La poesia della serenità

di Gianluca Virgilio

Conosco Laura da poco meno di cinquant’anni, da quando, io bambino di otto anni e lei ragazzina di dodici, eravamo vicini di casa a Galatina. Lei veniva da Sesto San Giovanni – ma noi si diceva che venisse da Milano – e portava con sé nel Salento dei primi anni settanta una voce modulata alla maniera meneghina; ed anche i modi e le movenze del corpo non mi sembravano le nostre, sebbene non avrei saputo dire in che cosa si differenziassero; ma è certo che i luoghi in cui si è vissuto plasmano le persone.

La mia famiglia aveva instaurato con la famiglia Barone dirimpettaia un rapporto di buon vicinato; e fu così che una sera i miei genitori, anche per far felici me e mia sorella Milena, invitarono a cena la giovanissima Laura, che non si fece pregare ed anzi sembrava curiosa di conoscere i nuovi amici. Mio padre, che era nato a Milano, era contentissimo di conversare con una oriunda milanese, come se questo fatto avesse il potere di riportarlo per incanto nel luogo natale.

A tavola, io e mia sorella Milena, rispettivamente di otto e dieci anni,  non bevevamo il vino, bevanda riservata ai grandi. Ma Laura, come ho detto, aveva dodici anni, e sosteneva che lei il vino lo beveva abitualmente a tavola, e dunque se ne fece mescere da mia madre – che ricordo un po’ riluttante – mezzo bicchiere.

Molti di voi conoscono Laura e sanno bene come lei sia un’ottima conversatrice. La Laura di circa cinquant’anni fa era esattamente la stessa persona; solo che dovete immaginarla come una ragazzina esile e alta, almeno per la sua età,  dai capelli lunghi e chiari, d’un castano chiaro, come chiaro ricordo il suo incarnato.

Nella poesia Speranze moderne (p. 27), Laura ha scritto:

Alice ha smarrito la strada

e non vive più di meraviglie.

Chissà che Laura, mentre da donna adulta scriveva questi versi, non abbia pensato a se stessa quand’era dodicenne? Il riferimento al personaggio di Carroll mi ha indotto a rivedere in Alice la Laura di tanti anni fa, che raccontava le sue storie alla mia famiglia riunita intorno al tavolo del tinello.

La serata trascorreva veloce con la giovanissima Laura che raccontava e raccontava, mentre mio padre faceva notare che lei, da buona milanese, “centellinava” il vino, un sorsetto alla volta, il che di certo non le avrebbe fatto male. Alla fine della cena, infatti, Laura conservava nel bicchiere ancora qualche stilla, che avrebbe “centellinato” durante la conversazione.

Questo racconto potrebbe sembrare come un mio inutile abbandono ai ricordi d’infanzia, che solitamente son dolci solo per chi li ricorda, e non per gli altri. Ma io credo che spesso i ricordi, se sono sinceri, annuncino cose vere, che bisogna saper accogliere come fossero presagi.  Del resto, io non intendo annoiarvi con un’analisi scolastica dei testi di Laura, ma parlarvi di lei, a modo mio, cioè come amico e come lettore delle sue poesie.

Invano si cercherebbe in Germogli di sole, Milella, Lecce 2016, l’amica che ama intrattenersi a lungo con gli amici e non si stanca mai di conversare e di raccontare aneddoti e storie. Questo è soltanto un volto di Laura, quello che compare nella sua vita sociale.

Quanto sto per dire mi riporta ancora al tempo dell’infanzia, quando eravamo vicini di casa a Galatina, in Via Mazzini. Laura abitava in un appartamento al primo piano, io e mia sorella Milena in un appartamento di fronte a quello di Laura, posto su un piano rialzato, dunque un po’ più in basso rispetto al suo. Affacciandosi al balcone di casa, Laura ci lanciava degli aeroplani di carta, di quelli che si imparano a fare sin dalla scuola elementare, e questi aeroplani recavano sempre qualche messaggio, a cui noi rispondevamo. I suoi aeroplani erano ben fatti, si vedeva che Laura ne aveva curato l’aerodinamica, tant’è che essi arrivavano puntuali sul nostro balcone, spinti dalle correnti aeree, mentre i nostri non superavano mai la strada che ci divideva e cadevano giù, planando tra i passanti, per finire sotto le ruote di un’automobile in corsa. Il dislivello tra i due balconi era loro fatale. Ho detto prima che i ricordi d’infanzia annunciano spesso delle cose vere. Ora mi sembra di vedere negli aeroplani di carta che Laura ci lanciava una gran voglia di comunicare, di intrattenere un rapporto con gli altri, di non essere sola, e di comunicare con la parola scritta. Sicché mi vien da pensare che quegli aeroplani contenessero le prime poesie di Laura.

Esiste, dicevo, anche una Laura seminascosta, in realtà solo diversamente socievole, assorta, pensosa, che manda i messaggi agli amici quando questi sono lontani, come faceva con gli aeroplani, una Laura che noi abbiamo intuito tra i discorsi più disparati: colei che nel chiuso della propria stanza si cimenta con la parola poetica, perché individua in essa lo strumento migliore per esprimere il suo punto di vista sulla vita. L’elaborazione poetica richiede una profonda solitudine, più è profonda e più è proficua, ed è il prezzo da pagare per raggiungere gli altri su un altro piano dell’esistenza. Allora, noi vediamo Laura “centellinare” le parole, sceglierle una ad una, delibandole come faceva quando era ancora un’Alice che “ha perso la strada e non vive più di meraviglie”, col suo mezzo bicchiere di vino rosso che le era consentito di bere. Non più discorsi, racconti di aneddoti e di storie, ma il distillato della parola poetica, nel quale si concentra, sublimandosi,  la vita.

La poesia ci parla del tempo trascorso a partire dai giorni remoti di cui mantengo il ricordo. Cinquant’anni sono paragonabili al battito d’un ciglio, eppure ognuno di noi sa – o, almeno, i più anziani sanno –  quanto rovinosamente essi passino.

Scrive Laura in Senza futuro (p. 57):

Come si può soffrire con saggezza

nella vita che non apre porte

e sbarra alle speranze

ogni tenue vacillare dei tuoi passi?

Ciò che siamo stati lo ricorderanno altri.

Vivere è sentire, sentire è patire, sottostando sempre alla dura legge del tempo, che tutto inesorabilmente distrugge. Allora, occorre “soffrire con saggezza”, il che è compito della poesia. La poesia si incarica di descrivere nei suoi mille volti la fenomenologia della vita, del sentire, del patire; essa indica anche un interlocutore-lettore postumo, che ricorderà “ciò che siamo stati”, un po’ quello che sto facendo io questa sera.

La poesia di Laura racconta questa esperienza, che la accomuna a tutti gli uomini.  Essa non dice mai l’inimitabilità d’un vissuto, di un destino individuale, ma esprime la comunanza della sorte umana, il vivere insieme, il nostro soffrire e gioire con gli altri, amare sperare e disperare, sognare, sentimenti molto ricorrenti nella poesia di Laura.

Vorrei leggere alcuni versi e dire che cosa essi evochino in me; e giacché si parlava del tempo, ecco la poesia dal titolo Il passato non può tornare (p. 37):

Faticosi grani di rosario

ha sgranato il mio tempo

e nel passato qualcuno

ha perso il suo colore.

E ricompare così, un vecchio sorriso,

a ricordarmi dall’oblio,

come alba nascente,

che la serenità,

a volte si conquista,

solo se il cuore è assente.

Il tempo è irreversibile, i grani del rosario perdono inesorabilmente il colore, come sbiadiscono i ricordi. Ma il tempo della poesia non ha più il carattere di irreversibilità e, a dispetto di quanto dice il titolo della poesia, esso può tornare. Un “vecchio sorriso” ricompare e infonde “serenità”, scrive Laura, ponendo però subito una limitazione: “solo se il cuore è assente”. Il “cuore assente” ha cessato di battere ovvero ha cessato di sentire il dolore della vita. È infatti il cuore che scandisce il tempo della vita col suo battito. Qui tutto, s’intende, è metaforico, e tale deve rimanere. Ora, l’”assenza” del cuore paradossalmente apre il tempo reversibile della poesia, nel quale la poesia sopperisce alle sofferenze della vita. Il tempo è sospeso e l’io lirico può finalmente rivedere “un vecchio sorriso” che gli dona “serenità”. La poesia risarcisce l’uomo di ciò che la vita gli toglie ogni giorno. Il tempo solo per i poeti e per i lettori di poesia ritorna.

Quella di Laura è poesia del dolore. Parole come tormento, cruccio, patimento, dolore, sgomento, afflizione, delusione ne caratterizzano il tessuto lessicale. Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra è nella soluzione che è data al dolore, sicché noi incontriamo spesso anche parole come gioia, speranza, luce, stelle, cielo, nuvola, allegria, Germogli di sole, appunto; termini che evocano la serenità della poesia.

Su un fondo di dolore, dunque, si aprono continuamente sprazzi di serenità. Ed è su questo motivo, che vorrei concludere la mia relazione. Vorrei leggere, a p. 19, Un chicco di allegria:

Tra le pagine del passato

ho trovato un chicco d’allegria.

Dormiva quieto,

abbracciato alla mia pena,

e si è svegliato per ricordarmi

che sono nata

per essere serena.

La poesia a me piace per la sua semplicità, per il nitore delle parole cha la compongono, per la chiarezza metaforica che irradia. Essa riassume bene i termini del mondo poetico di Laura, l’allegria e la pena, che finiscono sempre per bilanciarsi. C’è il tempo passato, “un chicco d’allegria” dormiente, che la poesia si incarica di risvegliare, la pena del vivere, la serenità, per cui l’io lirico è nato. Laura sa di essere “nata per essere serena”, è inscritto nel suo destino, e questo non può dimenticarlo, neanche nei momenti di profonda afflizione; e forse l’espressione “nata per essere serena” significa proprio “nata per scrivere poesie”, perché solo la poesia rende all’uomo la “serenità” che la vita gli nega.

Questa è la conclusione a cui sono pervenuto leggendo le poesie di Laura, ovvero che esse raccontano non tanto la storia di una persona, ma il destino degli uomini, che solo la poesia può salvare.

[Presentazione di Laura Barone, Germogli di sole, Galatone, Palazzo Marchesale, 28 marzo 2018, presso l’Associazione A levante]

 

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