Tornando agli intellettuali di Capalbio, qualche anno fa, quand’ero più giovane, credevo che questi scrittori, giornalisti, docenti, si rinchiudessero nella loro turris eburnea, sdegnosi del mondo e delle sue trame, a filosofeggiare e snobbare. Essi cioè aspirassero a costituire una sorta di “Platonopoli”, come quella vagheggiata da Plotino, ossia una città ideale, non già governata da filosofi, come nella Repubblica di Platone, ma composta di soli filosofi, i quali colà si segregassero isolandosi dal quotidiano. Oggi, l’arrivo dei “mau mau” africani e la stizzita reazione dei capalbiesi hanno fatto crollare miseramente il Pensatoio, per dirla con Aristofane, o Neffalococcugia.

Così le cose cambiano. È sempre un piacere perverso vedere ex forcaioli passare dall’altra parte della barricata e scendere a patti col sistema, ex giustizialisti diventare garantisti, attraverso mutazione genetica post riflusso. Così l’ex arrabbiato Beppe Grillo, maitre à penser del “vaffanculo” e dell’ “arrestiamoli tutti”, profeta della web revolution, diventa democristiano fuori tempo massimo e predica mediazione, adattabilità, ci manca poco che parli di “convergenze parallele” e “politica dei due forni”. E i grillini, che all’inizio della loro avventura politica, si facevano chiamare “cittadini”, ora apprezzano di essere chiamati “onorevoli”, e mentre prima avevano il divieto assoluto di parlare ai giornalisti, ormai sono i più assidui ospiti dei talk show televisivi. Hanno cambiato il loro codice etico per parare il culo prima alla Sindaca di Roma Raggi, raggiunta dai guai giudiziari, e poi a quella di Torino Appendino. Eh sì, è sempre curioso assistere a certe impennate dell’incoerenza, seguire le inversioni a u dei protagonisti della scena pubblica italiana; arreca quasi una gioia commossa sentire un manettaro difendere il principio della presunzione di innocenza costituzionalmente sancito, un po’ come sentire Tony Iommi,  il chitarrista dei Black Sabbath, suonare musica sacra.

Così le cose cambiano per la Lega Nord, che attraverso mutazione genetica è diventata semplicemente Lega. Se agli inizi un arrabbiatissimo Bossi invocava la secessione e si scagliava contro Roma ladrona, oggi i leghisti fanno pendant con la tappezzeria dei salotti buoni romani. E se lo stesso Salvini (“Il trasformista” in salsa padana) un tempo si scagliava contro i puzzoni meridionali – curioso il video in cui il leader leghista canta una oscena canzone contro i napoletani colerosi -, oggi invece predica unità nazionale e addirittura si candida in Calabria.

Piero Sansonetti (ovvero “qualcuno era comunista”) che detiene il non invidiabile record di aver fatto fallire tutti i giornali che ha diretto, da “Liberazione” a “Il garantista”, dalle pagine della sua nuova creatura, “Il dubbio”, si batte per la scarcerazione di Marcello Dell’Utri.  “Che fantastica storia è la vita” canta Antonello Venditti (“qualcuno era comunista” 2): quando pensi di averle viste tutte, ti devi ricredere. Non c’ è mai fine al peggio (“qualcuno era comunista” 3).

 

Ferrara, l’uomo dai mille volti. Giuliano Ferrara è ormai convintamente renziano. Dalle “Metamorfosi” di Ovidio alle “Metamorfosi” di kafka, applicate alla politica. Giuliano Ferrara è uno che è passato dalle lotte comuniste di gioventù al berlusconismo più duro e puro (quello dei cosiddetti falchi), dalla militanza nel Psi di Bettino Craxi a quella in Forza Italia, divenendo addirittura Ministro per i Rapporti col Parlamento nel primo Governo Berlusconi (1994). Più volte parlamentare, è uno dei più noti giornalisti italiani. È stato un formidabile anchor man televisivo, ha inventato, con la trasmissione “Il testimone”, il genere dell’infoteinment, alcune sue trasmissioni (come “Radio Londra”, “L’istruttoria”, “Otto e mezzo”) fanno parte della storia della televisione italiana. È passato dalla battaglia per la grazia ad Adriano Sofri, leader di Lotta Continua, alla battaglia sulla difesa della vita contro l’aborto. Da comunista figlio di comunisti, a difensore della Chiesa cattolica, contro l’estremismo islamico, contro i matrimoni gay e a difesa delle radici cristiane dell’Europa. Dunque, dalle posizioni di totale laicismo degli inizi, alla posizione del più smaccato conservatorismo di oggi. Questo, per dire che certo Ferrara non ha fatto della coerenza il proprio vessillo. Ma tant’è. È tipico delle grandi personalità (in questo molto novecentesco) contraddirsi, cambiare idea, spesso anche con incredibili piroette, cioè nella maniera più plateale e marchiana. Il massimo è che Ferrara continua a professarsi ateo (un “ateo devoto” lo ha definito Eugenio Scalfari), dunque vicino alle posizioni della chiesa per motivazioni di carattere ideologico e filosofico, niente affatto spirituali. E le contraddizioni continuano. Attraverso “Il Foglio”, giornale da lui fondato, ha portato avanti molte battaglie che hanno incontrato l’ostilità dei suoi colleghi-avversari politici e l’indifferenza degli elettori-lettori. Scrive Antonello Piroso, su “La Verità” del 2 marzo 2018, “Prima comunista, poi craxiano. Papista ratzingeriano ma non credente, bushiano ma non trumpiano. Renziano entusiasta ma, da antiabortista, al Senato voterà la Bonino. Protagonista di liti epiche, ammise un passato da informatore della Cia.” Infatti Ferrara ha fatto l’ennesima piroetta. Era ritornato vicino a Forza Italia. Dalle pagine di “Panorama”(22 giugno 2016),  faceva una disamina della situazione attuale del centro-destra in Italia e affermava che occorresse ripartire proprio dal Cavaliere Berlusconi. Ricreare le condizioni che vi furono nel 1994, cioè di quella grande rivoluzione liberale che, se non è più ripetibile tel quel, nella forma, nei modi di allora, deve essere però almeno fonte di ispirazione per i partiti moderati di centro-destra e che riconosca in Berlusconi il suo padre nobile. Toh, nel giro di pochi mesi, è passato al Pd, professandosi convinto renziano, proprio nell’ora del suo tramonto. E alle recenti politiche ha votato per il Pd e per Più Europa.  “La nemesi è completa”, scrive ancora Piroso, “La preferenza alla radicale pro aborto a 10 anni di distanza dalle elezioni del 2008 cui Ferrara partecipò con la sua lista prolife contro l’aborto e rimediò uno 0,4%. Più che una sconfitta, una catastrofe”. Ora Giuliano, che nel frattempo ha lasciato la direzione del Foglio al giovane Claudio Cerasa, continua a fare il maître à penser della sconfitta.  Infatti sappiamo che fine ha fatto il Pd renziano a queste elezioni. Ma Ferrara è uomo di grandi slanci, furiose invettive, per lui il giornalismo è e deve essere fazioso, pervicacemente di parte. Gli va dato atto di avere quello che si dice il coraggio delle idee. Ma le sue folgorazioni sulla via di Damasco sono pari alle sue scazzate e le sue trasformazioni alle sue cantonate.

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