Oltremare.  È il momento di lasciarlo, questo Salento!

di Paolo Vincenti

Outremer era il nome che i primi Crociati diedero al regno di Gerusalemme, la Terra Santa: destinazione finale, agognata mèta per tanti giovani che, dalle nostre coste, si imbarcavano non già o non solo alla volta di un luogo fisico, ma più che altro alla ricerca del proprio destino, della propria fortuna. Con questo nome venivano indicate nel Medioevo quelle terre del vicino Oriente che rappresentavano, nella fantasia degli artisti e dei sognatori, nella brama di ricchezza dei mercanti e degli affaristi, un favoloso altrove, un “oltre”, di là dal mare, dove tutto era possibile, realizzabile, una nuova terra promessa vagheggiata da cavalieri, religiosi, derelitti, ciarlatani, filosofi e poeti.

Outremer è dunque il sogno, il desiderio di fuga, l’ansia, l’aspirazione. Oltremare, “overseas”,  è l’anelito di libertà che agita i cuori tormentati, che scioglie il torpore, che smuove quell’inerzia in cui a volte si è precipitati  dalla noia, dalla disperazione, da un incidente dei tanti che la vita può riservare.  Oltremare è un colore: un blu intenso che prende il nome proprio da quei territori del vicino Oriente da cui venivano importate le pietre preziose come il lapislazzulo, dal quale deriva questa gradazione di blu. Oltremare è l’anelito, il desiderio di partire per rotte che nessun comandante ha tracciato, per traguardi che nessun equipaggio sa indicare o soltanto immaginare.

Noi sappiamo solo,  come il protagonista de La linea d’Ombra di Conrad, che bisogna salpare, che, quando è il momento, zaino in spalla e coraggio nel cuore, non si può indugiare, ma bisogna partire, “perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno”, dice George Gray, uno dei morti sulla collina di Spoon River, “l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti./E adesso so che bisogna alzare le vele /e prendere i venti del destino, /dovunque spingano la barca./ Dare un senso alla vita può condurre a follia / ma una vita senza senso è la tortura /dell’inquietudine e del vano desiderio/ è una barca che anela al mare eppure lo teme”.

Ché, da sempre, viaggiare  non è solo andar per mare, esplorare il mondo, ma è soprattutto esplorare il proprio animo, conoscere sé stessi. Come dice Kavafis in “Itaca”,  “I Lestrigoni e i Ciclopi /o la furia di Nettuno non temere, non sarà questo il genere d’incontri /se il pensiero resta alto e il sentimento /fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo.”: Itaca non è solo la mèta del viaggio ma è il viaggio stesso, è il pensiero che cammina e si perfeziona strada facendo.

Il viaggio è ragione di vita per Ulisse che attraverso le insidie tese da Nettuno cerca la sua isola pietrosa e materna e compie così un percorso di purificazione attraverso le mille prove che deve affrontare. Ma l’eroe omerico diviene per Dante uomo astuto e intraprendente, il simbolo stesso dell’uomo moderno, mosso da inestinguibile curiosità verso il mondo e le cose, riscatto dalla condizione di brutalità e spinta verso la virtù e la conoscenza. Dal prode Odisseo fino a noi, quella spinta è forte in colui che “al largo sospinge ancora il non domato spirito”, come dice Saba nella poesia intitolata proprio “Ulisse”.

Varcare i limiti, insomma, superare quella fatidica soglia delle Colonne d’Ercole, per sapere cosa c’è al di là del mare, nell’oltremare.  E non farsi vincere dalle tempeste, non farsi abbattere dalle avversità che certamente si incontreranno nel viaggio ma anzi, dopo un naufragio, trovare la forza di ripartire, proprio come nella poesia di Ungaretti: “E subito riprende / il viaggio / come / dopo il naufragio / un superstite / lupo di mare.”

Il mare è inconscio, arcano mistero, Il mare è sintesi perfetta fra quiete e movimento, stasi e azione, desiderio e paura, ragione e sentimento. Il mare è  traversia, spirito di avventura, sfida con sé stessi prima ancora che con la sua eminenza blu.  Non sappiamo cosa ci aspetta domani, quali sorprese ci riserva il nostro cammino, ma la bellezza della vita è proprio questa, è questa la seduzione del nostro misterioso destino.

Partire, lasciare questo Salento è decisione sofferta, dolorosa, è un salto nel vuoto, spina nel fianco, dubbio tormentoso, notte dell’Innominato, travaglio di pene. Ma è scelta da farsi, urgente, improcrastinabile, inevitabile. Perché troppo si è scritto, troppo si è detto, e chi è abituato a cantare solo, alla lunga prova disagio, non ce la fa più, a cantare nel coro.

Oltre il mare, forse, c’è soltanto il mare, ma l’importante è viaggiare. E’ venuto il momento di lasciarlo, questo Salento!  Buon viaggio a tutti!

(2014)

 

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