Italia pensante 2. Rosalia, la bambina che voleva sapere cosa fosse l’eresìa

di Andrzej Nowicki

Rosalia era l’unica figlia di Margherita, la padrona della pensione fiorentina. Un giorno tornò sconvolta dalla scuola. A tavola mi chiese: “Professore, che significa la parola eresìa? Il nostro prete, catechista, mi ha sgridato, ha detto che sono una eretica; ma io, non conoscendo questa parola, non ho potuto rispondere”.

“Lo spiego io” disse il cognato della padrona. “Intanto devi essere fiera di essere stata chiamata eretica. Eresìa significa in greco «scelta». Eretica è una persona che non vuole ciecamente credere in tutto ciò che dicono i preti, ma preferisce conoscere diverse opinioni per poter scegliere la più ragionevole”.

La piccola Rosalia mostrò subito la sua intelligenza e disse: “Se essere eretica significa aver diritto di conoscere opinioni diverse desidero sentire anche l’opinione del professore polacco per scegliere tra le due la migliore”.

“Mi dispiace – dissi – ma il signor colonnello ha spiegato il significato di questa parola in modo perfetto e perciò non sentirai da me un’opinione diversa. Posso solo aggiungere che il tuo desiderio di conoscere opinioni diverse e scegliere la migliore dimostra che sei una Persona Pensante. Il catechista ti ha sgridata perché la Chiesa non rispetta il nostro diritto alla Libertà di Pensiero”.

Tre anni dopo, nel 1963, ci riunimmo dopo la cena nella stessa camera e la nostra conversazione fu tanto interessante che da una buca del muro uscì un topolino per …sentirci meglio.

Vedendolo, cambiammo il tema della conversazione ed esprimemmo dodici diverse opinioni sulla presenza dei topi nella casa.

Io ricordai che la mia nonna, da bambina, amava i topi e ogni sera preparava per loro la cena coi migliori bocconi che trovava nei piatti dei genitori.

La Padrona ricordò che la casa, costruita nel Duecento e abitata sempre dalla stessa famiglia, della quale Rosalia era l’ultima discendente, dopo settecento anni aveva diritto ad avere i topi. Ma la maggioranza decise che bisognava comprare un gatto. A Rosalia, che da tre anni lottava per il rispetto del diritto di scegliere, fu concesso il privilegio di avere una voce decisiva nella scelta del gatto da comprare.

Come si poteva prevedere, il criterio della scelta non fu la capacità di cacciare i topi, ma la bellezza. Rosalia scelse la più bella gatta dell’intero negozio. Quando la vedemmo, ci innamorammo tutti; anche il topolino, che doveva essere la sua vittima. Ma era piccolo e non sapeva che i gatti mangiano i topi. Neppure la gatta lo sapeva. Quando si incontrarono, cominciarono a giocare insieme, come bambini piccoli. Rosalia non solo ammirava i loro giochi, ma spesso invitava anche me per osservare come giocavano.

Passarono altri tre anni. Nel 1966 né la gatta né Rosalia erano più bambine. La gatta scappava ogni sera dalla camera da pranzo per passeggiare sopra i tetti delle case. Quando tornava, doveva ascoltare i rimproveri della signora Margherita, che cercava di spiegarle l’immoralità del suo comportamento. Lei, la gatta, fingeva di non capire e sbadigliava per segnalare di voler dormire.

Rosalia, dopo gli esami di maturità, partì per Londra assieme a Luciana, per perfezionare la lingua inglese. Per mantenersi lavorava come tutrice di bambini piccoli, dai quali non potette imparare la lingua. Quando tornò a Firenze, i cambiamenti la indussero a disperazione.

“Mancava solo questo – mi disse – la mia mamma ha affittato le camere ai babuini”.

“Mi prendi in giro – le risposi –. Quali babuini?”.

“Li vedrà tra poco a tavola”.

Dopo dieci minuti vidi un bel ragazzo coi capelli neri ricciuti. Rideva e gridava a Rosalia: “Ciao, signorina Contessa”.

Rosalia rispose: “Ciao, Beduino Babuino. Che vuoi da me?”,

“Lo sai bene cosa voglio, ma te lo ripeto: voglio sposare te”.

“Sposare, sposare. Ma cosa faremo sposati?”.

“Tutto quello che vuoi. Mi hanno promesso la cittadinanza inglese e quando l’avrò, tutto il mondo sarà aperto a noi”.

Il giorno seguente incontrai quel ragazzo e gli chiesi chi fosse, che cosa facesse o che intendesse fare. Mi raccontò volentieri la sua storia.

Era un orientale, di nazionalità greca, di cittadinanza libanese. Quanto a studi, mi disse che non aveva tempo per simili sciocchezze e che si occupava solo di cose serie. Sapeva fare soldi, ma per spiegare le ali doveva diventare inglese. Già da due anni aveva abbandonato il nome greco e si faceva chiamare Johnny. Se avesse avuto una figlia l’avrebbe chiamata Deanne.

“Come l’attrice Deanne Durbin?”.

“Sì”.

Passò un anno. In una lettera la signora Margherita mi informò che Rosalia col marito e la figlia Deanne era partita per il Libano.

[“Presenza taurisanese”, a. XXXVI n. 7/8 di luglio-agosto 2018, p. 6]

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