Perché scioperano i professori universitari

di Guglielmo Forges Davanzati

Dei problemi (numerosi) dell’Università in Italia si parla poco e, quando se ne parla, se ne parla spesso con poca cognizione di causa. Passano, così, come verità inoppugnabili il fatto che i professori universitari sono nullafacenti e strapagati; che esistono troppe sedi universitarie e che abbiamo troppi studenti universitari. Se le cose stessero così, si capirebbe bene il disinteresse o l’indignazione dell’opinione pubblica in merito allo sciopero che i docenti universitari stanno facendo, con la soppressione di un solo appello nella sessione estiva d’esami.

Ma le cose non stanno così. Questa è la narrazione dominante. I dati ci dicono altro. E sono dati presi da fonti ufficiali, quelli pubblicati, innanzitutto, dal Ministero competente (il MIUR).

1) Lo stipendio medio netto di un ricercatore di una Università italiana, con venti anni di anzianità, si aggira intorno ai 2000 euro, quasi cinque volte meno della media di un suo collega europeo. Gli scatti stipendiali sono stati bloccati nel 2011 (per tutti i dipendenti pubblici, quell’anno), ripristinati nel 2015 (per tutti i dipendenti pubblici, salvo i professori universitari). Dopo anni di inutili vertenze con il Ministero, il Movimento per la Dignità della docenza universitaria ha indetto lo sciopero. Comunicandolo quattro mesi prima del suo svolgimento.

È dunque semplicemente falsa la convinzione che i professori universitari italiani sono ricchi.

Come riportato su questo giornale lo scorso 5 giugno, i promotori locali della protesta, come – si può supporre – tutti i docenti che hanno aderito, non pensano affatto che lo sciopero sia unicamente e principalmente finalizzato ad avere uno stipendio leggermente più alto. E non pensano affatto che per avere uno stipendio più alto occorra penalizzare gli studenti. Ai quali è stato sottratto un solo appello nella sessione estiva. E tuttavia, sarebbe bene per il prosieguo individuare altre forme di lotta, che non penalizzino gli studenti, e che procurino danni diretti, visibili e consistenti a chi ha devastato l’Università italiana nel corso dell’ultimo decennio.

Le motivazioni più profonde sono altre e le vedremo. Quella del legittimo riconoscimento degli scatti stipendiali è simbolica: al di là delle tecnicalità giuridiche, il mancato riconoscimento degli scatti stipendiali ai soli docenti universitari non sembra trovare altra motivazione se non quella puramente punitiva.

2) Per quantità e qualità della ricerca scientifica, l’Università italiana continua a essere – nella gran parte dei settori disciplinari – ai primi posti nelle classifiche internazionali. Ciò nonostante una decurtazione di fondi che, a partire dal 2008-2009 (gli anni del tremontiano “con la cultura non si mangia”), ha prodotto, per la prima volta nella Storia italiana, una riduzione delle dimensioni dell’Istituzione: di un quinto. Si consideri a riguardo solo un dato: fra il 2008 e il 2016 i professori universitari sono diminuiti da quasi 63000 a meno di 49000. L’Italia ha così raggiunto il triste primato di avere i docenti universitari più vecchi d’Europa. Le tasse universitarie sono aumentate del ben 60% dal 2005 al 2015. Molti corsi di laurea sono stati chiusi ed è già in atto un ampliamento dei divari regionali anche nel settore della formazione: in un contesto di de-finanziamento complessivo, la posizione relativa di molte Università del Nord migliora.

È dunque semplicemente falso che i professori universitari italiani sono improduttivi. Ed è ancora più falso se si considera che lavorano sostanzialmente in assenza di fondi per la ricerca. L’acquisto di libri, l’abbonamento a riviste scientifiche, la partecipazione a Convegni (nei quali presentano i risultati delle loro ricerche e apprendono e discutono i risultati di ricerche di colleghi) è interamente a carico dello stipendio.

3) È anche falsa la tesi per la quale in Italia abbiamo troppe sedi universitarie e troppi studenti universitari. La commissione europea – strategia 2020 – ha sollecitato i Paesi membri dell’Eurozona a portare la quota di giovani in età compresa fra i 30 e i 34 anni in possesso di laurea al 40%. L’Italia è al 26%, insieme alla Romania. La percentuale più bassa fra i 28 Stati membri.  Si potrebbe continuare.

Perché tutto ciò è un problema anche e soprattutto per gli studenti e le loro famiglie? È verosimile immaginare che nella percezione diffusa un professore universitario ha il solo compito di fare didattica e di seguire Tesi di laurea. È chiaramente una percezione che non corrisponde al vero. I docenti universitari sono impegnati almeno su quattro fronti: didattica, ricerca, impegni istituzionali, c.d. terza missione. Gli impegni istituzionali riguardano l’assunzione di incarichi (a titolo gratuito) per attività che attengono alla gestione dell’Istituzione: fra questi, presidenza di corsi di laurea, direzione di Dipartimento, coordinamento di Dottorati di ricerca. La c.d. terza missione attiene ai rapporti con il territorio: a titolo esemplificativo, lezioni nelle scuole superiori, anche in questo caso a titolo gratuito.

Si tratta di attività che sono soggette a valutazioni periodiche da parte del Ministero, attraverso l’Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca (ANVUR).

Il punto essenziale che legittima lo sciopero riguarda la necessaria e comunque auspicabile saldatura fra ricerca e didattica. Nelle condizioni date, e soprattutto nelle sedi meridionali, fare ricerca di buona qualità (che significa appunto avere accesso a ricerche prodotte in altre sedi, soprattutto internazionali) è sostanzialmente impossibile, data l’assenza di fondi e appunto il blocco degli stipendi. Bene ripetere che, per quanto possa sembrare inverosimile per chi non lavora in Università, l’acquisto di un libro o l’abbonamento a una rivista scientifica è un lusso. Ciò ha ripercussioni immediate ed evidenti sulla qualità della didattica, giacché ricerca scientifica di bassa qualità produce didattica di bassa qualità. A ciò si aggiunge l’estrema difficoltà – per stringenti vincoli di bilancio, niente affatto necessari – di reclutare giovani ricercatori, in una condizione, peraltro, nella quale è possibile reclutare solo con contratti a tempo determinato, ovvero in condizioni di precarietà. La ricerca scientifica, per definizione, ha tempi lunghi. Un ricercatore precario, per definizione, non può fare ricerca se non – per legittimi obiettivi di carriera – fare ricerca nella forma del pubblicare quanto più possibile, nei tempi più brevi (quello che gli statunitensi chiamano il publish or perish). Cioè irrobustire il suo curriculum, senza ricadute apprezzabili sull’avanzamento della conoscenza scientifica.

Gli studenti e le loro famiglie dovrebbero essere consapevoli che, nelle condizioni date, si studia e si studierà sempre peggio, che la laurea darà sempre minori opportunità di accesso al mercato del lavoro, che – in un Paese che è stato giustamente definito “non per giovani” – il futuro delle giovani generazioni, almeno per quella parte che è motivata allo studio, è l’emigrazione. E che anche emigrando non si è affatto certi di trovare un lavoro coerente con la qualifica acquisita (non sono affatto infrequenti casi di giovani laureati assunti come camerieri in altri Paesi europei) anche perché, nella competizione globale, le Università italiane – viste dall’estero – perdono costantemente reputazione. Si tratta di fenomeni che già stiamo sperimentando, da anni, con intensità crescente.

Non si riduca dunque lo sciopero dei professori a una mera rivendicazione corporativa. È ormai evidente che le politiche formative in Italia sono calibrate sulla base della domanda di lavoro espressa dalle imprese italiane. Ed è evidente che, in questa logica, le Università meridionali vengono penalizzate dal momento che le imprese meridionali – di piccole dimensioni, poco innovative – non hanno bisogno né di forza-lavoro qualificata né di ricerca di base e applicata. Non si spiegherebbe diversamente la scelta di ridurre la spesa pubblica, in regime di austerità, con la massima intensità proprio nel settore della formazione e nell’area del Paese che maggiormente soffre la recessione in corso. E non si spiegherebbero le numerose dichiarazioni di autorevoli responsabili delle politiche per la formazione che vanno nella direzione di distinguere sedi research e teaching, dove nelle seconde si fa esclusivamente didattica.

Il problema è che questa linea non viene pubblicamente discussa. La si ritrova nelle dichiarazioni di autorevoli esponenti dell’ANVUR  e di economisti vicini al Ministero. Uno dei quali, in un convegno sullo stato dell’Università italiana, ha recentemente proposto di chiudere per legge tutti i corsi di laurea in Giurisprudenza e Medicina al Sud.

In queste condizioni, il nuovo Governo chiarisca finalmente, al di là dei tecnicismi dell’ANVUR, qual è la sua linea politica nel settore della formazione: se intende progressivamente smantellarlo, privatizzarlo, spostarlo quasi interamente al Nord, in continuità con i precedenti governi, o se è disponibile a far marcia indietro rispetto alle devastanti politiche dell’ultimo decennio.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di mercoledì 6 giugno 2018]

 

 

 

 

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