Il lato sinistro

di Walter Nardon

«Consideri», disse la donna che avevo davanti sistemando a terra due grosse borse della spesa di colore verde, «che io, nel mio stato, all’apertura della cassa ho rischiato di cadere e di perdere il posto che avevo guadagnato arrivando qui alle sei in punto». Era la seconda volta che alludeva al suo stato, ma non capivo quali problemi potesse avere e mi sembrava difficile che potesse essere considerata, davvero insospettabilmente, incinta.

Mary era raggiante. Irritata, ma raggiante:

«Guardi, non credo che sia possibile imputare a lui la causa della sua caduta. I due ragazzi che le correvano a fianco l’hanno spinta, questo lo hanno visto tutti. Noi eravamo qualche passo dietro di lei. Nella confusione, lui l’ha appena sfiorata con le gambe mentre lei barcollava, fermandosi in tempo per non travolgerla».

Quel lui ero io. Avrei dovuto difendermi da solo, ma mi sentivo a tal punto d’accordo con lei, che non potevo contraddirla, anzi avrei voluto rannicchiarmi in lei, nuotare in lei, o per meglio dire rotolarmi con lei sul divano-letto. La sua reazione d’un tratto mi aveva ispirato, perciò decisi di prenderla a braccetto, infilando la mia mano nell’incavo del gomito della giacca bianca che si chiudeva sul polso con un solo bottone. Non mi sbagliavo: che mossa magnifica.

Ma la donna che discuteva con Mary non ne voleva sapere. Era riuscita ad avere i quattro biglietti migliori per lei e per la sua famiglia, non poteva bastare? No, voleva anche delle scuse. Poteva essere una bella seccatura, ma qui devo confessare di aver compiuto uno dei miei piccoli capolavori quotidiani, inclinando leggermente la testa in avanti in un cenno compunto, quasi a togliermi con la mano un immaginario cappello in gesto di omaggio, ma badando bene a non dire una sola parola sull’accaduto. La donna, dall’espressione – almeno per quanto mi era dato di vedere – sembrò apprezzare. Del resto, tutto ciò che di insolito ci viene offerto il più delle volte è interpretato come un privilegio, anche se in questo caso non si trattava proprio di un vero omaggio. I dettagli non lo consentivano. Portava una giacca ocra con spilla d’oro e granate appuntata sul bavero, indossata con l’intenzione di farne la divisa di una tutrice del decoro. E infaticabile, inesausta, come il suo temperamento sembrava sottolineare. Le sue aspirazioni culturali avevano richiesto in coda uno sforzo non comune, che si accompagnava a quello sostenuto per la spesa, depositata saggiamente nelle due capienti borse quasi a significare che aveva a cuore lo spirito, sì, ma anche la materia. Molto bene. Povera donna. Il fatto è che il mio cuore era già preso: non potevo innamorarmi di lei.

Mary sorrise e mi guardò quasi con orgoglio, approvando il mio silenzio – aveva temuto, non a torto, che potessi imbarcarmi in una discussione – e strinse ancor di più a sé il mio braccio. Che gioia mi aveva portato quel piccolo sacrificio, in quale gesto di comunione ero riuscito a trasformare il fastidio provato per una reazione del tutto immotivata da parte del mio prossimo. Eppure mi dispiaceva che la donna rimanesse del tutto ignara del suo potenziale, perciò cominciai a cercare dentro di me, con l’attenzione capillare che si dedica a un oggetto smarrito ritenuto ancora presente, una possibile soluzione al suo problema. Razionalmente, prima di riuscire a indicarle una possibile via d’uscita avrei dovuto prendere in esame migliaia di ipotesi. Per fortuna, arrivò inattesa un’intuizione. Mentre io e Mary ci stavamo incamminando, fieri dei nostri biglietti e diretti verso una promettente serata al ristorante, mi girai e con voce cordiale le dissi: «I biglietti del teatro si accordano perfettamente con le sue borse». Lei non colse la portata dell’osservazione, tuttavia restò un po’ a seguirmi con lo sguardo, con aria, lo devo ammettere, sottilmente compiaciuta.

In effetti, il mio slancio sembrava aver preso il via nel migliore dei modi. Avevamo in tasca i biglietti per il concerto dell’indomani ed eravamo liberi, anzi avevamo un’intera serata di libertà. Che frase fenomenale: me la rigirai in bocca per assaporarla in tutta la sua estensione, perlustrando mentalmente un dominio che si allungava nelle ore notturne con un’invidiabile concatenazione logica. Mentre Mary armeggiava un po’ col cellulare cercando valutazioni del ristorante verso il quale ci eravamo incamminati, anch’io, come tanti, mi trovai per un istante a riflettere sul motore segreto delle cose. Non era forse per amore che mi ero trattenuto dall’occuparmi direttamente della donna dalle borse verdi? Una forza ordinava la contrazione e l’estensione delle fasce muscolari imprimendo il moto alla macchina biomeccanica e allo stesso tempo alimentando sia le osservazioni sui miei prediletti dati sensibili, sia i guizzi del mio intelletto che non cessava di interpretarli.

«Quattro virgola quattro su cinque», fece Mary, finalmente convinta della bontà della nostra scelta. Le sorrisi con soddisfazione.

Sul marciapiede si camminava con molto agio, in un crepuscolo quasi fresco ma più che accettabile. Tutto era nato dall’idea di uscire un’ora prima per prendere i biglietti. Io ero d’accordo; del resto, al di là di qualche contrattempo che può sempre capitare, l’esperienza della coda è in termini umani fra le più ricche che si possano incontrare in una giornata. Certo, comprare direttamente su Internet pagando una piccola commissione risolve molti problemi, ma non permette di cogliere il modo in cui la gente riesce a vivere in uno spazio relativamente ristretto. Dico sul serio. Più di una volta, dopo aver comprato i biglietti on line, mi sono messo volontariamente in coda – e proprio per comprare quei biglietti, sapendo già che erano stati presi – per valutarne appieno l’effetto. Per una donna che avevo urtato più o meno volontariamente, non avete idea di quante impressioni abbia messo da parte.

«Mi sta venendo una certa fame», disse Mary.

«Non dirlo a me». In effetti, si stava facendo proprio ora di cena.

Per trovare ispirazione sul menu che ci aspettava ci fermammo un istante davanti a una gastronomia, uno dei pochi negozi trionfali ancora rimasti in piedi in questo quartiere. Le grandi vetrine chiuse dalla serranda di metallo a larghe maglie romboidali promettevano abbondanza, una semplice forma di felicità a cui quasi tutti potevano aspirare. Nelle confezioni volutamente incerte e chiuse a mano con lo spago si intravedeva un’invenzione elementare, che aveva sì a che fare con l’anima del commercio, ma che in fondo sembrava ancora legata alla vita e alle sue difficoltà. Così pensai che l’acquisto, che in quasi tutti i negozi di abbigliamento si era ormai trasformato in un imperativo, in questo caso era ancora un’opzione possibile, un’esperienza inscindibilmente accoppiata a una promessa di felicità che sapeva di futuro e che si trovava in perfetto accordo con la nostra serata (e Mary era una garanzia, in fatto di promesse mantenute). Ho ancora un ricordo molto vivo di quelle vetrine perché poco dopo, girato l’angolo, ci trovammo davanti a un fenomeno inatteso.

 

2.

A farla breve, quasi un disastro. Dominava la luce giallo ocra dei lampioni, ma la macchina di traverso con i fari accesi e lo scooter rovesciato anch’esso con i fari ancora accesi rendevano la scena molto drammatica. I due mezzi stavano appena fuori della carreggiata, su una piazzetta trapezioidale chiusa su due lati dalle panchine. Le poche macchine in giro continuavano a circolare. A terra, a pochi passi da noi, una coppia dolorante cercava di togliersi il casco. Poco oltre, l’autista della macchina avanzava zoppicando tenendosi una mano sul torace.

«Dobbiamo chiamare un’ambulanza», disse Mary.

«Forse lo hanno già fatto».

Alcuni passanti erano intenti a osservare l’accaduto. Un edicolante di mezza età, basso, robusto, con un maglione grigio a motivi fantasia si era avvicinato ai ragazzi, che non si erano ancora rialzati. La ragazza, che si era tolta il casco, si lamentava di più: i jeans strappati sulle ginocchia erano macchiati di sangue. Il suo amico le aveva dato un bacio sul collo prima di alzarsi in piedi. A una prima occhiata, al di là delle contusioni, non mi sembrava che la cosa fosse grave. Un uomo molto alto, con un’aria di distinzione della quale non era facile intuire il motivo, entrò con la testa nella macchina e spense i fari. Così fece poco dopo sullo scooter il ragazzo, anche lui zoppicante.

Alla nostra destra, un sessantenne in ottima forma fumava osservando la scena.

«Hanno chiamato l’ambulanza?»

Fece un cenno di capo in direzione di una donna bionda che stava scrivendo compulsivamente sul cellulare e che era accompagnata, a sorpresa, dalla donna dalle borse verdi, che evidentemente ci aveva seguito e superato mentre eravamo fermi davanti alla gastronomia. Le lanciai un’occhiata interrogativa alla quale lei rispose accennando alla sua amica. Come a dire che tutto il nostro dovere era stato assolto, cosa che io non credevo affatto. Mary si avvicinò a loro per farsi un’idea dell’accaduto.

«Cos’è successo?» chiesi al quasi-pensionato, intuendo dal suo atteggiamento un carattere sopra la media.

«Niente. La Ford bianca stava uscendo dal cancello: non ha visto i ragazzi che arrivavano dal lato sinistro. È andata così. Cose che capitano».

Che sorpresa: quasi imperturbabile. Non mi sarei mai aspettato di assistere a un’indagine sull’ordine razionale del cosmo condotta con tanta sicurezza, a dispetto di una sigaretta tenuta in bocca davvero banalmente.

«Beh, certo, un po’ di prudenza…».

«Mah, loro sono sbucati da dietro la curva».

«Andavano troppo in fretta?»

«Non direi; ma certo dall’imbocco del cancello non era facile vederli».

«Ma non c’è uno specchio, montato proprio lì di fronte?»

«Sì, ma non è orientato benissimo».

La realtà è sempre sorprendente: è difficile scoprire l’ordine che la guida. Eppure un ordine la guida, sembrava suggerirmi il pensatore che fumava al riparo del portico. Trovavo il suo rimbambimento addirittura esaltante, perciò decisi di approfittarne:

«Che si dovrebbe fare, in questi casi? Intendo, dopo aver chiamato l’ambulanza».

«Mah, sperare che arrivi presto e comunque essere contenti di come è andata».

«E lei è contento?»

«Beh, sì, poteva andare peggio».

«Insomma, essere felici in fondo non è poi così difficile».

«Sì, se ci si accontenta».

Era un coglione, ma lo era così perfettamente che lo si poteva apprezzare. Intanto, Mary, che stava parlando con le due donne mi fece capire con espressioni significative che sulla donna dalle borse verdi non si poteva contare molto. I due ragazzi in piedi parlavano fittamente con l’autista della Ford bianca.

Il quasi-pensionato tirò fuori lo smartphone e fece una foto ai due mezzi.

«Non si sa mai. Nel caso mi chiamino a testimoniare».

Davanti a tanta sensibile idiozia non si poteva che provare un sentimento fraterno.

Venne verso di noi il signore distinto, quello che aveva spento il motore dell’automobile. Procedeva con l’aria e l’abbigliamento dello sportellista di banca.

«Perché fotografare una scena come questa, per un macabro gusto del souvenir?» chiese subito.

«No», disse di nuovo il quasi-pensionato, «per precauzione».

«Al di là di tutto», cercai di inserirmi, «io non ho ancora capito cosa sia successo».

«È successo che chi guida un’automobile oggi dovrebbe fare più attenzione», fece l’uomo distinto – che si chiamava (dico davvero) Ferdinando – «se non altro per le rogne che in un caso come questo l’assicurazione potrebbe tirargli addosso».

«Ma come? Non c’è copertura?»

«Non solo il torto è suo, ma bisogna vedere in che condizione fisica guidasse, poi in che condizione si trovasse la macchina, quindi lo specchio (era affar suo controllare che fosse ben orientato), oltre naturalmente alla questione riguardante i due giovani sullo scooter».

Per fortuna Mary si mise a guardare verso di me, cercando di distogliermi da una conversazione senza via di uscita. Visto che era stato fatto ciò che sembrava corrispondere al loro dovere, i miei interlocutori erano stati presi dall’occasione di un dialogo sulle tutele, proprie o degli altri, eventuali o effettive. Avevano preso il largo toccando ogni questione particolare e subalterna fino alle ultime clausole assicurative per gli under venticinque che in quel frangente non avrebbero comunque trovato applicazione, avendo l’autista con ogni evidenza superato questa soglia anagrafica. Su un punto il loro consenso era unanime: l’arrivo dell’ambulanza avrebbe chiuso l’episodio nel migliore dei modi. Così si davano la parola senza apparente motivo di screzio, ma intrecciando progressivamente una somma di proposizioni del tutto incongrue. Dopo aver tentato invano un paio di volte di porre il dubbio sulla pertinenza di alcuni passaggi logici, mi accontentai di dare una botta sulle spalle all’uno e all’altro, cercando di raggiungere Mary il più presto possibile.

Mentre mi congedavo, a pochi passi di distanza l’autista aveva rincuorato il ragazzo e ora parlava con la ragazza che sembrava reggersi in piedi un po’ meglio rispetto a pochi minuti prima.

Volevo chiedere anch’io alle parti coinvolte nell’incidente se avessero bisogno di qualcosa, ma non riuscii ad avvicinarmi. Avviandosi verso di me, Mary scosse un po’ i capelli legati da uno splendido nastro verde che in un primo momento avevo sottovalutato, ma che ora trovavo degno di tutta la mia attenzione: finalmente un po’ di pace. Ma già due passi dietro Mary arrancava nella mia direzione la donna dalle borse verdi – un verde più spento di quello del nastro – che non vedeva l’ora di mettere anche lei la firma sull’accaduto. Dovevo prenderne atto.

 

 

3.

«Ecco l’ambulanza», disse, appoggiando di nuovo le borse a terra e rimettendosi a posto i capelli con un gesto che ricordava con precisione inusuale la pettinatura di un autunno più lontano, quello in cui era stata una ragazza calendario (febbraio, dodici anni prima, in modo del tutto onesto) e studiava economia.

Per un mese ero passato a prenderla due volte in settimana.

Parcheggiavo sulla strada di fronte a casa sua, accendevo la radio e aspettavo che scendesse, sperando che la sua delirante famiglia non avesse nulla in contrario, visto che non si poteva certo dire che avessi davanti a me un futuro luminoso. Poi Cinzia scendeva e mi veniva incontro.

«Per fortuna non è successo niente», aggiunse.

«Sì», disse Mary.

Eppure qualcosa era successo, sia allora, sia nel tempo trascorso da allora, che nell’incidente, venti minuti prima.

I due infermieri scesero dall’ambulanza e aiutarono la ragazza a salire. Dietro, il ragazzo e l’uomo dalla Ford bianca, dopo aver parlato con l’autista dell’ambulanza che stava mettendo in moto, salirono entrambi sulla Ford e si diressero verso l’ospedale.

Era una ragazza complicata. L’avevo conosciuta in una sera particolarmente calda, verso la metà di agosto, nelle ultime giornate di un torneo di tennis in cui io ero uscito agli ottavi di finale. Accompagnava un’amica che era venuta a seguire l’incontro del fidanzato. Uscimmo un paio di volte con gli amici. Dopo qualche telefonata, qualche ora di conversazione, ci perdemmo di vista. In quella stagione avevo trovato lavoro in un teatro. Due mesi dopo, del tutto inavvertitamente, una sera mi aspettò all’uscita quasi in lacrime per chiedermi per quale ragione avessi smesso di chiamarla. Nella sua espressione c’era qualcosa di incomprensibile e confesso che rimasi davvero sorpreso di vederla appoggiata alla porta dell’uscita secondaria; tuttavia, data la sua reazione, mi sentii costretto a scusarmi, come se il suo stato d’animo di quei mesi fosse stato davvero indotto in modo inconfutabile dalla mia ostinata e inconsapevole indifferenza.

Così cominciammo a uscire: fu un bel periodo, ma breve. Una sera, mentre la riaccompagnavo a casa, mi disse in modo definitivo che non se la sentiva più di proseguire, che non era il momento, che le sembrava di correre troppo, come se quaranta o cinquant’anni, una vita intera – e, a suo dire, una vita già scritta – le stessero di colpo precipitando addosso. Replicai dicendole che erano sciocchezze, che all’orizzonte non vedevo nulla di già scritto; e certo all’epoca nulla che mi riguardasse aveva preso una piega ben definita. Dunque, non c’era granché da temere. Ma lei salì le scale intristita chiedendomi di non richiamarla. Naturalmente, non seguii il suo consiglio, la richiamai più volte: rispose sua madre. Più avanti le spedii anche un libro, a cui lei rispose con un breve biglietto cordiale. Tutto qui.

 

«Va bene», dissi a Mary «credo che sia ora di andare».

«Sì, siamo già in ritardo».

La piazza aveva ripreso una parvenza di normalità, in cui però si poteva ancora avvertire una lieve incrinatura che non si sanava con la convinzione diffusa che tutti avessimo fatto ciò che era richiesto. I due testimoni erano scomparsi.

«Arrivederci», dissi alla donna dalle borse verdi «e, mi raccomando, si riguardi».

«Arrivederci», rispose. Rimase per un po’ a seguirci con uno sguardo quasi attonito, come aveva fatto dopo aver acquistato i biglietti.

Sotto la luce dei lampioni la spilla sul bavero e le sue borse esprimevano un’illusione di sicurezza che evidentemente per lei continuava a rivestire una funzione determinante, come se questi oggetti, che avrebbero potuto vivere e che forse vivevano una vita autonoma da lei, fossero indispensabili per tenere unita la sua materia. Mary mi chiese se la conoscessi, così le raccontai in breve ciò che sapevo di Cinzia.

«Perché non me lo hai detto subito?»

«Perché non mi sembrava che fosse lei, e in fondo speravo che non lo fosse. Poi per un istante, proprio mentre le stavi andando incontro, mi è parso che mi abbia riconosciuto.

Una delle cose che ricordo meglio di quella estate è il proposito del mio amico Sandro Vannit, che voleva diventare un fuoriclasse. Non che fosse così dotato ma, anche in uno scambio normale, mostrava una concentrazione tanto intensa da superare i semplici limiti del gioco, come se i gesti in campo dovessero esprimere qualcosa della sua vita, abbastanza estroversa, nonostante fosse orfano di padre. Con altri due compagni ci iscrivemmo al torneo cittadino. Partecipavano molti giocatori del nostro distretto perciò sembrava un buon banco di prova. Io lo trovavo un terreno ideale per i miei esperimenti in un contesto che non conoscevo e che avrei voluto conoscere per strapparmi al luogo dove vivevo. Cercavo un posto in cui nessuno mi conosceva, dove mi sarei potuto muovere con più libertà. Fortunatamente, grazie a un’estrazione favorevole mi toccarono avversari alla mia portata e con alcuni colpi d’ingegno riuscii ad arrivare fino al traguardo quasi inverosimile degli ottavi di finale. Il mio amico Sandro, invece, trovò quasi subito la testa di serie numero uno del torneo e uscì al secondo turno (6-4, 6-2). Ricordo bene il suo incontro, l’ultimo di una serata sul centrale. Ancor oggi posso dire che il risultato non gli rese merito: gli scambi furono lunghi ma, come a volte capita, Sandro non riuscì mai a vincere il punto decisivo. A fine partita, scesi sul campo per salutarlo. Poi andammo insieme verso la macchina. Mentre mettevamo a posto le borse, nel parcheggio mezzo illuminato dai fari, a circa una decina di metri da noi, staccata da un gruppo di spettatori una bella ragazza dalla gonna scura ci guardava immobile con espressione impaurita, come se quel risultato sportivo l’avesse messa di fronte a qualcosa di inevitabile da cui ora non sapeva staccarsi. Era Cinzia».

 

4.

Il ristorante era diviso in piccole sale, ciascuna delle quali con quattro, cinque tavoli. Tutto era stato disposto con misura per dare forma a un ambiente discreto, in cui non emergeva l’inqualificabile ricerca dell’autentico che oggi rovina buona parte degli esercizi pubblici: era quello che era, senza ambizioni e senza rimpianti. Non che l’incontro con Cinzia fosse già alle mie spalle, ma nel corridoio ero stato preso da un accesso di vitalità. La presenza di Mary, il fatto di averla al mio fianco, rinnovava il mio entusiasmo nei modi più impensati: per capirci, ero pronto a partire con lei per un viaggio di tre mesi senza neppure passare da casa. Era meravigliosamente incoraggiante.

La cena mi piacque come non accadeva da tempo.

D’un tratto, guardando dalla finestra a fianco del nostro tavolino, mi trovai a pensare che la mia paura, il timore di non aver compreso ciò che ero e ciò che sono – che era alla radice di tutte le mie incomprensioni e delle mie imprese gloriosamente fallimentari – non era scomparsa per il solo fatto di sedere al tavolo con Mary, ma superata e resa inefficace: la potevo osservare come sulla pagina di un libro l’infuriare di un’epidemia nel nord Europa. Così l’immagine di Cinzia, col suo cappotto blu dai grandi bottoni, la sua gioia infantile e la convinzione assoluta di non poter in alcun modo rispettare le scadenze che aveva severamente imposto alla sua vita, non turbava quel che sentivo, se non nella misura di ciò che ancora le dovevo, non tanto per un passato remoto in cui ero rimasto senza risposta, quanto per il modo con cui l’avevo trattata in coda, come l’espressione di un prossimo ostile, refrattario a ogni comprensione, dal quale peraltro lei si distingueva in ragione di una sofferenza che aveva pochi simili.

Tornando a casa, in una realtà trasfigurata dalla presenza di Mary, mi dissi che avrei dovuto fare qualcosa di gratuito per riparare il danno, un gesto che si confondesse negli altri gesti volti in direzione di un miglioramento complessivo di ciò che ci circonda. Cercando il modo di seguire esattamente quest’intuizione, il mattino dopo buttai alcuni sassi nello stagno del parco e rimasi a osservarli mentre scomparivano inghiottiti dall’acqua. Poi mi trovai a fare qualcosa che non facevo da anni e che tuttavia mi sembrò accordarsi con il mio proposito. Entrai nella cattedrale, nella navata di destra, e cercai fino a metà l’altare laterale adeguato allo scopo. Presi una candela e la accesi per lei.

 

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