La ‘terza via’ di Vittorio Bodini

di Antonio Lucio Giannone

Prima di entrare nel merito del discorso, vorrei far notare che questa è una delle rare volte in cui si parla di  Vittorio Bodini fuori dalla sua regione, cioè fuori dalla Puglia e, in particolare, dal Salento, da vari anni a questa parte, almeno in consessi di così alto livello scientifico. Ricordo un altro Convegno tenutosi presso le Università di Roma, Bari e Lecce nell’ormai lontano 1980, in occasione dei dieci anni dalla morte[1], e una Giornata di studi presso l’Università di  Pescara nel 1985. Poi più niente o quasi, fuori, ripeto, dal Salento, al punto che di questo scrittore, a volte, anche gli specialisti conoscono solo il nome o, al massimo, l’attività di ispanista.

Perciò desidero approfittare di questa occasione per fare brevemente il punto sulla situazione degli studi su  Bodini, visto che tocca a me dare inizio ai lavori della sessione a lui dedicata. La stessa Anna Dolfi, che è stata uno dei pochi a occuparsi in tutti questi anni della sua opera, ha parlato, in un suo saggio,  di una sorta di damnatio memoriae  che ha colpito la figura dello scrittore[2]. A mio avviso, sono diversi i motivi di questa dimenticanza. Il primo, forse, è il fatto che la fama dell’ispanista ha messo un po’ in ombra il poeta, il narratore, l’organizzatore culturale. Un altro motivo sta nella limitata conoscenza della produzione letteraria di Bodini anche da parte degli studiosi, i quali, fino a poco tempo fa, potevano conoscere, nel migliore dei casi, soltanto l’opera poetica, apparsa negli «Oscar» Mondadori nel 1983 per le cure di Oreste Macrì[3] e attualmente disponibile presso le Edizioni Besa, che l’ha ristampata, ma non gli altri settori di essa quali la narrativa, i reportage, le inchieste, le prose critiche. Questo perché Bodini, morendo prematuramente nel 1970, a soli cinquantasei anni, non ebbe il tempo di raccogliere in volume i suoi scritti. L’ultimo anno di vita, com’è noto, aveva proposto a Einaudi un libro di racconti, ma a causa della morte questo progetto non si poté realizzare.

Al momento della scomparsa, insomma, tutti gli scritti in prosa di Bodini erano ancora dispersi su giornali e riviste. Nel 1980, proprio in occasione del Convegno citato, apparve la raccolta La lobbia di Masoliver e altri racconti, che, rinviando la realizzazione del disegno originario di Bodini a «un’edizione completa delle sue prose», intendeva documentare, «i momenti più significativi della produzione narrativa bodiniana fra il 1940 e il 1969»[4].  Nel 1982, sulla rivista di una banca salentina, Donato Valli pubblicò altre prose inedite e disperse di Bodini, tra le quali spicca il romanzo giovanile Il fiore dell’amicizia[5], appena ristampato con una mia Prefazione [6].  Qualche anno dopo, nel 1984, lo storico Fabio Grassi pubblicò I fiori e le spade, un’antologia di prose molto eterogenee tra di loro (articoli di argomento politico e sindacale, prose memoriali, scritti letterari, cronache giornalistiche dalla Spagna, inchieste, recensioni, ecc.), unificate dal sottotitolo Scritti civili, che coprivano un arco di tempo molto ampio, dal 1931, anno dell’esordio dello scrittore diciassettenne, al 1968, quasi quindi fino alla fine dell’attività e della vita di Bodini[7].

Per quanto mi riguarda, nel 1987 raccolsi i reportage dalla Spagna, dispersi anche questi su vari giornali, in un volume dal titolo Corriere spagnolo[8], da poco ristampato con l‘aggiunta di alcune lettere inedite inviate dallo scrittore dalla Spagna, nella collana «Bodiniana» che curo per le edizioni Besa di Nardò[9]. Questa collana, che è arrivata a otto titoli, venne inaugurata nel 2003 con un’altra raccolta di racconti e prose, dal titolo Barocco del Sud[10], che comprende scritti composti, per la massima parte, dal 1950 al 1952, rimasti anche questi dispersi e che sono fondamentali per conoscere la poetica dello scrittore.

Questa, in rapida sintesi, la situazione editoriale degli scritti in prosa di Bodini che non ha permesso finora di conoscerlo adeguatamente nella totalità della sua produzione e quindi ha impedito il necessario approfondimento della sua opera. Ma ancora manca la raccolta delle prose critiche alla quale sto lavorando e che permettono di avere un’idea più precisa della sua collocazione nel panorama letterario di metà Novecento. Perché questo, forse, è un altro motivo della sua scarsa fortuna critica: la difficoltà di collocare l’opera in versi e in prosa di Bodini in una corrente precisa (ermetismo, neorealismo, surrealismo, sperimentalismo, neoavanguardia), a causa cioè della sua eccentricità, del suo essere fuori, in fondo, da tutti i movimenti che ho nominato prima, pur avendoli attraversati ed essendo stato influenzato da essi, in misura più o meno maggiore.

E qui mi collego al tema del mio intervento: la ‘terza via’. Questa non è un’espressione di Bodini ma mi sembra che si possa usare in maniera appropriata per definire la sua posizione tra i movimenti letterari, in particolare, nel secondo dopoguerra e negli anni Cinquanta. Che significa dunque? Ecco, si ricorderà che nell’«Esperienza poetica», che qui non prendo in esame essendo abbastanza nota la vicenda di questa rivista[11],  Bodini si riprometteva, come scriveva  nell’editoriale premesso  al secondo numero, dal titolo Non è una poesia da serra, di documentare la «tendenza di rinnovamento» in atto nella poesia italiana, nella convinzione che questa non fosse morta nel 1945, come sosteneva certa critica, ma che fosse solo differente da quella ‘pura’, ‘assoluta’, ‘intemporale’ dell’anteguerra. E la sua rivista voleva mostrare per l’appunto «questo sforzo transitivo della poesia sugli oggetti e passioni del mondo, ma a patto che gli uni e gli altri si accendano di una significazione fantastica e che il linguaggio non perda di quella comprensione e densità che sono un innegabile debito verso i poeti maggiori delle generazioni precedenti»[12]. Il che voleva dire che era necessario per i poeti uscire fuori dalla «prigione di parole» in cui, a suo giudizio, si erano rinchiusi alcuni e confrontarsi invece col reale, con la società, con il tempo, senza peraltro rinunciare allo scatto inventivo, alla fantasia, all’immaginazione, proprio come aveva tentato di fare lo stesso Bodini con la sua prima raccolta, La luna dei Borboni, del ‘52.            Non a caso, le polemiche principali furono condotte, da un lato, nei confronti del postermetismo e, dall’altro, del neorealismo marxista, del quale si rifiutava il grezzo contenutismo e l’esplicita compromissione con la politica. A questa «alternativa», che presentava l’Italia «ufficiale»,  Bodini dichiarò più volte di essere «indifferente»[13]. In questo contesto si giustifica anche l’aspra polemica con il conterraneo e amico Oreste Macrì, a cui rimproverava di essere rimasto fermo sulle posizioni d’anteguerra, in una difesa ad oltranza dell’ermetismo, senza accorgersi del mutato cambiamento del clima poetico. Ma in questa occasione non mi soffermerò nemmeno su questa polemica che è stata abbondantemente studiata ed è sufficientemente nota[14].

Al tempo dell’«Esperienza poetica» risale anche quella distinzione, da lui proposta, all’interno dell’ermetismo, in due gruppi:

“quello dei poeti che accettato il linguaggio poetico della triade Campana-Ungaretti-Montale, lo derivarono verso soluzioni di sensibilità, o d’idillio o di musica (Gatto, Sinisgalli, Penna, De Libero), affinandolo ciascuno secondo le proprie disposizioni, e un secondo gruppo – una destra, diremmo – caratterizzato da una superfetazione culturale e da un ritorno […] all’estetismo verbale su una labile trama per mosaico, alle parole di lusso, al neodannunzianesimo, in una parola, sia pure attraverso Ronsard, e non Petrarca, ma i cinquecentisti”[15].

Questi due gruppi poi, secondo Bodini, si erano progressivamente staccati l’uno dall’altro, dando vita a due linee poetiche e geografiche al tempo stesso: la linea fiorentina e quella meridionale. Da qui il rapporto privilegiato con Quasimodo, da lui definito «l’iniziatore della poesia meridionale»[16], con cui fu a lungo in rapporto epistolare, o la vicinanza a Scotellaro, che fra l’altro recensì, in maniera entusiastica, La luna dei Borboni[17].

Ma questo è – come dire – il punto d’arrivo della riflessione bodiniana sulla poesia, che anch’io ho avuto già modo di esaminare in altre occasioni. In questa sede, mi interessa delineare invece, sia pure rapidamente, attraverso gli scritti critici che, come dicevo prima, sono ancora dispersi e quindi poco conosciuti, il percorso seguito da Bodini per arrivare a quella proposta e soprattutto approfondire il suo rapporto con l’ermetismo e Firenze, che è stato fondamentale per lui, come d’altra parte egli ha sempre riconosciuto: che cosa ha rappresentato dunque l’ermetismo per Bodini e come egli lo ha giudicato. E questo anche in relazione al tema del Convegno odierno.

Per far ciò, è necessario partire da uno scritto memoriale, intitolato Firenze, rimasto inedito fino a che Renato Aymone non lo pubblicò, nel 1980, in Appendice del suo volume Vittorio Bodini. Poesia e poetica del Sud. In questa prosa, non datata ma risalente agli anni Sessanta, emerge pienamente l’importanza avuta dalla permanenza di Bodini, tra il 1937 e il 1940, a Firenze, dove si laureò in Filosofia con Paolo Emilio Lamanna con una tesi su Gian Domenico Romagnosi. Qui infatti egli riprese la sua attività creativa dopo la breve avventura futurista leccese dei primi anni Trenta, e soprattutto qui avvenne la sua vera formazione in un ambiente letterario di altissimo livello, aperto alle influenze della cultura europea. E, a questo proposito, è sufficiente citare un brano:

“A piedi, magrissimo, mi giravo dunque amorosamente la mia nuova patria, o per trovare libri usati, o camere ammobiliate, abbastanza fiorentine e abbastanza a buon mercato (ho abitato al Porcellino, in Canto dei Meli, in via San Gallo) o, da ultimo, per vedere i prezzi delle scarpe. In via dei Servi, o in via Alfani, o in Borgo la Croce trovavo libri sconvolgenti, decisivi per la mia vita, come Kafka, tutti i volumi della Recherche, l’Ulixes nella traduzione francese di Valéry Larbaud, e nella ediz. Corbaccio, Svevo e Gente di Dublino, e Montale e una prima ediz. dei Canti orfici. E i Pesci rossi di Cecchi. Come era giusto, pagavo asceticamente ciascuna di queste scoperte, perché ad ogni acquisto mi toccava saltare il pasto. Per la Recherche mi toccò saltarne parecchi”[18].

Qui egli rievoca anche la sua conoscenza, presso le Giubbe Rosse, dei maggiori protagonisti di quel particolare momento vissuto dalle lettere italiane: Montale, Luzi, Gadda, Bo, Landolfi, Pratolini, Bigongiari, Parronchi e Bonsanti il quale, tra il 1939 e il ’40, gli pubblica su «Letteratura», cioè pubblica a uno sconosciuto e per di più esordiente, grazie all’interessamento di Montale, sei poesie, un racconto, La coscienza di Antina e una recensione a Lettere d’una novizia di Guido Piovene. Dagli ermetici – confessa ancora Bodini – «ero attratto per la vitalità, la freschezza, per l’unità della loro cultura, ma in parte separato dalla diversa formazione e dal mio antifascismo, mentre era noto il loro glaciale disprezzo della politica»[19].

Sempre in questa prosa, all’inizio, e prima della rievocazione vera e propria di quegli anni, c’è un breve brano in cui lo scrittore riflette sulla sua esperienza ermetica:

“terza generazione (del M.) a cui non mi sentivo vincolato, perché la brevità della mia esp.  erm. mi lasciava libero di cercare alla fine dello sfacelo naz. un’altra via, un altro linguaggio poetico. Non son pentito però di quella esp. (che oggi in queste condiz. storiche riappare in altra forma nella mia poesia, ma durante e dopo la guerra incolpai l’e. per averla straniata e disavvezzata dai grandi temi ed eventi collettivi, avverso a quel calarsi nel fondo di sé”[20].

Ecco, in questo brano si può notare in fondo, che Bodini ha sempre parlato del suo rapporto con gli ermetici con un tono equilibrato, riconoscendo la decisiva importanza della sua formazione fiorentina e manifestando sempre grande stima verso i protagonisti di quella stagione, mentre le punte più accese della polemica con Macrì, al tempo della loro «inimicizia fraterna», sono limitate proprio agli anni dell’«Esperienza poetica» e si spiegano probabilmente anche con la volontà di rimarcare, in quel particolare momento, più le divergenze che le affinità col critico magliese. Qualcosa di più, a questo proposito, si potrà sapere quando verrà la luce il monumentale carteggio Bodini-Macrì, curato da Anna Dolfi.

Il percorso dunque che porta Bodini a fare la sua proposta (la ‘terza via’) è piuttosto lungo e dura almeno una decina d’anni. Seguiamo allora rapidamente i momenti principali di esso partendo dagli anni romani (1944-46), durante i quali egli collabora a numerosi giornali e riviste: da «Ricostruzione» a «La Tribuna del Popolo», da «Domenica» a «Cosmopolita», da «La Fiera letteraria» a «Mercurio». In questi scritti egli incomincia a riflettere sulla funzione che doveva svolgere la letteratura in una realtà profondamente mutata, quale era quella dell’immediato dopoguerra, partecipando alle polemiche di quegli anni che riguardavano anche il giudizio da dare sui movimenti letterari fra le due guerre e quindi anche sull’ermetismo[21].

Altamente significativo, ad esempio, è La cultura tradizionale e la giovane letteratura, in cui si ricollega a una polemica iniziata qualche mese prima con un articolo di Alberto Moravia, sempre su «Domenica» e proseguita con gli interventi di Massimo Bontempelli e Libero Bigiaretti. Moravia, nel suo articolo, intitolato significativamente Colpe letterarie, aveva imputato all’autarchia culturale vigente nel periodo fra le due guerre il mancato contatto della cultura italiana con quella europea (affermazione piuttosto discutibile, in verità) e aveva definito la cosiddetta letteratura «formale», nella quale comprendeva pure l’ermetismo, una sorta di «Arcadia di proporzioni gigantesche» che aveva esercitato un vero e proprio monopolio in quegli anni.

Ebbene, già qui Bodini assume una posizione mediana e quasi di difesa dell’ermetismo, attribuendo invece la causa principale dell’autarchia culturale individuata da Moravia a quelli che definisce gli «ispidi e recidivi rapporti» fra la «cultura tradizionale» e la «giovane letteratura». In ogni caso egli non fa coincidere la linea di demarcazione fra i due schieramenti con quella tra fascismo e antifascismo, non potendosi identificare immediatamente, a suo giudizio, le fazioni letterarie con quelle politiche. Da un lato, dunque, gli ermetici «si sono esiliati da una città reale nelle cui strade non riuscivano a far respirare i propri fantasmi», e hanno peccato dunque «non per fare ma per non fare»[22]. Dall’altro, la cultura storico-idealistica di matrice crociana  ha avuto la colpa di ignorare la poesia novecentesca, primo fra tutti Montale, escludendo dal suo interesse tutto quello che si pubblicava «entro quel circolo infetto». Questa assenza di dialogo tra i due schieramenti provocò disagi su entrambi i fronti, non potendo gli errori degli uni essere compensati dalle qualità degli altri. Il torto quindi si doveva suddividere in parti uguali tra i due schieramenti, ma a Bodini non interessava qui intentare un processo, distribuendo le colpe fra le parti in causa, come facevano alcuni, quanto reperire un comune punto d’accordo in vista di quella «ricostruzione» letteraria, più che mai necessaria in quel periodo per far sì che la nostra letteratura riacquistasse una «funzione europea».

Assai rilevante è anche uno scritto su Montale, risalente al 1945, Il gasista di Montale, nella cui poesia Bodini rinveniva un filo tematico costante, rappresentato dal «tormentoso e vivace sentimento» della polis, «mutevolissimo, intricato di umori, di domande, di contraddizioni – e in ciò obbediente alla mobilità del mondo interiore del poeta –, ma sempre presente come l’antagonista necessario e a suo modo producente di questa poesia che è per ora l’unica di cui si possa dire con certezza che ci sopravviverà»[23].  E questo filo della polis, cioè dell’apertura, dell’attenzione al reale, alla comunità degli uomini, alla società, egli seguiva dalle prime apparizioni negli Ossi di seppia alle Occasioni, ripercorrendo «la storia di una musa che s’addentra sempre più nelle piazze, ad ogni passo attratta e respinta senza tuttavia sapersi sottrarre al fastidio di contatti di cui si vendica registrandoli con una precisione crudele»[24]. Anche qui però lo scrittore leccese evita l’errore di attribuire ai versi montaliani una valenza politica precisa.

Un’acuta riflessione sul genere romanzo, invece,  è da lui condotta in Il gobbo e la narrativa italiana, in cui nota giustamente la mancanza in Italia di una «civiltà narrativa generata da un sentimento collettivo […] una civiltà paragonabile al patrimonio di esperienza che si tramandavano di generazione in generazione i nostri artigiani»[25]. Per questo auspica la rinascita del romanzo in Italia, perché tutta una «materia insanguinata e mostruosa», attendeva ancora, a suo giudizio, di essere trasferita in quel genere letterario e non trasfigurata dal canto, sia pure altissimo, di un poeta. E qui polemizza implicitamente contro la prosa d’arte e l’elzeviro o «altri cesellati soprammobili» del periodo tra le due guerre.

In un altro articolo, ancora, dedicato a Tommaso Landolfi, Invito alla retorica (con una nota sul gioco d’azzardo), del ‘46, rintraccia negli scrittori italiani di quel periodo l’aspirazione ad «allargare il gioco»[26], cioè a prendere in considerazione qualsiasi materia, perché «Allargare il gioco in letteratura – spiega – significa per l’appunto includervi tutte le impurità, tutte le retoriche: e vedere poi se si è capaci di bruciarle»[27], al fuoco della passione civile e dell’emozione artistica. Anche qui dunque una tendenza ad aprirsi in qualche misura all’«impura» realtà con tutte le conseguenze e i rischi che questo comportava per la scrittura, per la creazione artistica.

Nel novembre 1946, infine, in Mobili prospettive di una letteratura, apparso sul periodico leccese «Libera Voce», immediatamente prima della sua partenza per la Spagna, nota che la guerra aveva prodotto uno strappo violentissimo nei tessuti della società letteraria, che non poteva non aver causato dei mutamenti anche nell’animo degli scrittori. Difatti, anche se «l’illustre corpo d’una letteratura non è direttamente tangibile da ciò che accade al di fuori di essa»[28], la letteratura è fatta pur sempre dagli uomini, «la cui vita ed esperienze sono necessariamente condizionate dalla realtà» e «qualcosa di questa dovrà pur filtrare entro le pagine, non fosse altro che come limite» [29]. E alla fine aggiungeva una frase significativa, nella quale non è difficile cogliere, già fin d’ora, una velata allusione a Macrì : «E non sappiamo nascondere il nostro fastidio se ci avviene di leggere uno scritto d’un nome su cui contavamo (ma son moltissimi su cui contavamo) da cui non trapeli il più minuto indizio che qualcosa è accaduto, che qualcosa non è più come prima»[30]. Anche qui insomma Bodini procedeva a una revisione della letteratura d’anteguerra, ma non a un «revisionismo a tutti i costi», come facevano altri, non giungeva cioè a comminare condanne assolute, prive della possibilità di appello.

Ma la riflessione bodiniana continua anche negli anni successivi. Anche in certe ‘letture’ che compie durante la permanenza spagnola affiora questo leit motiv della necessità di una qualche forma di apertura al reale da parte della poesia. Nell’articolo La poesía de Ungaretti en Allegria, che pure è destinato ai lettori spagnoli, pur ritenendo la poesia di Ungaretti fuori dal contingente, dalla cronaca, essendo essa di tipo ontologico, verticale, mette l’accento sulla definizione di «uomo di pena», che ci fa scoprire la creatura storica, immersa nel suo tempo:

“Pero tal fidelidad a las razones universales del acto poético en ningún momento significará olvido, deserción de sus términos de criatura histórica, sino, al contrario, estos términos están puntualmente reconocidos y enfrentados, siendo éste el primero y más elemental peldaño del trabajo de Ungaretti, «uomo di pena», como èl mismo se define”[31].

Ma gli scritti più interessanti da questo punto di vista, dopo il rientro in Italia e prima dell’«Esperienza poetica», sono forse tre articoli dei quali due vennero pubblicati sul quotidiano barese «La Gazzetta del Mezzogiorno», a cui Bodini collaborò piuttosto intensamente in quegli anni, e un altro è rimasto inedito fino a che Grassi non lo inserì nel libro poc’anzi citato. Qui ci troviamo di fronte davvero a scritti autoidentificativi, nei quali lo scrittore ripensa alle sue due passate esperienze letterarie, il futurismo e soprattutto l’ermetismo, con il quale cerca, per così dire, di ‘fare i conti’.

Nel primo, in ordine cronologico, intitolato Antichi e nuovi «ismi», Bodini mette a  confronto per la prima volta questi due movimenti, che – scrive – «sono quanto più diverso possa immaginarsi», perché l’antiaccademismo dei futuristi celava in fondo  «una copiosa ignoranza» mentre «poesia e critica ermetica erano spesso prodotti di una esagerata cultura giunta ad una fase d’inflazione»[32]. Inoltre, se nei primi a prevalere erano «i dati meccanici e le approssimazioni dei sensi», «l’ambizione della poesia ermetica fu il simbolo, il marmo»[33].

Ma qui si sofferma soprattutto sulla funzione della scuola ai fini della nascita della poesia e quindi sul valore dei movimenti letterari e della loro portata. Le scuole, i movimenti letterari, secondo Bodini, se visti «anteriormente alla poesia» svolgono un compito positivo perché contribuiscono a creare un clima comune, a chiarire temi che, «per essere personali, non per questo appartengono di meno a tutta una generazione»[34]. La scuola quindi «sorge dall’apporto che ciascuno dei suoi componenti – anche i minori –  può offrire alla comunità poetica raccoltasi sotto alcuni segni comuni, nel modo naturalmente più generico in cui ciò è possibile»[35]. Veduta invece a posteriori, la scuola è «un limite a cui si potrebbe soggiacere, e a cui infatti i più deboli soggiacciono», se non si ha la forza di andare oltre: «Impediti nella ricerca di un’ispirazione intimamente personale, si finirà col riecheggiare opacamente motivi che per essere comuni avrebbero potuto avere un valore e non ne hanno alcuno»[36].

Queste espressioni richiamano molto da vicino ciò che egli stesso scrive, nella Nota preliminare a La luna dei Borboni e altre poesie,  a proposito del gruppo Vecchi versi – I (1939-41), che aveva eliminato perché «apparteneva più al generico linguaggio poetico di quegli anni che a me», cioè al linguaggio della scuola ermetica. «Tuttavia – aggiungeva – perché non paia che io abbia voluto sopprimere le tracce di quegli anni, ed anche, perché no?, per dar la misura di tutto il cammino e gli sforzi (e i vuoti) per trovare un linguaggio più libero e da poter dire mio, ho messo in appendice due composizioni di quel gruppo»[37]. Per questo così conclude, con un chiaro riferimento anche stavolta alla propria esperienza: «Superare un limite presuppone insomma l’esistenza necessaria di quel limite, e in questo senso la sua utilità; e un movimento poetico – aggiunge usando un gioco di parole – è dunque una utilità che la poesia deve inutilizzare dentro di sé, utilizzandola»[38].

Collegato a questo è un altro articolo, apparso sul quotidiano barese esattamente un mese dopo, All’insegna dell’Arte-Vita, in cui ritorna sul confronto tra futurismo e ermetismo, riprendendo il concetto di scuola.  Ebbene – sostiene Bodini – i due movimenti, come scuola, si equivalgono, come ogni altra scuola. Tra di essi però, c’era un’enorme differenza relativamente alla «quantità di poesia realizzata», che poi è quello che conta davvero. In effetti, a suo giudizio, essi sono radicalmente diversi nei caratteri più intimi. «Alla parola grezza, priva di storie e di risonanze, anzi ambiziosa di barbarie» dei futuristi si contrappone la tendenza degli ermetici alla parola «colta, densa di allusioni, che implicasse nel proprio suono il maggior numero di echi e di associazioni d’immagini»[39]. Ancora, mentre i futuristi «si presentavano con una spavalderia arrogante, affermavano il loro credo con uno squadrismo verbale che lungi dal trascurarne, andava provocando le occasioni per manifestarsi», gli ermetici «erano estremamente schivi»[40]. Non a caso i futuristi avevano dei manifesti che sono, a suo giudizio, «il documento letterario più notevole che sia uscito da tutto quel movimento»[41], mentre gli ermetici non ne avevano affatto, avendo rifiutato Carlo Bo il valore di manifesto per il suo Letteratura come vita. Radicalmente diversa era anche la concezione di movimento, di scuola e mentre i futuristi erano attratti dal numero degli aderenti, dai gruppi, e chiunque poteva essere ammesso senza discriminazioni, gli ermetici «smorzavamo i dissensi con la superiore urbanità della cultura», e «dietro i loro scritti, nel loro linguaggio fuso e corale, un po’ monotono, la fiamma più calda era forse nell’operoso fervore di un’amicizia di pochi»[42]. Ancora, un’altra differenza fondamentale sta nell’assoluta mancanza di senso critico dei futuristi a cui si contrappone «il predominio della critica» nell’ermetismo. Il senso critico agì addirittura «anteriormente nella loro  poesia che fu fortemente permeata e talvolta dominata dal controllo critico»[43].

Ma questo e gli altri due scritti sono davvero, per Bodini, come s’è detto, una sorta di esame di coscienza, quasi di un bilancio delle sue prime esperienze letterarie. Una chiara allusione alla sua breve partecipazione al futurismo si coglie allorché egli accenna al tentativo dei futuristi di diffondere certi miti dannunziani (il superuomo, l’arte-vita) presso la piccola borghesia. E questi miti – aggiunge – facevano presa su «commessi di negozio, ferrovieri, infermieri e soprattutto studenti liceali insofferenti delle discipline scolastiche»[44], come era appunto il suo caso. Questo tentativo però fallì perché la mancanza di senso critico, oltre che la fretta e la superficialità, fece sì che quei miti si capovolgessero e si trasformassero «nei temi dell’antiaccademismo e della barbarie»[45].

La riflessione, la sofferta (possiamo definirla) riflessione, sull’ermetismo continua infine, prima dell’«Esperienza poetica», in Le vergini ermetiche, risalente probabilmente al 1953, in cui Bodini torna ancora una volta, con intensa partecipazione, a cercare un chiarimento, forse più per sé stesso che per gli altri, su quella che definisce significativamente «la chiave segreta della nostra generazione»[46]. Qui mette in rilievo quelli che a suo giudizio sono alcuni caratteri dell’ermetismo, come il «pudore dei sentimenti» e la «moralità letteraria», rispetto alla quale «non è che secondaria ogni distinzione di chiarezza e oscurità»[47]. Poi chiarisce i rapporti tra Ungaretti e Montale e l’ermetismo. Il primo – sostiene – ha avuto solo tangenze, avendo in comune «l’educazione francese, sostanziale in Ungaretti, non altrettanto negli ermetici»[48]. Più prossimo agli ermetici è Montale, «per l’equivoco dell’oscurità formale, per l’avversione a alzare il tono di voce, per il dominio sempre esercitato sui sentimenti tradotti più che alienati in oggetti», ma, a suo giudizio, si tratta di una vicinanza esterna. «La condizione ermetica della monotonia, di esclusione della dialettica (in sede umana) con l’ignoto, si realizza in lui solo alla superficie; la superficie è calma, il fondo tumultua. La storia, esclusa per sofismi eleatici, attraverso l’occasione fa ritorno per la finestra»[49]. E qui riprende la sua interpretazione di qualche anno prima di un Montale che si apre gradualmente alla storia, al reale, alla polis.

Alla fine distingue l’ermetismo in un centro rappresentato da «Letteratura»,  che pure fa parte del «clima ermetico», una sinistra, di Carlo Bo, Luzi, Contini e Macrì, che – scrive – «rapidissimamente s’arrampicava fra le più ardue alberature aristotelico-vichiane», e la destra di De Robertis e Falqui che «andava ricercando attestati leopardiani i quali servissero a giustificare l’oscurità in nome di un’aura di nobiltà espressiva»[50]. E anche in questo scritto c’è un’ allusione autobiografica allorché scrive che la poesia ermetica «passò da quella prima schiera fiorentina ai giovani delle università e della provincia»[51], come era successo appunto a lui, proveniente dalla provincia meridionale e iscritto all’Università di Firenze.

L’insistenza, insomma, su questo tema negli anni che precedono immediatamente «L’esperienza poetica»  sta a dimostrare come  Bodini sentisse quasi come un nodo irrisolto la questione del suo rapporto con l’ermetismo, un nodo che doveva necessariamente sciogliere prima di procedere oltre e arrivare alla sua proposta. In ogni caso, anche l’esame di questi scritti, oltre che un’indagine testuale sulla poesia bodiniana, conferma che la lezione ermetica ha continuato a contare su di lui forse più di quanto egli stesso ne avesse coscienza.

[La “terza via” di Vittorio Bodini, in L’ermetismo e Firenze. Atti del Convegno internazionale di studi (Firenze, 27-31 ottobre 2014), vol.  II, a cura di A. Dolfi, Firenze, University Press, 2016, pp. 571-582].

 

 

 

[1] Cfr. i relativi Atti, Le terre di Carlo V. Studi su Vittorio Bodini, a cura di O. Macrì, E. Bonea, D. Valli, Galatina, Congedo, 1984.

[2] Cfr. Anna Dolfi, Bodini, Leopardi e la damnatio memoriae, in In un concerto di voci amiche. Studi di Letteratura italiana dell’Otto e Novecento in onore di Donato Valli, secondo tomo, a cura di A. L. Giannone, Galatina, Congedo, 2008, pp. 641-653

[3] Vittorio Bodini, Tutte le poesie (1932-1970). Introduzione e edizione di O, Macrì, Milano, Mondadori («Oscar»), 1983,

[4] Paolo Chiarini, Nota ai testi, in V. Bodini, La lobbia di Masoliver e altri racconti, Milano, All’Insegna del Pesce d’oro, 1980, p. 100.

[5] In «Sudpuglia. Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce», n 1, marzo 1983, pp. 65-114.

[6]  V.Bodini, Il fiore dell’amicizia. Romanzo, a cura di D. Valli, Nardò. Besa («Bodiniana»), 2014.

[7] Cfr. V. Bodini, I fiori e e spade. Scritti civili (1931-1968), a cura di F. Grassi, Lecce, Milella, 1984.

[8] V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-54), a cura di A. L. Giannone, Lecce, Piero Manni, 1987.

[9] V. Bodini, Corriere spagnolo (1947-1954), a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa («Bodiniana»), 2013.

[10] V. Bodini, Barocco del Sud. Racconti e prose, a cura di A. L. Giannone, Nardò, Besa («Bodiniana»), 2003.

[11] Su questa rivista cfr. Donato Valli, Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960), Lecce, Milella, 1985, pp. 133-162; Daniele Maria Pegorari, Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008, Bergamo, Moretti & Vitali, 2009, pp. 445-473. Di essa esiste anche la ristampa anastatica, L’esperienza poetica (1954-1956), con  Introduzione e Indici di A. Marasco, Galatina, Congedo, 1980.

[12] Non è una poesia da serra, in «L’esperienza poetica», 2, aprile-giugno 1954, p. 1. Gli editoriali, che compaiono all’inizio di ogni fascicolo della rivista,  non sono firmati ma sono da  attribuire tutti  a Bodini.

[13] Cfr. La cospirazione provinciale, in «L’esperienza poetica», 5-6, gennaio-giugno 1953, p. 2.

[14] Per un’accurata ricostruzione di questa polemica cfr.  Leonardo Terrusi, Vittorio Bodini contro Oreste Macrì: storia di una polemica letteraria, in «Critica Letteraria», 104, 1999,  fasc. III, pp. 521-547.

[15] V. Bodini, Quarant’anni di poesia, in «L’esperienza poetica», 1, gennaio-marzo 1954, p. 25.

[16] V. Bodini, Quasimodo iniziatore della poesia meridionale. Le sue terre d’uomo, in «La Fiera letteraria», X, 29, 17 luglio 1955, p. 5.

[17] Sul rapporto con Quasimodo e con Scotellaro ci sia permesso di rinviare a Antonio Lucio Giannone, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013, rispettivamente alle pp. 129-143 e 223-230.

[18] V. Bodini, Firenze, in Renato Aymone, Vittorio Bodini. Poesia e poetica del Sud (con appendice di testi inediti e rari), Salerno, Edisud, 1980, p. 127.

[19] Ivi, p. 131.

[20] Ivi, p. 124.

[21] Su questo particolare momento dell’attività bodiniana cfr. A. L. Giannone, Bodini prima della «Luna», Lecce, Milella, 1983, pp. 41-66..

[22] V. Bodini, La cultura tradizionale e la giovane letteratura, in «Domenica», 19 novembre 1944.

[23] V. Bodini, Il gasista di Montale, in «Cosmopolita», 16, 19 aprile 1945, p. 5; poi, col titolo Lettura montaliana, in «La Tribuna del Popolo», 5 novembre 1946, p. 3.

[24] Ibid.

[25] V. Bodini, Il gobbo e la narrativa italiana in «Ricostruzione», 20 aprile 1945.

[26] V. Bodini, Invito alla retorica (con una nota sul gioco d’azzardo), in «Domenica», 3, 20 gennaio 1946; poi, col titolo Letteratura e gioco d’azzardo, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», Bari, 26 marzo 1954..

[27] Ibid.

[28] V. Bodini, Mobili prospettive d’una letteratura, in «Libera Voce», 31-32, 16-30 novembre 1946, p. 3.

[29] Ibid.

[30] Ibid.

[31] V. Bodini, La poesía de Ungaretti en Allegria, in «Cuadernos de Literatura», 1947, p. 3.

[32] V. Bodini, Antichi e nuovi «ismi», in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 dicembre 1951.

[33] Ibid.

[34] Ibid.

[35] Ibid.

[36] Ibid.

[37] V. Bodini, Preliminare a La luna dei Borboni e altre poesie 1945-1961, in  Tutte le poesie (1932-1970) cit., p. 90.

[38] V. Bodini, Antichi e nuovi «ismi» cit.

[39] V. Bodini, All’insegna dell’Arte-Vita, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 1 gennaio 1952.

[40] Ibid.

[41] Ibid.

[42] Ibid.

[43] Ibid.

[44] Ibid.

[45] Ibid.

[46] V. Bodini, Le vergini ermetiche, in I fiori e le spade cit., p. 96.

[47] Ivi, p. 99.

[48] Ivi, p.96.

[49] Ivi, p.98.

[50] Ivi, p.99.

[51] Ivi, p.97.

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