Zibaldone galatinese (Pensieri all’alba) IV

di Gianluca Virgilio

IV

Una fantasia, una fantasia reale, cioè fondata su fatti realmente accaduti quand’ero ragazzo, che mi ritorna in mente qualche volta quando sono nel dormiveglia. Avevo meno di quindici anni ed ero magro e scattante come una lepre, non velocissimo, ma la mia corsa era piena di astuzie e di improvvisi movimenti laterali.  Il gioco avveniva nel circuito della Villa grande, da cui era vietato scendere (s’intenda: dal marciapiede che la delimitava e la delimita tuttora). I miei amici mi davano un vantaggio di qualche secondo e poi si gettavano all’inseguimento. Bastava che uno mi toccasse per meritare di diventare da inseguitore inseguito, mentre io avrei preso il suo posto. Ero molto abile e scaltro nello schivare le mani dei compagni che tentavano di accerchiarmi per non darmi scampo, e spesso mi riusciva di ritardare di molto l’inevitabile cattura. Ora, quando sono nel dormiveglia dell’alba, mi rivedo com’ero allora, leggero e scattante, pieno di balzi tra un’aiuola e l’altra, tra il tronco d’un pino e quello d’un leccio o di una palma, quasi volante tra i cespugli di verbena e di pittosporo, sfuggente alle mani degli inseguitori, col vento tra i capelli e la fronte imperlata di sudore; e questa visione mi culla nel risveglio mattutino: nell’immobilità del letto è una consolazione pensare di staccarsi da terra, quasi di volare come un uccello e di essere imprendibile.

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Visione dei resort salentini: agriturismi, centri benessere, ecc., disseminati per la campagna salentina, da una costa all’altra: puliti, ordinati, ben attrezzati, accoglienti, con tanto di viale di palme e piscina, dotati di comodo parcheggio. Sembrano tante oasi nel deserto di un territorio devastato dalla speculazione e abbandonato a se stesso dall’incuria pubblica. Stessa cosa dicasi di alcune ville molto ricche, dalle alte e spesse recinzioni, visibili nell’aperta e incolta campagna.

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Che cosa significa che, durante il compito d’italiano, tutti i cellulari degli studenti stiano raccolti su un banco posto al centro dell’aula, mentre tutt’intorno essi scrivono? Sembra che nella classe ci sia un luogo-tabù e che l’atto dello scrivere vi si organizzi tutt’intorno. Gli studenti scrivono con la penna, pur essendo nativi digitali (la nuova tribù del XXI secolo), non digitano, creano a mano, con la scrittura disegnata, più spesso scarabocchiata, immagini fatte di parole che, pur volendo, non potrebbero vedere sul display del proprio cellulare: sono costretti a figurarsele ognuno per conto proprio. Durante la stesura del compito, se volessero avere un’informazione precisa su un particolare accadimento, non potrebbero averla, ed il mio compito è proprio di non consentire l’accesso ad Internet. Penso che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in tutto questo, una profonda separazione tra scuola e vita.

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“La saggezza traccia dei limiti alla conoscenza” scrive F, Nietzsche nel Crepuscolo degli idoli, “Sentenze e frecce”, 5, in Opere VI/3, p. 55; ed io intendo che in questa frase è racchiuso il senso profondo della misura, a cui la nostra vita deve attenersi, poiché essa sola determina il nostro benessere materiale e spirituale. La saggezza è il limite posto alla conoscenza (vedi l’Ulisse di Dante). La saggezza posa entro confini stabili mentre la conoscenza è come la linea dell’orizzonte, irraggiungibile.

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Il desiderio di tornare in un luogo, nel quale abbiamo soggiornato piacevolmente, è connesso con il desiderio di procrastinare la morte. Esso implica la richiesta che rivolgiamo alla morte di darci il tempo di rivedere quel luogo prima di morire. Per questo ci piace ritornare in un luogo che abbiamo amato piuttosto che visitarlo per la prima volta.

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Il mio pensiero costante è il seguente:  come fare a tenermi lontano da uomini e cose senza tagliare i ponti, mantenendo una costante apertura davanti al mondo, una viva disponibilità all’incontro, alla novità, ecc. Del resto, come potrei scrivere se non accogliessi tutte le sollecitazioni del mondo, tenendomene lontano, cioè evitando di farmi fagocitare dal mondo?

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Trascorrere la mattinata intenti a riordinare un ripostiglio, dove avevamo accumulato troppe cose divenute inutili, di cui non avevamo il coraggio di sbarazzarci e che ora sono divenute ingombranti: i braccioli per il mare, alcune borse usurate, qualche scatolone, una sedia rotta, il portabagagli della vecchia auto. Quest’attività è molto istruttiva perché ci mette in contatto con la nostra vita passata e ci dà la misura del tempo che passa… Quegli oggetti, che ora stiamo buttando, un giorno li abbiamo scelti con cura, li abbiamo acquistati perché sentivamo il bisogno di possederli, erano le nostre appendici. Buttandoli, prendiamo coscienza che il tempo ha consumato anche una parte della nostra vita. Ma intanto abbiamo fatto spazio al nuovo e dunque anche la nostra vita può ricominciare.

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L’affievolirsi dello spirito critico deve essere messo in rapporto ai processi intellettuali e culturali messi in moto dai mass media che, in quanto mezzi di comunicazione di massa, hanno a che fare non con una ristretta cerchia di persone, ma con quasi otto miliardi di individui; il che vuol dire che se il cosiddetto “spirito critico” contagiasse tutti e otto i miliardi di individui che popolano la faccia della Terra, questo costituirebbe un bel problema, forse irrisolvibile, per chi si è arrogato il diritto di guidare il destino degli uomini, cioè quell’un per cento di super-ricchi; i quali, dunque, fanno di tutto, pagando fior di quattrini – che a loro certo non mancano – quanti lavorano giorno e notte a questo fine, perché lo spirito critico si affievolisca sempre di più fino a svanire del tutto.

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“Io scrivo le cose come le sento, cioè a dire come credo che esistano.” (G. Flaubert a George Sand, da Croisset, 5 luglio [1868] domenica in Fossili di un mondo a venire, Aragno, Torino 2004, p. 189).

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Il rapporto tra gli uomini nell’apologo dei porcospini di Arthur Shopenhauer, Parerga e paralipomeni, II, cap. 30, par. 6: “Alcuni porcospini, in una fredda giornata d’inverno, si strinsero vicini per proteggersi, col calore reciproco, dal rimanere assiderati. Ben presto, però, sentirono le spine reciproche; il dolore li costrinse ad allontanarsi di nuovo l’uno dall’altro. Quando poi il bisogno di scaldarsi li portò di nuovo a stare insieme, si ripeté quell’altro malanno; di modo che venivano sballottati avanti e indietro tra due mali, finché non ebbero trovato una moderata distanza reciproca, che rappresentava per loro la migliore posizione.”

Gli uomini-porcospini, dal freddo costretti a vivere insieme, sono anche costretti dai loro stessi aculei a star lontano l’uno dall’altro. Per difenderci dal male del mondo (“il freddo”), abbiamo bisogno degli altri, ma gli altri, col loro egoismo individuale (“le spine”),  sono per noi parte del male del mondo. Qual è il giusto mezzo? Regolare i rapporti interpersonali in modo tale da ricavarne il massimo beneficio e il minimo male. Saggezza vuole, dunque, che tra uomo e uomo si mantenga “una moderata distanza reciproca”. Questo è il vivere civile nella società degli uomini.

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Da qualche anno a questa parte, i giovani non sono più una forza propulsiva della società, ma una forza drogata e dormiente. A furia di coccole, somministrate da famiglia, scuola e società, i giovani sono diventati una massa docile e conformista, perfettamente integrata nei meccanismi del mondo consumista nel quale sono nati e vissuti. Molti giovani sono stati addomesticati, non tutti. Quelli che vivono nelle periferie delle città, ai margini della società opulenta, quelli che vivono delle briciole cadute dalla mensa dei potenti, tutti costoro sono domati, non addomesticati. E come talvolta la bestia feroce mangia il suo domatore, così il giovane delle periferie talvolta esce dal proprio recinto per portare distruzione e fare strage tutt’intorno. Che poi questo giovane abbia le fattezze del teppista, del sostenitore dello stato islamico oppure dell’aderente al Black Bloc, poco importa. Importa che questo giovane sta dicendo, coi suoi comportamenti smodati, violenti ed irrazionali, per chi voglia sentirne il grido e sentirne le ragioni, senza per questo giustificarlo in alcun modo, che qualcosa nel nostro mondo non va e che occorre svegliarsi.

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Nell’agosto del 2012 ero a Lubiana con la mia famiglia. È lì che ho compreso la qualità della nostra “migliore gioventù”. Lungo il Ljubljanica, un piccolo fiume che attraversa la capitale slovena, cento locali coi tavolini all’aria aperta, pieni di giovani nullafacenti che avevano tutta l’aria di narcisi intenti a bere birra. Ho pensato ai branchi di leoni marini stesi al sole su qualche isola del Pacifico, come si vedono nei documentari naturalistici della TV. In realtà, mentre i leoni marini rimangono allo stato selvaggio, l’idea che mi sono fatto dei giovani occidentali è che essi siano diventati una mandria di animali addomesticati.

Leggo in J. Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, Einaudi, Torino 2006 (I ed. del 1998), p. 121 la differenza tra domare e domesticare: “Gli elefanti sono stati domati, non domesticati. Quelli montati da Annibale e quelli usati al giorno d’oggi per spostare i tronchi sono esemplari selvatici e ammaestrati, non nati e cresciuti in cattività. Un animale domestico si definisce come un animale modificato selettivamente, che nasce e cresce in cattività, nutrito sempre dall’uomo. In breve, la domesticazione implica una trasformazione in qualcosa di utile, e i veri animali domestici sono diversi sotto vari aspetti rispetto ai loro progenitori selvatici. È un processo in due fasi: noi selezioniamo gli animali con i nostri criteri (e non quelli dell’evoluzione naturale), e questi rispondono alla pressione selettiva alterata, adattandosi alle forze presenti nell’ambiente umano e non in quello selvatico”.

La gioventù moderna occidentale, quella integrata nel sistema capitalistico attuale, è una gioventù addomesticata; quella non integrata è solo domata. È interessante notare che l’uomo, dopo aver addomesticato le piante e gli animali, ha addomesticato se stesso, attraverso i più sofisticati meccanismi del potere, che realizzano tale domesticazione grazie al principio fondamentale che impronta la nostra società, il principio della diseguaglianza tra gli uomini. La società dei diseguali è divisa in addomesticati e domati, integrati ed esclusi, ricchi e poveri, ecc.

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Passeggiata a Gallipoli, prima lungo il corso, poi sul lungomare inondato di sole, in compagnia di Ornella. Incontriamo una sua collega, un’insegnante. Sorridendo ci dice che grazie alla bella giornata si stava disintossicando dalla scuola. Ha usato proprio il termine “disintossicare”, ed io ci ho fatto caso. Strano – mi sono detto – che la scuola sia considerato un veleno, un tossico, da cui ci si deve liberare in una bella giornata di sole!

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A cena con amici. Si parla di leccornie e di ricette. A un certo punto, una vecchia amica di famiglia racconta la storia delle ricette di alcuni dolci, che non vengono divulgate oppure vengono divulgate in modo distorto o falso, in modo tale che il segreto sia mantenuto, ovvero rimanga in famiglia. Aneddoto utile per una storia dell’amicizia e dei rapporti umani in genere.

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Ole Chiudilocchio dice di sé in Hans Christian Andersen, Fiabe, Mondolibri, Milano 2001, p. 155: “… sono un antico pagano; greci e romani mi chiamavano il dio dei sogni! …”; ed io penso che la stesso cosa si potrebbe ripetere di Andersen: un vero pagano! Il suo paganesimo consiste nel rendere animate le cose, parlanti gli animali, nel resuscitare l’antico spirito della fiaba, che è del tutto pagano. Il cristianesimo, infatti, disprezzando il mondo, rende le cose morte e soffoca lo spirito della fiaba.

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