Camilleri e i poeti che vogliono salvare i nostri destini

di Antonio Errico

Chissà se poi Andrea Camilleri non rassomigli davvero a Tiresia, l’indovino: con quegli occhi ormai senza alcuna luce, con quella voce roca che sembra provenire dalla profondità di un pozzo di mistero, con le sopracciglia che sembrano i cespugli di un fantasioso disegno di bambino. Chissà se Tiresia, l’indovino, la creatura multiforme, colui che, come dice Dante, mutò sembiante/ quando di maschio femmina divenne / cangiandosi le membra tutte quante”, non avesse la stessa ironia perforante, lo stesso disincanto nei confronti di se stesso e del mondo tutto intero, anche lo stesso malcelato smarrimento nei confronti del tempo che prova Andrea Camilleri. “Conversazione su Tiresia”, il monologo che il Maestro siciliano ha scritto e interpretato nello scorso giugno al teatro greco di Siracusa, adesso è un film e presto sarà un libro per Sellerio. Camilleri ha 93 anni. Non è giovane e non è vecchio: è un’icona di questo tempo. Dice che alla sua età, ormai cieco, ha avuto la curiosità immensa di capire, o meglio di intuire cosa possa essere quell’eternità che sente sempre più vicina. Ma forse l’eternità si può percepire soltanto attraverso l’azzardo di un vaticinio, di una profezia, con l’ energia di un sguardo cieco che trapassa la densa fumaglia del presente e raggiunge orizzonti di verità diversamente impensabili, e vede una luce che senza quella cecità non si può vedere.

Alla prima pagina di “Amore lontano”, Sebastiano Vassalli dice che gli antichi attribuivano ai ciechi una capacità di inventare, di elaborare e di raccontare le storie degli uomini, superiore a quella di coloro che vedono. Avendo meno percezioni, i ciechi avevano più vita interiore. Erano dei veggenti che sapevano riempire con figure apparentemente reali il buio in cui vivevano.

Tiresia, l’indovino, e Andrea Camilleri, il narratore che si fa interprete dell’indovino, trovano una possibile comparazione anche con quella figura enigmatica di eremita che compare in una poesia di Vittorio Bodini. Ciascuno di loro rappresenta ed esprime la condizione di una solitudine, forse più esattamente di una separatezza sapiente dalla vacua superficialità del presente, di una saggezza del tempo, di una coscienza del futuro.

L’eremita di Bodini vede oltre, sa, conosce il possibile, il probabile, l’inevitabile.

Quella dell’eremita, del poeta veggente, è una figura letterariamente, semanticamente e cronologicamente stratificata, un archetipo, un’esperienza figurale che stabilisce interrelazioni con il solipsismo, con la verità, con il mistero, con il mito e la storia, il silenzio e la parola, la ragione e l’emozione.

Nell’identità archetipica dell’eremita veggente c’è il tempo passato e il tempo a venire, c’è la vita e la morte, il principio di qualcosa e la fine di un’altra, c’è tutta l’atemporalità della poesia, il suo oltrepassare la storia e la geografia.

L’eremita di Bodini rifiuta un paesaggio che ha appiattito le forme e i significanti di una condizione dell’esistere connotata da una reciprocità, da un interscambio con gli elementi della natura. L’eremita di Bodini sa qual è il modo in cui finirà la Storia.

Allora, forse per comprendere di più, per approssimarsi alla verità, occorre la visionarietà di un vecchio, di un veggente, di un poeta.

In un passaggio dell’intervista apparsa sulla “ Stampa” il 10 di ottobre del 2011, al rintocco preciso dei suoi novant’anni, otto giorni prima di lasciare per sempre quel villaggio interiore che è stato per lui Pieve di Soligo, Andrea Zanzotto disse di sentirsi ossessionato da una modernità cannibale. Aveva detto che la stoltezza che circola in questo tempo si palpa come un vento, che c’è qualcosa di azzardato e di friabile in questo nostro presente difficile da governare, da controllare.

Forse i vecchi hanno la capacità di esplorare territori di pensiero sconosciuti, di giungere a profondità che agli altri sono impedite. Forse i poeti hanno una visionarietà che agli altri viene risparmiata: vedono oltre, squadernano le logiche dell’istante, e per questo a volte – spesso – sono inquieti, sono infelici.

Andrea Zanzotto era vecchio ed era poeta. Se fosse anche infelice avrebbe potuto dirlo lui soltanto. Riusciva a portare lo sguardo oltre i confini ai quali gli altri sguardi si arrestano. Valicava le frontiere della comune visione e della comune interpretazione dei fatti e dei fenomeni. Scrutava gli orizzonti e vedeva profilarsi figure spettrali di idee, di modelli di esistere: emergenze, conflitti, caos, fondamentalismi, caduta di valori, eclissi dell’etica, deformazioni della storia, le infezioni dell’epoca, le ambiguità dei linguaggi, l’affatturazione dei significati, l’impoverimento dell’esperienza, i naufragi dell’Io, la dissipazione della saggezza.

Forse Zanzotto aveva previsto tutto e aveva compresso le previsioni in un epigramma che dice così: “in questo progresso scorsoio/non so se vengo ingoiato/ o se ingoio”.

Ecco come lo scarto dalla comune grammatica della visione, l’interpretazione ulteriore degli accadimenti e delle circostanze del tempo, lacera l’apparenza e smaschera le finzioni del progresso, i suoi travestimenti, i trucchi, gli imbrogli, le menzogne, l’insignificante spettacolarità, la frivolezza, il paradosso, l’esasperazione spinta anche oltre i raggiri dell’artificio. La riflessione svela icone artefatte e imprudenti idolatrie. Stabilisce confronti allarmanti. Dice che cosa non è davvero progresso e contagia il progresso vero, quello che è un dono che l’uomo fa all’uomo. Dice che cosa è soltanto camuffamento prodotto dalla moda, dai luoghi comuni.

Talvolta, in nome e per conto del progresso, si giustifica la barbarie. I paesaggi sventrati. Le città asfissiate.

Allora l’epigramma di Zanzotto ritorna come un severo ammonimento, un’esortazione, quasi un avviso ultimo, forse anche come una sorta di involontaria implorazione, perché l’irreparabile sia evitato, perché si possa recuperare una coscienza del tempo e del proprio essere nel tempo e per il tempo. Perché probabilmente non c’è progresso senza l’attribuzione di un valore assoluto al legame tra il tempo dell’uomo e quello della terra.

Il Tiresia di Andrea Camilleri fa esperienza di quell’azzardo di una profezia, penetra nell’universo scuro dell’incognita e lo attraversa con il raggio di un pensiero che vorrebbe metterci sull’allerta come sentinelle a difesa dei nostri destini.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 4 novembre 2018]

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