Il Salento nella storia e nel tempo: l’ulivo e la croce

 

di Augusto Benemeglio

L’ Ulivo è presente sia nel Corano che nella Bibbia, è la luce che illumina i profeti, l’ulivo è Gesù nell’orto che suda sangue prima del sacrificio estremo di sé stesso per la redenzione dell’Umanità . E  Cristo, con la sua croce, non è arrivato per l’umanità intera – scriveva Paul Valery,  con impertinenza, – ma solo per il Mediterraneo, per i popoli del Mediterraneo , giacché si fermò a consumare pane e vino. Se Cristo avesse voluto tè e riso  sarebbe stato cinese”.

L’ulivo è uno degli emblemi del Salento, in particolare, e delle campagne meridionali in genere. E uno dei più orrendi e sfrontati delitti di mafia era, un tempo, la distruzione di uliveti: li segavano di notte, per rappresaglia e per avvertimento. “E’ un delitto – scrive Guido Ceronetti – che, se si avesse un’idea giusta del rapporto uomo-terra-ulivo-cielo, dovrebbe essere spietatamente punito con la morte. Sappi, uomo vile, che per un ulivo tagliato cadrà la tua testa. Divina legge, la legge che parlasse di questo linguaggio forte”. Nell’Attica l’ulivo era sacro ad Atena, anzi l’ulivo era Atena. Niente di più degno, nel momento grave in cui gli alberi prendono congedo dalla terra, di quel coro dell’”Edipo a Colono”, congedo del vecchio immenso Sofocle dalla vecchiaia e dall’Attica, dove si canta  la vegetazione che fiorisce alle porte di Atene. E’ l’incantato inno all’ulivo di Sofocle, all’ulivo che protegge la città dalla distruzione: “…una pianta di cui non so se mai ne sia nata l’uguale, in terra d’Asia o nella grande isola dorica di Pelope, una pianta indomabile, che si rifà da sola… l’ulivo dalle foglie cerulee, che nutre i nostri figli, l’albero che nessuno, né giovane né vecchio, può brutalmente distruggere o saccheggiare”. Custodi dell’ulivo, – dice Sofocle -, sono Zeus e Atena, i cui sguardi non l’abbandonano”. In realtà, da molto tempo lo hanno abbandonato, e i nostri ulivi non rinascono il giorno dopo, come quelli dell’Eretteion bruciato dai persiani. Li avvolge la via mortis nei suoi lenti giri.

L’ulivo, finché vivrà, nutrirà. Ma senza interdetto sacro, senza quegli occhi nascosti che vigilano, è nelle mani di qualsiasi distruttore della bellezza. E i poeti nulla possono fare, se non scrivere versi.  “Nulla si edifica sulla pietra, tutto sulla sabbia, ma noi dobbiamo edificare come se la sabbia fosse pietra”, scrive  Borges e si commuove per il destino dell’uomo sperduto nell’irrealtà dell’universo. Nel mar glaciale della negatività che ci circonda, ci dice che non abbiamo altro salvagente che la fede nella capacità di operare; fede che deve essere di tutti: nel lavoro e nell’arte, nel piccolo o grande compito che ci è stato assegnato. Null’altro che questa umile e severa accettazione della vita è l’esemplare e visibile messaggio del razionalista guru argentino. Solo in tale accettazione è celato l’entusiasmo per nullificare i ceppi della nostra inspiegabile condizione umana.

In noi mediterranei, – scrive Barra – eredi della Magna Grecia si sono radicate antiche storie cariche di mito e di mistero e ce le portiamo nel sangue. Noi salentini, abitanti dei luoghi che furono l’infanzia del mondo, abbiamo il sacro dovere di difendere e salvaguardare con ogni mezzo gli Ulivi saraceni dai tronchi monumentali, che sono colture uniche al mondo.  Ma, talora, sembra che essi stessi, gli ulivi, disperino. Li avete visti con le loro punte accartocciate, disposte in modo tale che pare si annodino? e tutto il Salento altro non sembra se non immenso nodo gordiano, che non riusciamo a sciogliere. Qui, da secoli, nessun problema trova una soluzione possibile. Nessuno di noi riesce a sciogliere questo nodo gordiano; tutti, prima o poi, desistiamo, oppure  lo tagliamo, questo nodo, con infiniti danni. Cerchiamo di risolvere con il sentimento, problemi della mente, e lo facciamo per stanchezza di pensare, per paura di trarre conclusioni, per la necessità assurda di trovare sostegno, contributi, lasciti, per l’impulso gregario di ritornare in mani di “altri”, che dirigano essi il nostro destino e la nostra vita così come ci viene offerta, dicendo a noi stessi: poiché non si possono mai conoscere tutti gli elementi di un problema, tale problema non può essere risolto. Mettiamoci l’anima in pace. Torniamo alle nostri croci in attesa che qualcuno venga a schiodarci.

Roma, 14 maggio 2018

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *