Dare la voce

di Paolo Vincenti

“Ed ho sentito nel silenzio 
una voce dentro me 
e tornan vive troppe cose 
che credevo morte ormai…”

(“La voce del silenzio”  – Mina)

“E quando si riaccese la sala, Bela, attore di terz’ordine dell’Off Broadway, che saltuariamente si prestava anche al doppiaggio, si riparò istintivamente gli occhi accecati dalla luce intensa. Una stretta di mano con i colleghi doppiatori e con il tecnico del suono, e abbandonò lo studio, uscendo nel freddo pungente della notte americana. Appena fuori, iniziò a tossire violentemente. Aveva dovuto interrompere almeno dieci volte la registrazione a causa di quegli attacchi di tosse che aveva attribuito ad una improvvisa raffreddatura, ma che erano in realtà i sintomi di una tisi acuta ormai giunta allo stadio finale. Ogni volta, nel corso degli ultimi mesi, ripeteva la stessa storia, ai colleghi e a sé stesso: “accidenti a questo costipo che non vuole passare!”. Si fermò da Danny’s, il bar all’angolo della Maine Street, e ordinò un punch per riscaldarsi. Uscito dal bar, fra i colpi di tosse, nella notte stellata e cristallina, guardò il cielo e sospirò. Giunto nella suo vecchia stamberga, si ricordò che non aveva niente da mangiare. Pensò che il giorno dopo avrebbe chiesto al produttore del film un acconto sulla paga e, ancora vestito, andò a coricarsi su quel letto dalle assi malsicure e cigolanti.

Così si addormentò e non si svegliò più”.                                                                                    .                                              ———————-

Questo raccontino mi è venuto di getto, dopo aver ascoltato in rete un’intervista a Romano  Malaspina. Chi sia costui, si chiederanno molti. Per una generazione di ragazzi cresciuti fra gli anni Settanta e gli Ottanta, questo nome vuol dire tanto. Infatti, a lui appartiene la voce del mitico Goldrake, ovvero il protagonista dei cartoni animati “Atlas Ufo Robot”, che spopolavano in quegli anni e che, grazie alle repliche e alle videocassette (oggi dvd), hanno avuto un successo televisivo lunghissimo. “Goldrake!!” “Lame di fuoco!” “Doppio maglio perforante!” Tutti ripetevamo le grida di battaglia dell’imbattibile robot. Nel mio racconto, ho dato al protagonista il nome di Bela, come omaggio a Bela Lugosi, un famoso attore del cinema horror degli anni Trenta, conosciuto soprattutto per la sua magistrale interpretazione di “Dracula” . La vita di Bela Lugosi divenne oggetto del film del 1994 “Ed Wood”, di Tim Burton, in cui Lugosi veniva interpretato da un superbo Martin Landau (che gli ultraquarantenni come me ricorderanno per il telefilm fantascientifico “Spazio 1999”, trasmesso dalla Rai tra fine anni Settanta e inizi anni Ottanta).  Ma tornando a Malaspina, attore e doppiatore, di ascendenze aristocratiche toscane, e per questo conosciuto nell’ambiente come “il principe”, egli ha lavorato molto poco nel cinema ma in compenso, grazie alla sua voce profonda e originale, tantissimo nel doppiaggio. Malaspina (sua anche la voce di Hiroschi in “Geeg robot d’acciaio” e di tanti altri) è uno strano personaggio, sembra un marziano, un cavaliere errante, un gentiluomo d’altri tempi.

L’intervista, che si trova in rete, mi ha colpito molto perché l’attore afferma senza giri di parole di essere un fallito:  “ Sono strabiliato dell’affetto che mi dimostrano i fans di Goldrake. Io non ho combinato niente nella vita. Non riesco a capire come soltanto con la voce io sia riuscito a trasmettere tante emozioni. Ho doppiato molti film ma questa cosa di Goldrake è speciale, quando lo dico la gente si mette a piangere, quelli che erano i ragazzi di allora mi dimostrano un affetto smisurato… Io, che in fondo non ho sfondato, pur avendo fatto l’Accademia, né in teatro né nel cinema, ho trovato tanto amore nei quarantenni che mi mandano lettere piene di sentimenti positivi… Ci sono tanti doppiatori di talento, anche più bravi, ed io mi sono sempre chiesto come mai tanta venerazione sia riservata a me”. Poi l’attore, che vive a Roma, vicino Piazza del Popolo, parla chiaramente delle sue condizioni economiche e dice di pranzare insieme ai piccioni e ai gatti, facendo capire di versare nell’indigenza ma al tempo stesso di non richiedere né poter accettare l’aiuto della Caritas, un’associazione che detesta profondamente. “Alabarda spaziale!”, e ancora ritornano in mente i tormentoni goldrakiani. In un’altra intervista,  più recente, curata da Gerardo Dicola, Giorgio Bassanelli Bisbal e Andrea Razza, si vede con un primo piano fisso l’attore Malaspina che, seduto su una panca di legno in un ambiente scarno e disadorno, parla per tre ore, dico tre ore, in una prova di resistenza notevole, affiancato solo da Andrea Razza che ad un certo punto prende posto accanto a lui e lo coadiuva nell’intervento. Un filmato paranoide, ai limiti del claustrofobico, in cui Malaspina confessa di essere un solitario, di sentirsi un cavaliere d’altri tempi  e di suscitare tante antipatie per il suo carattere certo difficile. “Io non ho sfondato” ripete come un mantra, “non ho combinato nulla di buono e vivo ai limiti della miseria, ma mi alimento di dignità ed orgoglio. Non ho sfondato, forse perché non sono bravo, per il mio brutto carattere o anche per motivazioni politiche”. In effetti,  la sua biografia racconta che Malaspina fosse da più giovane un convinto nazionalista e militarista, insomma molto vicino al movimento della destra storica. Poi dice che un attore per fargli uno scherzo gli ha messo dello zucchero nel serbatoio della motocicletta e lui è caduto in terra rischiando di sfracellarsi. Malaspina se la prende anche con le fantomatiche mafie del doppiaggio italiano: “è squallido quello che avviene nel mondo del doppiaggio”, dice”, “un vero schifo”

Ma ora, rapido cambio sequenza, si direbbe nel linguaggio cinematografico. Ovverosia, lascio l’attore Malaspina e introduco un nuovo argomento. Ad  unanime giudizio di pubblico e critica, uno dei più bei telefilm nella storia della televisione è “Happy Days”, serie di culto per intere generazioni  in ogni angolo del mondo. Ogni tanto mi capita di vedere l’attore Henry Winkler, che interpretava  il mitico Artur Fonzarelli,  in qualche rapida apparizione, soprattutto nei film per la tv Usa degli ultimi anni. L’impressione che ne traggo non è splendida, in verità. Incanutito, ingrigito, ordinario, insomma un anonimo vecchietto, se non si conoscesse il suo sfolgorante passato. Nel senso che questo attore ha dato volto e corpo ad uno dei più amati, imitati e seguiti personaggi televisivi di sempre: Fonzie, all’epoca, era per noi ragazzetti quasi un guru, certamente un punto di riferimento, un opinion leader, un venerabile, io mi scrivevo i suoi celebri aforismi sul diario di scuola. Voglio ricordare altri due telefilm, molto meno conosciuti ma che ho altrettanto amato nella mia adolescenza: “I ragazzi del sabato sera” e “I professionals”.  Un recupero memoriale che graffia la gola, scuote nell’intimo  e scoperchia emozioni  rinchiuse nel paleobarattolo del tempo.   “I ragazzi del sabato sera” venne trasmesso nei primi anni Ottanta da Canale 5 e poi da svariate tv locali. Il telefilm era degli anni Settanta e il protagonista assoluto, un giovanissimo John Travolta, che di lì a poco sarebbe diventato la star mondiale de “La febbre del sabato sera”. In effetti il titolo italiano del telefilm giocava proprio, evocandola, sulla fama del film. Vinni Barbarino, questo il nome del personaggio interpretato da Travolta, di chiare origini italiane, era un teppistello che frequentava una classe di teppistelli nella quale andava ad insegnare il grandioso professor Gobe Kaplan (lunghi bananoni e collettoni anni Settanta), una sorta di precursore del Keapling de “L’attimo fuggente” e poi di molti altri insegnanti televisivi e cinematografici. Quella di Kaplan era una classe speciale, composta da pessimi elementi di Brooklin, disadattati, un po’ svitati,  con nessunissima voglia di studiare, i quali si inventavano qualsiasi cosa pur di movimentare la monotonia della lezione.  Indimenticabili le sigle de telefilm: quella iniziale, veloce e immediata, e quella finale, la più bella, un romantico lentaccio rock.

L’altra serie di cui ero innamorato è “I professionals”, un poliziesco inglese girato sempre negli anni Settanta. I protagonisti, Body e Doyle, erano dei duri, psicologicamente e atleticamente preparati a missioni difficili, cinici, scafati, spietati all’occorrenza. Il loro era un corpo speciale, il C5, composto da super poliziotti che si occupavano di casi gravi come il terrorismo internazionale. Insomma, il controcanto molto british agli americani “Starsky e Hutch” che negli stessi anni impazzavano sugli schermi tv. Ma se questi ultimi erano mielosi, buonisti, e piacevano al mondo gay, Body e Doyle erano invece molto “maschi”, rudi quanto basta e  col fascino degli scavezzacollo. Ho ripensato a questo telefilm, trasmesso all’epoca da Rai 3, qualche tempo fa apprendendo della prematura morte di Lewis Collins, l’attore che interpretava Body, dei due colleghi, il mio preferito. Anche di questa serie, una menzione speciale per la sigla: stratosferica!

 Aggiungo un’altra serie tv degli anni Ottanta che ebbe un’enorme fortuna: “Dallas”. Di questo telefilm, io amavo in particolare il cattivone, JR Ewing, tanto farabutto quanto seducente, tanto spietato quanto attraente.  JR era interpretato da Larry Hagman, un ottimo performer , anche lui scomparso prematuramente l’anno scorso.

Mi sono occupato di tre serie molto diverse: una sit com con protagonista un teen idol come Travolta, un poliziesco tutto azione adatto ad un pubblico giovane, e uno sceneggiato, come si diceva allora, precursore delle odierne soap operas, indicato per un pubblico maturo, preferibilmente femminile. Eppure io seguivo tutti e tre. Personalità multipla?  Altro che “Memoria totale”, di Philip k. Dick! (ricordate il film “Atto di forza” , tratto dal romanzo?). Se un analista dovesse aprire la mia testa, vedrebbe volar via tanti piccoli me, come nella “Golconda” di Magritte. Ma non è il mio personale dedalo di identità il centro di questo pezzo. E ritorniamo al tema iniziale: il doppiaggio. Sì, perché tutti e quattro i personaggi testé citati sono accomunati dalla loro voce italiana: per Fonzi,  Vinni Barbarino, Body  e JR, il medesimo doppiatore, cioè Antonio Colonnello. Il suo nome è nel mio ricordo legato strettamente a quello dei personaggi televisivi doppiati. Non saprei  immaginare, e credo nessuno in Italia, Fonzie con un’altra voce, nei suoi caratteristici “uau!” e prolungati “heiii!”. Ho letto in rete un’intervista a Colonnello in cui il celebre doppiatore, che ha dato la voce a tanti altri noti attori cinematografici, parla dei suoi colleghi di lavoro, del rapporto con gli attori che doppiava, in particolare con  Larry Hagman, e dice:  “Io ho sempre tentato di lavorare in quel senso di essere un po’ camaleontico. A seconda dell’impatto emotivo che avevo con il viso, cercavo un colore, una tonalità, delle risonanze vocali che non fossero sempre quelle stereotipate mie; e qualche volta ci sono riuscito perché sfido chiunque a dire che, per fare due esempi lampanti, Fonzie e J.R. hanno la stessa voce. Non è così, assolutamente, hanno due voci differenti. La voce vuol dire anche trovare dei risuonatori, cosa non sempre facile. Ho sempre tentato di cambiare voce. Bruno Ganz ne ‘L’inganno’ di Schlöndorff ha una voce che non reputavo di avere,  eppure l’ho trovata. Non è così facile doppiare come si pensa, che uno va al leggio ha dei fogli adattati, no, c’è tutto un processo di osmosi, di avvicinamento, di spersonalizzazione che rende la professione seria quando c’è il tempo per poterlo fare. Oggi dubito che i tempi di riflessione siano quelli di una volta, non ci sono più. E’ un grande galoppare verso la trasformazione, nei tempi più rapidi.”   E alla domanda: “ Chi sono i doppiatori che lei oggi reputa essere i migliori?”, Colonnello risponde:“Tra i giovani Luca Ward, lo trovo molto bravo… e per quanto riguarda le donne non c’è realmente una che mi abbia colpito particolarmente. Mentre tra i senior non mi dispiace un caratterista della CDC, Renato Mori: è la voce di Morgan Freeman e di tanti altri ed è bravo. Tra i senior apprezzo anche Sergio Fiorentini, voce di Gene Hackman”.

 Non so se Colonnello abbia fatto parte di quelle che Malaspina chiama le mafie del doppiaggio.  Provo un poco di compassione per la voce di Goldrake.  La Legge Bacchelli  stabilisce che personalità illustri del nostro paese, soprattutto artisti, che versino in stato di indigenza possano avere un contributo al loro sostentamento. Ma se uno, come Malaspina, non ha preso riconoscimenti,  non ne ha nemmeno diritto, e questa è una buffa e beffarda sorte. Comunque, un mondo affascinante, quello dei doppiatori, che sono in genere professionisti che hanno fatto studi specifici e si dedicano esclusivamente a questa attività. A volte degli attori si prestano a doppiare, ma si tratta di casi meno frequenti. Oltre al timbro e al colore, quando amiamo doppiatori come Colonnello (scomparso nel 2005, all’età di 67 anni), riconosciamo e apprezziamo quella che Roland Barthes definisce  “la grana della voce”.

Al netto delle accuse di Malaspina,  per la nobile arte del doppiaggio l’ Italia è famosa nel mondo ed essa si tramanda di padre in figlio e per questo esistono delle famiglie storiche.  Vi è certo una grossa barriera nella traduzione dalla lingua originale. Perciò, fondamentale diventa il lavoro dei dialoghisti; una cattiva traduzione penalizza anche un film di ottimo livello, così come una buona traduzione ne migliora uno scadente. Ma come sempre, vi sono delle eccezioni. La traduzione, che è comunque opera di adattamento,  deve tenere conto dello spirito dell’opera originale ma al tempo stesso rispettare un sincronismo perfetto e il labiale. È come tradurre in letteratura: grandi romanzi e poesie sono stati snaturati da traduzioni poco calzanti o esse stesse poetiche, e invece esaltati da traduzioni eccellenti.   Che i doppiatori italiani siano considerati i più bravi del mondo,  non mi sorprende perché  il teatro occidentale è nato in Grecia, si è diffuso a Roma e da qui irradiato in tutta l’Europa. La voce ha delle potenzialità enormi e lega insieme volti e personaggi cari alla memoria.

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