Soave – uno scherzo

di Luigi Scorrano

Ci si sveglia, certe mattine, con una parola che ronza insistente nella testa e che non ti lascia in pace se non quando hai compiuto l’onesto sforzo di cercarne esempi di collocazione, di efficacia se inserita nel pieno di un discorso, se con la sua morbida cesellatura attiri ancora l’attenzione di qualcuno che la sottrae a scritture ricercate per trarne effetti antichizzanti e sbattimenti di luce verbale (si fa per dire!) da sfoggiare appesa al  bavero di una ricercata prosa stilata in punta di penna e risulti, alla lettura, una faticosa costruzione di quelle che non fanno più effetto e sulle quali nessuno potrebbe appoggiare il capo cercandovi riposo. Il guaio è che questa parola viene da te, si fa ospitare nel tuo cervello senza chiederti il permesso di sosta, ti impone la sua presenza e intende stabilirsi da te senza prima aver sondato il terreno per realizzare i suoi disegni dando per scontato che la cosa è così ‘normale’ da non avere alcun bisogno di permessi. Quando arriva alla tua porta non bussa per avvisarti del suo arrivo; dà per scontato che la porta per lei è sempre aperta.  Succede proprio così, infatti; lei entra, ti fa un bel sorriso, salta i convenevoli d’uso e si mette a cantare, talvolta dolcemente, in modo da sottrarmi l’attenzione per ciò che stavo eventualmente facendo. La sua, si vanta, è un’indipendenza assoluta. Se qualcuno si irrita per questo suo comportamento, lei riesce ad ammansirlo e, che è più stupefacente, qualche volta finisce per farlo cantare insieme a lei in perfetta sintonia.

Non voglio tenerti sulla corda, come si dice; ma lei riesce a farlo con tanta grazia che tutto le viene facilmente perdonato. Tu perdona a me se non ho fatto finora il nome che aspetti di sentire. Lo faccio ora: il nome è quello di un ospite d’eccezione. Si chiama soavità e usa modi conformi al suo nome per farsi benvolere da tutti. Quasi da tutti, perché quel  caramello zuccheroso con cui cattura tutti gli ospiti, anche i più scalcinati di essi, è tutta melassa della quale non va sprecata nemmeno una goccia. La dolcezza, dicono, può più della rude chiarezza del due più due fa quattro, ma quando, come fa lei, qualcuno ti solfeggia nell’orecchio quello che ti piace ascoltare, non c’è  cruda verità che possa avere il sopravvento.

Soavità! … un nome d’altri tempi e ormai, mi sembra, completamente in disuso. Però se si guarda un poco al passato ! Già! … Al passato!….  Troviamo figure soavi: E quanta poesia all’insegna ella soavità!… Si riferiva, pare, alle qualità di un olfatto raffinato che nelle cucine degli amici, quando gli capitava di andarci, avrebbe dovuto pregare gli dei affinché lo facessero  tutto naso in modo che non gli sfuggisse nessuno dei deliziosi profumi dei cibi in cottura. Soavità dappertutto. Non hai bisogno di cercare molto. Piante fiori … Dante, te lo ricordi? Ti devi ricordare Dante, tutto soavità nel purgatorio: “Così da quella imagine divina, / per farmi chiara la mia corta vista, / data mi fu soave medicina” (Purg.); e  Saba: “Io della morte / non desiderio provai, / ma vergogna / di non averla ancora unica eletta, / / d’amare più di lei io qualche cosa / che sulla superficie della terra / si muove, e illude col soave viso”; e, spigolando in un territorio abbondante: “Che pensieri soavi, / che speranze, che cori o Silvia mia!”; “Un’aura dolce, sanza mutamento / avere in sé, mi feria per la fronte / non di più colpo che soave vento” (Purg.).

A gara, gli esempi costituirebbero, per varie inflessioni di significato e modulazioni di pronuncia o lettura, un ricco dossier, un’antologia di passi memorabili che tutti concorrerebbero a disegnare, a comporre, un’aura di serenità, di gentilezza, di tenue avvertimento delle cose. E avremmo figure che, oggi svanenti e affidate  a una memoria visiva o alla descrizione in qualche romanzo ottocentesco, ridisegnerebbero in noi, almeno in parte, tipi e figure non più troppo afferrabili. Per esempio il gradevole manichino della soave lettrice: lo sfondo un giardino, il vestimento gonne lunghe fino ai piedi imitanti remote cupole, libro aperto  – forse fermo – a chi sa quale pagina, occhio che mostra di seguire la scrittura e si sforza di cogliere il momento in cui davanti agli occhi della predetta fanciulla si materializzerà l’immagine di un fidanzato o spasimante, o eletto giovine, … La soave lettrice non leggerebbe putacaso, sola o – gli dei ci assistano – in compagnia di un parente giovine e mica male … Forse avremmo un patatrac tipo “Quel giorno più non vi leggemmo avante” di cui si è presa la responsabilità storica e poetica un signore in lucco e dal naso ad attaccapanni. Ed era uno che di soavità varie sembra che se ne intendesse. Anche se il naso, durante il passaggio attraverso l’inferno, che aveva potuto visitare e attraversare per l’intercessione della sua donna, gli aveva riservato pure la sgradevole esperienza della assoluta mancanza di soavità nel puzzo che saliva verso la superficie del baratro infernale con provenienza varia e in ispecie dal condominio abitato sia da Manto, “sozza e scapigliata fante”, sia da Alessio Interminelli e altra umaneria poco odorosa e forse totalmente ignara di una scienza dei soavi odori.

Si ha bisogno d’aria fresca e qui, per le  raffigurazioni  ricordate di sfuggita non propiziano situazioni poco attraenti. Certo: che differenza c’è tra le nostre discariche e le varie esperienze di un lungo passato? Sono, le une e le altre, tutte a cielo aperto, come le si definisce. Ma forse il cielo, non sopportando i miasmi che gli vengono offerti come unica forma di alimentazione dalla terra, un giorno si alzerà verso regioni più lontane dal nostro mondo infetto e ci negherà quel tanto di soave finora concesso e grazie al quale possiamo, benché sempre in condizioni di precaria sopravvivenza, respirare. Ma abbiamo un’autentica esperienza di qualche forma di soavità? Meglio dimenticarsene del tutto e – sciocchi che siamo! – sperare in tempi migliori. E intanto ripetersi, con Paul Verlaine, una canzone saggia, piena di buoni propositi da attaccare come francobolli sulle buste di lettere che non spediremo più …  per non inquinare: ”Elle [la voce della coscienza?] est en peine et de passage / L’âme qui souffre sans  colère / Et comme sa morale  est claire! … / Ecoutez la chanson bien sage”.

Questa voce è stata pubblicata in Letteratura e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *