Claudia Ruggeri, la Beatrice del Salento

di Augusto Benemeglio

1. Ci sono foglie così stanche…

Ma l’avete vista bene Claudia Ruggeri, questa Beatrice da inferno minore, questa lamentatrice notturna, questa poeta maledetta salentina che canta i suoi versi non con l’arpa o la cetra, ma con la virile spada  e il  fragile cristallo dei vetri infranti:  “cavami  da le piume gli insulti lo sfrenìo / la velocità indifferenziata che era danza / o salto, che ormai non muove semplicemente / mi rende probabile”.

L’avete vista mentre scioglie il suo canto, con quei versi  pazzi, che stridono sulle rotaie di un treno  facendo scintille, versi farfalle colorate, senza misura e senza schemi, senza vere ali, versi che non sanno volare, né rimanere in terra, versi dannatamente barocchi, seppur nuovi, diversi, folgoranti, improbabili,  che ti arrivano come una dissonanza di schonberghiana memoria, o lo smembramento di un pensiero,  o un frammento di vicenda fantasmica,  e che tuttavia ti affascinano,  t’ammaliano, s’inarcano  come un cavallo imbizzarrito, o una chitarra di vento curvo che t’imprigiona nella sua spirale di sensi? L’avete vista quando alza le braccia come ali bianche di un gabbiano in riposo, e si mette poi le mani sul capo per un posa verso l’eterno? L’avete  vista questa dea  splendida e nera che consuma ogni giorno il mondo con la sua presenza, come se fosse l’ultimo giorno. Avete  visto le sue lacrime versate per le strade di Alessano, dove rincorreva l’ombra di don Tonino Bello,  il magnifico guerriero della pace?, l’avete vista, la “nostra”  Claudia  mentre  sale già una scala, su su, verso il cielo?

Claudia è qui, tra noi, e domani è ancora il suo avvenire.  Si è solo sparsa un po’ come fanno le stelle nel cosmo, o la sabbia nel mare, o i raggi di un sole bellissimo e nero. Nero come il  suo colore preferito e il perire delle cose, il loro precipitare nella precarietà, e nel  nulla.  Ma lei , ripeto, sta qui tra noi, invisibile, in attesa, sul ciglio della strada di via…, a Lecce, nascosta sugli alberi dove  “Ci sono foglie / Così stanche di essere foglie /Che sono cadute”.

Granelli di polvere, qualche fiore disseccato  nei vasi, e poi il vuoto, il vuoto. Buco nero. Dicono gli ultimi testimoni che era  una ragazza perennemente pallida, dai capelli scuri, dagli strani occhi radiosi, che emanavano uno sguardo di misteriosa freddezza. Amava la ragione geometrica, era affascinata dalle tenebre, dai misteri e dai trucchi che si oppongono alla ragione,  giocava con queste tenebre e questi misteri, con gli orditi segreti della sua mente. Era pallidissima, la voce estremamente debole, quasi un sussurro. Aveva compreso che davanti a lei non c’erano più libri da scrivere e da leggere.

Tutta la sua vita era stata dominata dalla passione della poesia, una forza tremenda che diventa un destino contro il quale non è possibile porre rimedio alcuno. Aveva sempre una profondissima insoddisfazione di sé, di come era lei e della sua poesia pazza,  fatta – scrive Stefano Donno – di  “scheletri, frammenti, embrioni di altre poetiche nelle quali si aggirava inquieta e irrisolta la  sua voce in un abuso ubriacante di arcaismi, di poeticismi, di imperfetti metricismi… poesia ardua, nella lingua e nelle figure, ambiziosa, quando non pretenziosa, impelagata nelle inattuali evocazioni del Mito, ma per questo singolare e degna di recupero”. Era insoddisfatta del mondo che la circondava, e aveva un istinto di autodistruzione tragico, un desiderio di fuga,  da tutto e tutti, soprattutto da se stessa.

 

2. Poteva essere salvata

Lo stesso Donno dice  che poteva essere salvata, dice che a Lecce c’è gente che poteva salvarla, sostiene che ci sono persone che hanno avuto grosse responsabilità circa la  sua morte, ma che non l’ammetteranno mai. Ma non è così. Claudia era candida, stupita, orgogliosa, eroica, piena di un’immaginazione ardente  e romanzesca, aveva tutto per amare la vita, invece amava l’abisso, era come una cieca errante, una pellegrina abbandonata sulle rive di un desolato naufragio (il naufragio era la sua vita). Aveva l’anima pura di una colomba angelica, era una creatura celestiale, che si era incarnata sulla terra, ma non sapeva viverci. Era inadatta a vivere fra di noi. E lo dice lei stessa: La mia caduta è  un esilio in altri cieli, in altre vite: “Dedico a Te questa morte / padula – ché sei l’Arteficiere – ; impiegane / la festa, se pure alza l’Avverso, lo cattura”.

Chi è puro muore giovane. La morte giovane è segno di elezione spirituale. È così che vogliono gli dei. Ed è così, Claudia, che tu  sopravvivi  all’eterno, al di là di un’altra Maria Corti che venga a scoprirti come  altro “poeta maudit” salentino, con quel volo folle, quel gesto definitivo, irrevocabile, già scritto nel libro del tuo destino, quel volo senza ultima parola dell’Angelo di Dio,  senza suoni. Ma solo silenzio. Il silenzio che ascolta il silenzio. È l’una è trenta di notte, il giorno 29 novembre 1993, e  ti lanci nel vuoto dal balcone di casa tua : … e volli / il “folle volo” cieca sicura tutta / Volli la fine delle streghe volli // Il chiarore di chi ha gettato gli arnesi / Di memoria di chi sfilò il suo manto / poggiò per sempre il Libro…”.

È qui quel tuo Libro poggiato per sempre, è un libro di un tempo puro, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri  e di ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine, un tempo perduto che solo l’arte riesce, talvolta, a ritrovare.  Sei tu, Claudia, che talora mi chiami non so da dove, e mi dici, Ricordati che dopo la morte ci sarò. Sono così sicura che ci sarò, dillo a mia madre, ai miei amici. Potrete  leggermi nei vostri occhi, nei vostri pensieri,  nel vostro cuore, perché il mio nome non muore, il mio nome di sposa barocca salentina, il mio nome è per sempre nel libro, e la morte è l’apoteosi di quel nome.  Tu sai che la parte femminile dell’uomo è il sonno, e cos’è  la morte se non un sonno più lungo, diverso? Ogni dimora è il luogo prediletto del riposo, lo spazio è compagno del sole, il sogno delle nuvole. La mia preghiera è quella del granello di polvere alla montagna, della goccia d’acqua all’Oceano, del soffio di fuoco al sole. Io sono l’onda che si rinnova e la schiuma ,  il sale ,  l’aurora  e il crepuscolo. Ricorda tutto ciò. Ma al centro di ogni meditazione c’è il mare, con le sue minacce e le sue manette, il mare che ti conduce nelle sue prigioni nelle notti d’estate, il mare di tutte le avventure, di tutti i destini.

 

3. Claudia a Gallipoli

E un sabato pomeriggio, Claudia venne a Gallipoli e vide il mare, il mare pioveva dolcemente dalla serra di Nardò, poi lo vide come pozza ai piedi del Rivellino, e dietro la torre del castello angioino dove Albertazzi aveva fatto Jacopo da Lentini nello spettacolo di Federico II litigando con gli spettatori  che lo spernacchiavano dalla piazza delle barche dei pescatori (Amore è uno desi[o] che ven da’ core/per abondanza di gran piacimento;/e li occhi in prima genera[n] l’amore/e lo core li dà nutricamento), rivide quel mare con le barche colorate, quel mare di cartolina, spaziò con quel suo sguardo che sapeva andare lontano, lontano, oltre Santa Maria al Bagno, Santa Caterina, Porto Cesareo. E disse, Questo è il mio mare. Ma lo disse a se stessa. Non avvertì nessuno. Si distese sulla spiaggia e ascoltò scorrere la quieta nenia dell’onda di risacca che sciacqua e risciacqua l’anima come fosse un pezza calda. Il mare le era d’accanto, con i tempi e i ritmi delle onde, della Balena Bianca, del Pequod e del capitano Achab, e l’anima bianca di strani fantasmi, il tempo oceanico, il battito dei remi e lo schiocco delle vele, le nuotate interminabili, l’inverno che stringe le onde nei lacci del ghiaccio.Visse i suoi giorni in una conchiglia. Chiudeva gli occhi come se fosse cieca e respirava insieme ai pesci, alle alghe, ai gabbiani di Sant’Andrea, a sera  si illuminava di luna di stella e di maree (“Trovarsi nel vuoto/ aspettare le maree / interrompere il fiume di pensieri”).

S’era fatta blu azzurra pensosa profonda mistica, sapete quei  quei blu mentalis  di cui Kandiskij andava pazzo, e aveva un essere vivo dentro il cuore della morte, un essere in piedi, diritto, verticale, ma invisibile,  dove l’aria e l’acqua passavano e ripassavano con un ritmo disteso, sereno, ma ineluttabile. Quando riaprì gli occhi,  non aveva altri sguardi ormai che per l’infinito, ma un infinito da Beatrice minore, una Beatrice del Tacco d’Italia.

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