Di mestiere faccio il linguista 38. Che razza di lingua è questa?

di Rosario Coluccia

Attraverso lo schermo di un computer (o di un cellulare, nelle diverse e sempre più evolute forme che strumenti del genere assumono, come il tablet) passa molta parte della comunicazione scritta che quotidianamente pratichiamo. Vale per tutti (o quasi). Anche chi usa poco (o non usa affatto) certe forme di scrittura elettronica è portato a porsi le domande «che razza lingua è questa?» e «come si spiegano certe caratteristiche di questa lingua scritta che sono così diverse da quella a cui siamo abituati?». Le diverse forme di comunicazione (chat, posta elettronica, messaggini) hanno certamente caratteristiche comuni e anche convenzioni proprie e specifiche di ciascuna di esse, che non si trasferiscono automaticamente da una modalità comunicativa all’altra. Talora distinti, i nuovi media tendono sempre più spesso a sovrapporsi nelle funzioni che possono svolgere. Con il cellulare possiamo non solo telefonare e mandare brevi messaggi, che sono le funzionalità per così dire “primarie”, quelle adottate in preferenza o quasi esclusivamente dagli utilizzatori più modesti (o guardinghi) di questo mezzo. Ma con intensità assai maggiore e da un numero crescente di utenti il cellulare viene usato per operazioni molto più complesse: navigare nella rete, mandare interi filmati, guardare spettacoli e trasmissioni di canali televisivi pubblici e privati, ottenere le informazioni più varie, dalle previsioni del tempo alle indicazioni del percorso stradale più breve, ecc.

Anche per rispondere alle caratteristiche intrinseche di immediatezza e concisione, il testo online comporta una serie di caratteristiche strutturali ai vari livelli della lingua. Eccone alcune, le più evidenti. La punteggiatura tende a ridursi al punto fermo, all’interrogativo, all’esclamativo (gli ultimi due spesso ripetuti, tre o quattro volte, a segnalare l’intensità del dubbio, della sorpresa, dell’ammirazione ecc.). Abusatissimi i puntini sospensivi. Confesso che a volte, in certi messaggi che ricevo, non riesco a capire la funzione dei tre puntini che chiudono un periodo. Immagino che ci sia un significato sotterraneo che mi sfugge e cerco di scoprirlo per non sentirmi stupido. Ma non sempre ci riesco, a volte le intenzioni o le allusioni di chi ha inserito quei puntini restano sfuggenti. Accenti e apostrofi raramente rispettano le regole tradizionali della grammatica. Sono frequentissime forme come si (affermazione, in luogo di ; ma può confondersi con si, pronome personale di terza persona, maschile e femminile); ne (negazione, per ; ma può confondersi con ne, pronome personale e avverbio), se (in luogo di ; ma può confondersi con se, congiunzione con valore condizionale, concessivo, causativo, ecc.), (anziché po’; po’ è forma tronca di poco e di poi, l’apostrofo serve a segnalare la caduta della finale, evitiamo di scrivere con l’accento), qual’è (per qual è; questo è davvero un errore diffusissimo, lo leggiamo in articoli di giornali e perfino nei libri). Un caso particolare costituisce E’ (per È). Sulla frequenza della scrizione errata incide un elemento esterno: il segno non c’è nelle tastiere comuni e chi scrive ha spesso fretta, non vuol perdere i pochi secondi necessari per cercare la grafia corretta con la funzione “simbolo”, che consente di inserire tratti che non sono disponibili sulla tastiera.

Anche le maiuscole e le minuscole sono oscillanti, dipendono più dalle attitudini personali dello scrivente che dal rispetto dell’ortografia. Esiste una funzione del sistema di scrittura che colloca automaticamente l’iniziale maiuscola dopo il punto fermo, il punto interrogativo, il punto esclamativo. Ma può essere disattivata, se lo scrivente intende riservare a sé stesso l’opportunità di ricorrervi o meno. Per attrarre l’attenzione di chi legge (con finalità che possono essere le più varie, positive o negative, di approvazione o di dissenso) sostantivi, verbi, aggettivi, anche nomi propri possono essere tracciati interamente in maiuscolo.

È frequente il ricorso alle abbreviazioni (6 ‘sei’; 3 ‘tre’ in forme come 3no ‘treno’, 3mendo ‘tremendo’; tvb ‘ti voglio bene’; tat ‘ti amo tanto’: + o – ‘più o meno’. È onnipresente x ‘per’, anche in composizione: xfetto ‘perfetto’). Si usano grafemi non presenti nella grafia italiana come k (xké ‘perché’). Spesso le abbreviazioni si applicano a termini o piccole frasi inglesi di uso comune (è anche questo un sintomo della pervasività di quella lingua nella nostra cultura, che si manifesta nelle modalità più varie): 4 (four che simula l’inglese for ‘per’) viene utilizzato in scritte come 4ever ‘for ever’ (cioè ‘per sempre’) e 4u ‘for you’ (‘per te’). Esistono siti che danno la lista delle abbreviazioni più frequentemente in uso nella rete, con le finalità più varie: capire la lingua dei giovani, fornire «la lista ragionata di 143 abbreviazioni che servono a interpretare i moderni messaggi SMS», «approfondire la lingua per iniziare a usare le abbreviazioni SMS in inglese». Non manca chi chiede: «mi insegnate a scrivere abbreviato?». A volte nelle chat si introducono insistentemente forme ancora più criptiche di comunicazione (come a significare: vale solo per noi, ci capiamo solo noi che facciamo parte del medesimo gruppo social).

Nel trattare di questi usi e, ancor più, della loro ricaduta sull’italiano comune, il rischio principale è quello di abbandonarsi allo stereotipo secondo il quale la rete sarebbe tra i responsabili dell’“imbarbarimento” della nostra lingua. Giudicare non è semplice, i movimenti in atto nella lingua sono molteplici e contrastanti. Pertanto, senza catastrofismi e senza assoluzioni, converrà riflettere su alcune tendenze oggettive. È senz’altro vero che abbreviazioni ricorrevano anche negli antichi manoscritti medievali; secoli prima, già Tirone, segretario di Cicerone, aveva inventato un proprio sistema per scrivere in modo abbreviato. Quindi, se vogliamo dir così, i tratti abbreviativi che registriamo nella lingua della rete costituiscono la riproposizione in chiave moderna di un fenomeno antico. Tuttavia un problema si pone quando certi modelli grafici si trasferiscono dalla scrittura informatica a scritti di altro tipo e di diverso livello. Non va bene indirizzare così una lettera: «X il prof. …»; né intestare così una domanda di assunzione: «X l’Ufficio del Personale …» (la domanda sarebbe scartata in partenza).

I messaggi della rete sono spesso accompagnati da mezzi non verbali, le faccine, che con parole concorrenti, provenienti da altre lingue, chiamiamo anche emoticon (dall’inglese, composto di emot(ion) ‘emozione’ e icon ‘icona’), smileye smile (dall’inglese, da smile ‘sorriso’), emoji (dal giapponese, composto di ‘immagine’ e moji ‘lettera, carattere’). Le faccine, delle quali il 17 luglio ogni anno si celebra la giornata del festeggiamento mondiale, si utilizzano per esprimere sentimenti, sensazioni, situazioni svariatissime. Secondo alcune statistiche ci sono più di 2.800 faccine diverse da utilizzare nei social, nei messaggini, nella posta elettronica. Spesso vengono inviate senza testo, chi le manda ritiene che basta un simbolo preconfezionato per comunicare. Trionfo della ripetitività e della superficialità. E, soprattutto, predominio dell’immagine sulla parola, incapacità di percepire analiticamente il messaggio e di argomentare in forma coesa e coerente, rinunzia alla duttilità e alla sottigliezza che solo la lingua consente. La lingua è molto più potente, permette di esprimersi in forme più raffinate. Le faccine vanno bene qualche volta, ma non devono diventare regola. La scuola deve puntare ad altro, mirare più in alto. Altrimenti, è inutile lamentarsi perché gli studenti, di qualsiasi età, scrivono male. E spesso non capiscono quel che leggono.

Io non ringrazio mai per le faccine di auguri collettivi che ricevo (come quasi tutti), a Natale o a Capodanno. Se mi devi fare gli auguri, esigo qualche parola, pensata per me e mandata solo a me. Se non ce la fai, meglio niente. Mi spiego. È stupido l’atteggiamento di chi si chiude di fronte alle incalzanti novità del mondo in cui viviamo. Ma è altrettanto stupido accettare tutto quel che capita senza riflettere. Capire per migliorare, insomma. Senza dire sempre sì, di fronte a tutto. Senza lasciarsi sommergere dalla marea montante. Vale per la lingua, vale per quello che succede intorno a noi.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di domenica 30 settembre 2018]

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (seconda serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *