Giovani vuol dire rivoluzionari, e viceversa

di Luigi Scorrano

Quando cerchiamo di capire il passato ci rivolgiamo quasi naturalmente ai libri, all’arte, a tutte le espressioni che gli uomini del passato ci hanno lasciato. Risulta interessante sapere come la pensavano su certi argomenti i nostri antenati. Riapro un libro e ci trovo tante osservazioni: alcune buone anche oggi, altre un po’ meno, invecchiate. Riapro L’avventura novecentista di Massimo Bontempelli la cui vicenda umana già per sé è sintomatica di certo clima di un’epoca. Nella pagina sulla quale mi soffermo si parla di giovani e di rivoluzione. Lo scrittore comasco vi immagina quali siano gli insegnamenti di un professore, parruccone diremmo oggi, a proposito di atteggiamento verso la guerra e dintorni. Il professore, egli lo immagina impegnato a trasmettere l’idea di appartenenza alla generazione giovane (a quella del momento). Ma lui, il professore, non può insegnare ciò che non sa perché i suoi criteri di giudizio sono ormai immobilizzati in una forma priva di flessibilità, cioè piena di quella che è la mutevolezza della vita. Il professore, dunque, non può insegnare ai suoi allievi come si realizza quella rivoluzione che i giovani aspirano a vivere. Il professore, scriveva Bontempelli, non era consapevole dell’aspirazione rivoluzionaria della gioventù alla quale si rivolgeva nella sua opera pedagogica. Il professore non sa ”che ogni generazione deve essere rivoluzionaria sulla precedente, altrimenti è una generazione ineffettuale e inutile.”

Le rivoluzioni di un secolo che si chiama Novecento e nella quale siamo cresciuti e abbiamo eseguito delle prove, ci hanno mostrato con evidenza quello di cui è fatta una rivoluzione. Ciascuna ha la sua specificità, si alimenta all’idea fondamentale e più o meno eversiva del voler dare alla società un assetto che dal nostro punto di vista è mancato. Abbiamo chiamato in causa bisnonni rivoluzionari, nonni cattivi esecutori, maestri col vizio dell’onniscienza, compagni di strada che la strada non l’hanno mai sentita realmente sotto i piedi perché usavano la moto o la macchina di papà: questa per camminare più comodamente, la prima da esibire come simbolo prestigioso più che mezzo di locomozione alla moda.

Si sa quel che succede. Passati gli eroici furori della prima ondata la marea a poco a poco si ritira, la retorica abbassa il volume della voce, dipinge con tinte più sobrie, addolcisce il rock dapprima troppo clamoroso e duro, sterza verso l’intimismo da sabato sera, traduce i comizi di piazza e le furibonde concioni in incontri in discoteca in cui ci si ritrova tutti quanti insieme in un clima più riposato, le luci diffuse, il nervosismo politico attenuato, il compiacimento di chi, nel clima ritornato idillico, pensa come si potrebbe sistemarsi o sistemare qualche familiare: una pace che stende la sua luce dorata sulle attese e le speranze di quanti trovano, nel riacquistato riposo, la quiete necessaria a favorire – in nome, intendiamoci, dei meriti rivoluzionari – una buona collocazione. Più o meno in proposito ricordo d’aver letto un secco giudizio sulla ‘carriera’ di uno scrittore: “Anche le rivoluzioni hanno i loro profittatori”. Ma perché meravigliarsene? In una nota a piè di pagina de L’avventura novecentista l’autore scriveva: “L’essere fatto Littoriale sarà il principio di un impegno, e non già un raggiungimento su cui beatamente riposare. E molto meno sarà il titolo e il pretendere un impiego, una sistemazione. Oggi, sopra la eccellente volontà dei giovani si sta sovrapponendo subdolamente una certa fretta di essere sistemati; brutta parola e orrida tendenza, infingarda, borghese, vecchia. [Così scrivevo nel 1934. Sancta simplicitas]”.

Ci domandiamo, a un secolo di distanza da quelle parole: sono così le rivoluzioni? E quelle giovanili in specie. Ma non c’è una rivoluzione dei vecchi, e sarebbe veramente benemerito chi volesse indicarcene una, o rappresentarcela, o promuoverla in modo che i vecchi potessero buttarcisi dentro. Succedono delle cose strane, a volte. Tu prendi a caso un libro che è nel tuo studio. Ti metti a sfogliarlo e ti ritrovi davanti parole che sembrano ancora quelle della tua età ma il cui senso ha spesso subito dei decisivi slittamenti. Perché anche le parole si muovono, oscillano, scivolano. Hai bisogno di riassettare il tuo vocabolario, di trascriverne delle voci dando alle parole i significati che il tempo ha aggiunto alla loro forma originale. Operare, insomma, una rivoluzione in questo campo, per chiarirsi le idee. Leggendo quella pagina di Bontempelli, ho accarezzato l’idea di una rivoluzione voluta, promossa, realizzata dai vecchi. Le gloriose bandiere sarebbero debitamente lacere, le armi le acquisterebbero, i vecchi, di contrabbando…

Non prendete troppo sul serio quello che trovate scritto in questa pagina. Potreste ingannarvi sulle intenzioni dello scrivente. Che vi pregherebbe con la richiesta palazzeschiana: e lasciatemi divertire.

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