Essere genovesi

di Ferdinando Boero

Che significa essere genovesi? Direi che è come essere nisseni, oppure cagliaritani. Tutti siamo legati, in Italia, alla frazione di paese in cui siamo nati. Basta andare poco più in là e già le persone sono “diverse”. Ed è anche normale che ognuno si senta migliore persino dei vicini di altri quartieri della stessa città. Il campanilismo deriva dalla frammentazione territoriale che caratterizza la storia italiana.

Cosa c’è di speciale ad essere genovesi, allora? Come tutti, ho i miei motivi per dire che la città dove sono nato è la più bella del mondo. Intanto è una città multipiano. Ho vissuto in California, vicino a San Francisco, la città più verticale d’America, in senso geografico (non per i grattacieli): sembra piatta in confronto a Genova, dove ci sono palazzi in cui si entra dal tetto, e si scende. Sono le funicolari e gli ascensori che ti portano da un quartiere all’atro. Le salite sono creuze, inventate per assorbire il ruscellamento delle grandi piogge. E poi c’è la trasposizione in Europa di un tessuto urbano del nord Africa: la casba. E c’è la Repubblica, l’insofferenza per il regno di una dinastia che decide tutto. I Dogi si estraevano a sorte tra 90 nomi di nobili, e stavano poco in carica: da qui nacque il lotto. L’insofferenza per l’autorità si sublima col mugugno, emblema di contraddizione e dissenso, da Balilla a Grillo. Un sugo verde, il pesto, stravolge una cucina nazionale caratterizzata dal rosso pomodoro. E poi la focaccia, bianca, a fare il tricolore. Certo, l’emblema dell’Italia è la pizza napoletana. La trovi in tutto il mondo. La focaccia no. La devi mangiare a Genova. Altrove non funziona, la devi gustare tenendola con un pezzo di carta oleata, mentre giri per i vicoli. E poi Genova vuol dire mare, marinai. Con Venezia (che però sta in una laguna) Genova ha dominato il Mediterraneo e il Mar Nero, tanto da aver affittato la sua bandiera all’Inghilterra: la croce rossa in campo bianco teneva lontani i pirati e diventò la bandiera dell’Inghilterra, poi incorporata nell’Union Jack. In cambio l’Inghilterra ha fondato a Genova il calcio italiano, con una squadra che porta il nome della città, ma in inglese: Genoa. 

Un genovese, Cristoforo Colombo, andò in direzione contraria e iniziò la globalizzazione. Genova inventa le banche, con il Banco di San Giorgio, e i blue jeans, con quel jeans che deriva da Genes, Genova in francese, scritto sulle balle di panno blu che venivano da Genova: blu Genova. Mazzini e Garibaldi (di Nizza quando era della Repubblica di Genova) hanno fatto l’Italia da repubblicani, e Genova si è liberata dai nazifascisti meritando una medaglia d’oro. Genova polo industriale assieme a Milano e Torino, col porto che le collega col mondo.  

Genova è andar giù da salita San Rocco, col suono della città che ti accoglie passando da un piano all’altro, e attraversare il centro storico ed emergere a De Ferrari da salita San Matteo, passando da Tangeri a Londra in cinque passi. Arrivare a Boccadasse e entrare in un altro mondo ancora. Salire a Castelletto, o al Righi, e vedere quello che in altre città non si vede: tutto. 

Ho “vissuto” tutta la città nel periodo in cui la personalità si forma, poi ho girato il mondo e me ne sono andato, ma solo a Genova sono a casa. La mia famiglia è di portuali, e stavo per diventarlo anche io. A volte rimpiango di non aver fatto quella scelta, perché porto vuol dire Genova. 

Ho visto le alluvioni, la frana di via Dino Col, e ora il ponte. Ce ne sono altri. Tutta l’autostrada ligure è fatta di gallerie e viadotti. Penso all’uscita di Nervi, che ti sembra di volare mentre la fai. E ogni volta rischio di uscire di strada per guardare la mia Genova da un’altra prospettiva. Una città lunga trenta chilometri, da Voltri a Nervi, che penetra in due valli (Bisagno e Polcevera) restando strettissima, schiacciata contro i monti che la riparano dalle nebbie di quelli che la guardano con quella faccia un po’ così. Genova con i musicisti, i poeti, gli architetti, gli attori e i camalli che, a volte, li riassumono. 

Nessuna città è come Genova, e i genovesi cercano di rifarla dovunque vadano, da Buenos Aires a San Francisco, o a Istanbul, dove hanno costruito la torre di Galata, a Odessa, che ha la sopraelevata fatta dai genovesi. Genova ha dato tanto, e ha preso tantissimo da tutti i posti con cui ha da sempre contatti. Genova accoglie e prende: parole, sapori, architetture, tessuti. Una città così caratterizzata territorialmente si estende però in tutto il mondo: un’ameba che ingloba. Frammentata nei suoi quartieri i cui abitanti, ovviamente, si sentono superiori a quelli di tutti gli altri: E sémmo de Zêna e sémmo da Fôxe, dicevano i Trilli. Non parliamo di Genoa e Samp. Ma poi, quando viene il momento, siamo tutti assieme e le disgrazie ci rendono solo più forti. 

[“Il Secolo XIX” di lunedì 17 settembre 2018]

Questa voce è stata pubblicata in Prosa e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

1 risposta a Essere genovesi

  1. Maria Cristina Rovida scrive:

    Io sono milanese, ma a Milano sono arrivata già grande. Ho vissuto in tutta Italia con la mia famiglia, ma in vacanza sempre in Liguria. E poi, con mio marito ho conosciuto Sori e da lì GENOVA… che quando ci arrivo ho questa profonda, dolcissima e struggente sensazione: “finalmente a casa!”….La conosco bene ormai perchè mi piace girare per tutti i quartieri, non come una turista, ma come una del posto….sono proprio innamorata di questa città. E’ il luogo dove il mio cuore, che non ha radici da nessuna parte (nemmeno a Milano dove sto ormai da 50 anni, ahimè) trova pace assoluta. Genova mi appartiene ed io a lei!!!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *