“L’Idiota” tra gli idioti

di Gaia Fedele

<<Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà>>.

Italo Calvino, Le città invisibili,  1972.

Non era un principe, non era nato in una famiglia regnante, non aveva titoli nobiliari per essere stimato, rispettato per il valore e, forse, temuto. Non possedeva diamanti, rubini o gemme preziose in cui far brillare l’umana bellezza che lo distingueva fra i tanti; non indossava stoffe pregiate, né aveva mantelli persiani per ornare le spalle stanche e pesanti che la natura gli aveva offerto. Era un UOMO, e questo bastava a se stesso ed alla sua umile gente per ritenersi ed essere ritenuto speciale, ma aveva una ‘colpa’: essere nato in una terra morente.

Bakari amava l’Africa, ne conosceva i colori, i silenzi, i rumori, gli occhi malati di chi ha paura dell’abbandono, dell’addio, della morte. L’amore, però, non era sufficiente nella tremenda lotta per la vita, l’Africa era inerme nel preservare e tutelare l’esistenza e la sopravvivenza dei suoi figli e non per debolezza o per mancato coraggio, ma per un castigo, una punizione che doveva essere accolta in nome di un “e così sia”. L’uomo non era pronto a seguire i suoi fratelli, improvvisi navigatori che si fingevano esperti del mare e ribelli lupi della notte. Perché avrebbe dovuto lasciare la misera terra ed i ricordi legati ad essa, per imbattersi in avventure ignote che includevano un non ritorno?

Eppure, fin da ragazzino si era sforzato di conoscere e di farlo proprio il senso del viaggio, di immaginarsi al di là di quei campi sempre incolti ma, ogni volta che accadeva la magia, la Povertà gli si presentava innanzi, fiera figlia di Giuda, con rabbia e timore, richiamandolo a sé ed al suo dovere legato al “Cogito ergo sum” cartesiano, e così il sogno con le sue prospettive, le sue possibilità ed opportunità, svaniva, ritornando al suo stato di pura incoscienza.

Nelle calde notti di Giugno Bakari era solito trovare conforto nelle letture di autori occidentali, opere che hanno avuto il premio di viaggiare nel tempo e nello spazio, e che ora restavano nascoste sotto un letto di paglia e fango. Si era follemente innamorato dell’irraggiungibile, quasi mistico, volto di “Anna Karenina”; aveva provato a perdersi nello splendore angelico di Beatrice, il punto d’inizio ed ultimo approdo di un Dante mortale ed immortale, tentando di riconoscerla tra i mille sguardi che animavano il suo Inferno quotidiano. Tra pagine ricche di orgoglio, di labirinti sicuri e tra parole accarezzate, lette e quasi comprese, Bakari volse la memoria nel ricordo del principe Myškin, una personalità semplice e complessa, pura e malata, anima dannata che, come lui, cercava il buono, il giusto, prima in sé e poi nell’altro. Un IDIOTA che non aveva Legge (presente e passato uniti in un dettame impossibile da sciogliere), un missionario di Dio che cercava la pace tra gli uomini, un incompreso tra gli incompresi. Quella notte sarebbe stata l’ultima per Bakari e la sua famiglia nella tana maledetta e, prima che il sonno lo rapisse, rammentò un passo tratto da “Le città invisibili” di Italo Calvino, e lo recitò come fosse una preghiera rivolta al cielo:  << […] Due modi ci sono per non soffrire. Il primo riesce facile a molti: accettare l’Inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione ed apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’Inferno, non è Inferno, e farlo durare, e dargli spazio>>.

“Quale sarebbe la via che m’insegnerà a soffrire nel giusto e per il giusto, caro Calvino?”

Fu l’ultimo interrogativo venuto al mondo in presenza delle stelle, sussurrato ad una luna immobile che ascoltava gli aforismi di un pazzo senza mutare il proprio volto.

Il risveglio fu insolito e Bakari ne conosceva ragione e motivo. Nessun ruggito, preannuncio di un nuovo giorno e di una nuova caccia, venne avvertito quella mattina; nessuna zebra, animatrice di corse ansiose in direzione della salvezza, venne vista in lontananza. Tutto era fermo, immobile, ed anche la natura, generatrice di bellezza e distruzione, regina del caos e del movimento, rimase impassibile nei confronti dei cambiamenti che si stavano profetizzando sotto l’ascesa di un nuovo sole.

“C’est le grand jour! Coraggio fratello, separati dai brutti pensieri ed incoraggia la nostalgia. Dimenticherai la monotonia e la tristezza di questo luogo infame che ci ha nutrito di disgrazie, ripagandoci con la fame nera. Delle meraviglie attendono il nostro arrivo, non facciamoci desiderare. Ho preparato un kit da viaggio anche per te: una borraccia d’acqua per la sete d’avventura, una coperta per il freddo della notte ed un po’ di speranza che poso qui, su questi libri che tanto ami. Ti aspettiamo lungo la costa insieme a padri, madri e figli di nuove generazioni e d’importanti traguardi. Non tardare. Giù dalla branda missile!”

Lacrime amare gli accarezzavano le guance per poi cadere nel vuoto e disciogliersi. I raggi del sole illuminavano il suo corpo, facendolo brillare di luce propria, ed il colore della sua pelle, simbolo di una diversità innocente, diventava ancora più intenso, ancora più immacolato.

Prese tutto quello che aveva, la dignità in primis, e poi i ricordi e le memorie che solo l’Africa poteva apprezzare, che solo l’Africa aveva imparato a consegnare. “Avec mon coeur je dis au revoir, mai mon âme est morte dans tes bras!” (“Col cuore ti dico addio, ma la mia anima è morta tra le tue braccia!”).

Rimasero uniti nell’attesa del domani, ignorando la vastità dell’orizzonte che delineava confini inesplorati. Bakari, perso nella felicità del suo vissuto, fissava il mare, il quale con estrema dolcezza mista ad eleganza traghettava e cullava ospiti sconosciuti, e dalla sua profondità e dai segreti che custodiva, veniva sempre più attratto.

Non era il solo a dare voce alle emozioni del momento. Una donna, futura madre, accarezzandosi con mani nobili e leggiadre il ventre, disse: “Piccolo uomo, quando ti metterò alla luce, il mondo ti sorriderà e si prenderà cura di te. Questo nostro viaggio è colmo di aspettative e ve ne saranno di nuove una volta trovata la meta, ma non temere perché, vedi, il futuro inizia a brillare da lontano”. Così con disinvoltura, come fosse un corpo solo ed abbandonato al proprio destino, continuava a rivolgere parole di conforto alla creatura che custodiva nel grembo, e quel frutto ormai maturo scalciava con tutta la forza che aveva ed era entusiasta del racconto e delle promesse di colei che stava imparando ad essere legata alla vita.

A dire il vero, uomini, donne, bambini ed anziani si perdevano nell’illimitatezza del tempo e speravano nella solidarietà dello straniero che li avrebbe accolti per un avvenire migliore. Bakari non era in grado di ingannare le belle illusioni e le vane speranze  che rallegravano quelle anime; percepiva il ritmo vivace e violento delle corde dei loro cuori, come se avesse avuto una dote in grazia, e quei battiti crescevano in continuo con la nascita di una nuova alba e la morte di un’incantevole luna.

Trascorsero tredici giorni sotto lo sguardo di un Dio presente e vicino che sapeva ascoltare le richieste di piccole mani intrecciate ed unite nel desiderio di un miraggio, di un porto sicuro. Per la prima volta, l’Africa venne in sogno a Bakari: era un quadro con poche luci e tante ombre che danzavano senza perdere il contatto, ed erano felici nella loro nudità, nella loro essenza che mai nessuno sarebbe riuscito a mutare. Colse il significato di quell’incontro disperato e capì che il principio che collega l’inizio alla fine non risiedeva nel saper fuggire, ma nel voler restare, nonostante tutto.

Finalmente, il giorno seguente una nave imponente salpava nella loro direzione, avvisando i viaggiatori di essere giunti nella terra di qualcuno che presto non li avrebbe accettati.

“Smettete di remare viandanti!” – venne udita una voce grossolana che oltre a spaventare i naufraghi, ruppe il silenzio degli abitanti del mare – “Che avanzino prima i bambini, le donne in attesa, ed a seguire anziani e giovani. Vi distribuiremo acqua e beni di prima necessità”.

Come anime maledette in cerca della misericordia e del perdono, allungavano le braccia verso quegli uomini vestiti di bianco, i salvatori, stringendoseli al petto e baciando loro le mani, come fa una madre quando rivede il figlio tornare da una guerra ingiusta e senza fine.

Tutti erano ormai al riparo tranne uno: Bakari, che, in preda a mille domande, tentava di muovere prima il piede destro e poi quello sinistro per dare slancio al passo, alla vita, ma ciò non accadde. Ripensava alla compassione, sentimento di pietà verso chi è infelice, verso i suoi dolori, verso chi commette uno sbaglio credendo di agire nel giusto. E sì, Bakari stava portando a compimento un grande errore.

Lo avrebbero accolto nella terra di tutti? Lo avrebbero accettato nonostante i pregiudizi? Magari avrebbe vissuto una vita felice, avrebbe lavorato, amato una donna ed avrebbe provato la gioia di diventare padre. Ma, non era in quel luogo futuro che si sarebbe sentito completo. UOMO. Così la mente, mandando gli impulsi al corpo, decise di tornare indietro, nel posto in cui Bakari vide il sole per la prima volta e conobbe i colori di una terra tutta da amare.

Si gettò in mare, lui che non aveva mai imparato a nuotare e che, questa volta, per volere e cosa giusta, non ebbe timore di affrontarlo, ma di sfidarlo. Nessuno si accorse di quella follia, – fu un vero atto di coraggio! – nemmeno  i suoi fratelli che ora viaggiavano in direzione di un roseo avvenire.

Avrebbe impiegato settimane prima di far ritorno in Africa, forse non sarebbe più arrivato sano e salvo (il mare da alleato può diventare un temibile e terribile nemico) o forse sì, non aveva importanza poiché il principio primo era il tornare per poi restare per sempre.

Ecco che, dinanzi ai suoi occhi, comparve lei, come fosse Polaris, la stella più luminosa della costellazione, era la Povertà che or ora gli sorrise, aspettando il faticoso ritorno di chi non abbandona mai l’immagine di ciò che è stato, che è, e che sarà. In quale luogo?

Bakari avrebbe risposto: “In Africa”!

Qual è in fondo la scelta giusta e quella sbagliata nello stesso momento in cui si sceglie di cogliere il buono delle grandi e piccole cose?

<< Avviene il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma, che la sua corruzione è troppo incancrenita, perché il nostro scettro possa mettervi riparo, che il trionfo sui sovrani avversari ci ha fatto eredi della loro lunga rovina >>. Italo Calvino.

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