Scrivere e non scrivere. Su un libro di Claudio Giunta

di Walter Nardon

Nell’arco degli ultimi vent’anni il gesto di scrivere, da attività seria e fin troppo impostata, sembra essersi trasformato in qualcosa di quotidiano e di irriflesso, una necessità da risolvere senza troppa attenzione, come quella che si dedicava a un oggetto ormai scomparso: il messaggio lasciato su un foglietto per avvertire che si è usciti. Per quanto lunga sia la storia della scrittura privata, è difficile credere che in altre stagioni sia riuscita a raggiungere un volume pari a quello che oggi fa registrare ogni giorno sui dispositivi elettronici. Così anche gesti che un tempo richiedevano un rituale lento, come la stesura di una lettera, sono stati condizionati prima dalle possibilità di correggere il testo senza lasciare traccia – proprie del programma di videoscrittura –, poi dalla velocità di trasmissione del dispositivo su cui il testo è digitato, spedito e poi letto e commentato. Insomma, lo strumento sembra ricordarci che basta scrivere, per correggere c’è sempre tempo. E, così non si è mai scritto tanto, anche se il testo ha perso stabilità e precisione: dalla sintassi rilassata delle e-mail e degli sms, fino alle sintesi dei messaggi dei social network, tese a raggiungere la comprensione del destinatario nel minor tempo possibile.

Qualcuno potrebbe obiettare che l’importante è capirsi; sfortunatamente, è proprio questo il punto, perché il primato di questo argomento ha portato con sé una progressiva indifferenza al contesto in cui si scrive o si parla, e di conseguenza una sottile, ma insidiosa, incomprensione di fondo. Trascurando gli elementi che distinguono un contesto dall’altro, molti tendono a parlare e a scrivere con l’interlocutore usando sempre lo stesso registro, che si tratti di un automobilista, di un avvocato o del giudice che dovrebbe valutare l’entità della controversia, e magari della nostra pena. La facilità con cui si comunica a distanza, si scrive e ci si corregge, induce a essere meno responsabili della forma in cui lo si fa, anzi a non considerarla mai una forma definitiva (anche nella scrittura letteraria, c’è ben poco da esortare allo studio delle varianti). Di conseguenza, la scrittura è diventata un’attività quotidiana in cui tutti si impegnano molto più di quanto non accadesse vent’anni fa, ma un’attività in cui tutti si impegnano poco.

Il libro di Claudio Giunta Come non scrivere. Consigli ed esempi da seguire, trappole e scemenze da evitare quando si scrive in italiano (UTET, 2018), al di là del titolo, che rimanda con eccesso di umiltà al genere dei manuali di bricolage letterario, contribuisce alla riflessione odierna sulla scrittura e risulta legato al manuale di letteratura per le scuole medie superiori che Giunta ha curato da poco, Cuori intelligenti. Mille anni di letteratura (Garzanti scuola, 2016). In effetti, il primo elemento su cui Giunta si sofferma è proprio l’impegno dedicato alla scrittura. Delle tre leggi che propone come norma da seguire a chi vuol scrivere, la prima prende il nome da una risposta data da Bjorn Borg a una domanda di Roberto Gervaso circa la differenza nella mole di impegno richiesta da un set con Lendl o uno con McEnroe: «Mi impegna tutto, anche un set con mio nonno» (p. 14). Dunque bisogna impegnarsi, sempre. Le altre due leggi rimandano alla raccomandazione di scrivere partendo da ciò che si sa (il motto di Catone il Censore) e di dire le cose senza indugiare in abbellimenti inutili (una battuta di Silvio Dante, personaggio della serie tv I Soprano).

Nato da una serie di lezioni che formavano un corso libero e gratuito per gli studenti di Lettere dell’Università di Trento – tenuto di proposito il sabato mattina, per scoraggiare i pigri – il libro conserva lo sviluppo brillante e colloquiale di altri libri di Giunta, e si fonda sulla sua indiscussa preparazione storico-filologica.

Nel contesto di cui si diceva, Giunta individua i suoi bersagli da una parte nella sciatteria propria di una scrittura privata ed emotiva, dall’altra in una tendenza tipica della tradizione italiana scritta, favorita da uno specifico orientamento scolastico e dall’ambizione letteraria del bello scrivere: quella dell’antiparlato.

Se per contrastare il primo vizio Giunta offre al lettore una messe di suggerimenti razionali per i quali il libro rivela un’evidente funzione civile, contro il secondo mette in campo un’opinione molto articolata su quella che in un famoso articolo del 1965 Italo Calvino aveva definito antilingua, ossia la presunta eleganza dello scrivere oscuro e difficile. A questo riguardo, Giunta cita passi di testi autorevoli rivolti contro lo stesso bersaglio polemico, ed esemplari per quanto riguarda la tendenza opposta, incline alla trasparenza della lingua e alla chiarezza: da Calvino a Primo Levi, all’ironia di Savinio sulla tendenza di una domestica a far indossare alle sua espressioni il vestito della festa, a Meneghello, che ricorda le lezioni sulla tradizione aulica della lirica italiana, per tacere di Fruttero e Lucentini, presenti in più luoghi del libro e quasi numi tutelari del buon senso stilistico. L’argomentazione si fa ancor più stringente quando Giunta condanna il vizio, tipico di tanti insegnanti, di sostenere che il bello scrivere è frutto di una sorta di distinzione lessicale, per cui l’espressione meno usata e più nobile risulta sempre quella da preferire.

È una tendenza che viene da lontano. Con l’ausilio della Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De Mauro, Giunta ricorda che la battaglia contro «“l’uso esclusivo del dialetto parve possibile soltanto a un prezzo: quello di imporre agli allievi di rifuggire sistematicamente da ogni elemento lessicale e da ogni modulo sintattico usato nel linguaggio parlato […] Conseguenza: L’antiparlato, o meglio il parlare ‘come un libro stampato’ è stato l’ideale linguistico più diffuso nella scuola media”» (p. 47). Una parte di storia del nostro paese dipende indubbiamente da queste scelte.

La tendenza non ha smesso di raccogliere consensi, anzi, sembra tanto viva da aver generato per contrasto l’eccesso opposto, l’incoraggiamento scolastico dei docenti al trionfo della semplicità e della paratassi, così appassionato da favorire la scrittura di testi in cui i ragazzi sembrano procedere per accumulo elencatorio. Gli esempi davvero non mancano.

La tradizione del bello scrivere, così resistente alla razionalità cui Giunta si affida, mi ha però suscitato due riflessioni su ciò che in Italia si fa con la lingua, più che su quanto con questa si dice.

La prima è questa. Che gli italiani abbiano un costume è una questione sempre aperta, e Giunta ricorda a ragione il formidabile Discorso di Leopardi in materia (che spesso si dimostra citato, ma poco letto). Ad ogni modo, posto che un costume ci sia, certo non mancano gli esempi negativi. Uno dei più noti è il «Lei non sa chi sono io», ossia l’abitudine dell’interlocutore di interrompere una discussione facendo riferimento a un presunto prestigio sociale che dovrebbe risolvere magicamente la controversia, al di là di ogni rapporto logico fra le proposizioni cui ci si dovrebbe invece attenere. L’Italia, si dice, è la patria di questo atteggiamento a metà strada fra la presunzione e la protervia, e di una lingua che invece che unire divide, come il vecchio e non più citabile latinorum. Non c’è alcun dubbio che questa sia una posizione da condannare: se non se la può giocare, l’italiano tende – o almeno tendeva – spesso alla supercazzola, ad ammantare il proprio discorso di nonsense altisonanti, pur di ingannare l’avversario. Tuttavia, arrivati a questo punto, a mio avviso ci si trova davanti a una svolta inattesa, a un salto di livello, perché il ricorso al «Lei non sa chi sono io» talvolta sembra dipendere – e questo può suscitare un po’ di pena – dalla singolare frequenza con cui questo tipo umano incontra un’altra maschera del nostro costume, quella del Marchese del Grillo. Dunque, «Lei non sa chi sono io» incontra «Io so’ io, e voi non siete un cazzo»: è l’incontro di due opposti cinismi, quello che non si sente mai riconosciuto si imbatte in chi per principio non riconosce mai nessuno. Ne nasce un imperdibile dialogo fra sordi, ma con una chiara evidenza rispetto a chi dei due può dire all’altro: «La realtà è questa, fattene una ragione», ossia al secondo tipo umano. Cosa resta, dunque, al primo tipo, quando parla e scrive, se non il ricorso a una lingua che più che nominare razionalmente gli oggetti rappresenti espressivamente qualcosa di sé?

Passo alla seconda riflessione. Il libro di Giunta è rivolto soprattutto alla scrittura saggistica, quella di chi si trova a esprimere un’opinione. Le raccomandazioni sono utili, perché si tratta di una scrittura che in questa stagione è dilagata al punto da diventare un modello anche per la narrativa (reportage narrativo, saggio autobiografico, non-fiction novel, autofiction). Giunta fornisce buoni esempi, e soprattutto cattivi esempi, che corregge e riscrive. Devo però dire che, personalmente, procedendo nella lettura, ho avvertito crescere un’esigenza viva non solo di quel che nel libro c’è – che è tanto e vale senz’altro l’acquisto – ma di ciò di cui il libro, legittimamente, parla meno. Per descriverla, non posso che metterla in questo modo.

Quando ero ragazzo, nelle incredibilmente assolate (per me) estati degli anni Ottanta, accompagnavo mio padre nei cantieri edili della mia provincia. L’immagine del posatore accovacciato davanti a un muretto che, osservando la lastra che sta per posare, dice «Acqua!» o «Lastre!» senza girare la testa, ma intendendo parlare al giovane aiutante, per me è una delle più familiari, perciò quando anni dopo l’ho ritrovata nel secondo paragrafo delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein mi è tornata in mente un’intera stagione. Come è noto, il riferimento a quell’immagine nel libro è utile per chiarire un particolare uso della lingua, uno dei tanti possibili, diverso da quello della nominazione. Con l’esclamazione il posatore infatti non dà nome a una cosa, ma esprime un’esigenza e ordina (senza uso di verbi, o di gestualità accessoria) al ragazzo che è con lui di eseguire un’azione. Sarà poi il ragazzo, davanti al mucchio di lastre, a nominare gli oggetti. In questo caso le parole non valgono per la loro rappresentazione, ma per ciò che fanno fare. Nei vari linguaggi, i vari «giochi linguistici» (espressione oggi abusata) che il libro affronta, entra in campo un’evidenza diversa da quella della nominazione, e direi da quella dell’espressione razionale di un’opinione. Si stringono rapporti diversi fra parole e cose.

Abbandonando la scrittura saggistica, mi sembra che alcune raccomandazioni di Giunta suonino meno perentorie. Raccontando una storia, ossia impegnandosi in un altro uso della lingua, fra autore e lettore si ridefiniscono di volta in volta le regole del gioco. Ciò che tiene legati i due interlocutori non dipende tanto dalla trasparenza della lingua, ma dal vincolo e dal valore della posta in gioco – ciò che l’autore promette e che il lettore spera di ottenere –, che rivelano in fondo un carattere teatrale e affettivo, un po’ come il legame fra il posatore e l’apprendista: è questo che fa funzionare il gioco. Il lettore può seguire una voce narrante eccessiva, inaffidabile e barocca, purché abbia ritmo e soprattutto qualcosa da dire. Perciò, limitatamente alla finzione letteraria, se Borg ha sempre ragione, non è detto che ce l’abbia anche Silvio Dante; o almeno, c’è modo e modo di starlo a sentire.

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