Cosimo Sponziello, pittore di cieli di ghiaccio

di Maurizio Nocera

Ci sono due tratturi (forse ce n’è anche qualcun altro, sicuramente ancora più nascosto e che non è di mia conoscenza) per arrivare alla contrada agricola Grumisi, tra i feudi di Tuglie e Sannicola, scendendo dolcemente il pendio della ruga della Murgia salentina dalle parti di San Simone, che di Sannicola è frazione. Questo tratturo campestre è ubicato più vicino a Tuglie, ed è quello che attraversa le cosiddette Molte terre (Mutaterre), superando il grande Canyon ferroviario, che in due spacca la piccola Murgia di fronte allo Ionio. Dal loro versante, ancora oggi, i tugliesi lo percorrono attraversando una strada che è quella che passa dalla piccola collina [il sindaco Cesare Vergine la denominò Monte Grappa in memoria di alcune sue vicende legate all’omonimo monte del Trentino-Alto Adige, dov’egli fu soldato nella prima guerra mondiale 1915-18] per arrivare poi a quella contrada agricola che Cosimo Sponziello e i sansimonari usano chiamare Grumisi, al contrario dei tugliesi, che invece la denominano Crumisi, con la C.

Un tempo, in questa contrada, chi qui scrive ci arrivava percorrendo il tratturo delle Molte terre, per giungere a un fazzoletto di terra bauxitica selvaggia irta di pietre e di rovi, appartenuta ai propri avi. Poco sotto questo campo, c’era e c’è tuttora il campo di Cosimino con al centro la casa che noi bambini chiamavano villino e che nella quale, negli ultimi decenni, Sponziello ha passato il resto della sua vita.

È certo che di questo straordinario artista, piuttosto silenzioso e schivo, ne parlerà la storia, quella dell’arte e quella dell’uomo perché egli, durante la sua prima giovinezza, è stato un eccezionale fotografo della prima metà del Novecento [aveva iniziato l’attività nel 1932 a Gallipoli presso lo studio fotografico di Alfredo Stefanelli], poi raffinato, finissimo e delicato pittore della seconda parte dello stesso secolo. Mancavano pochi mesi al compimento del suo 90° compleanno quando, il 7 marzo 2005, morì nella sua amata terra, nel villino di contrada Grumisi.

Cosimo Sponziello era nato a Tuglie il 27 settembre 1915, e la sua vita l’aveva vissuta tra il Nord e il Sud della penisola come pittore e come fotografo. Ciò che egli pensava della sua terra, bene l’ha interpretato Luigi Scorrano, uno dei suoi massimi estimatori e colui che più di ogni altro ha sondato la sua vita e la sua opera, che ha scritto: «Del suo paese, della sua terra – Tuglie, il Sud – Cosimo Sponziello è interprete di grande discrezione. Un Sud senza accensioni, senza quasi nulla di quanto di troppo colorito e canoro si usa – o si usava banalmente – associare all’aggettivo ‘meridionale’. Qualche tentazione all’inizio, certo, quando – come in ogni inizio – si sperimenta varietà di toni e di forme alla ricerca di ciò che è proprio e giace al fondo e non s’intravede che a fatica e giorno dopo giorno, attraverso uno scavo assiduo, si tende a raggiungere e alla fine si conquista e, quando si è conquistato, non si finisce di interrogare» (v. L. Scorrano, “Cosimo Sponziello, salentino di Milano”, in «Nuovi Orientamenti oggi», anno XIX, 1988, n. 106-111, p. 46).

Sponziello, dunque, visse la sua vita così come lui aveva desiderato viverla, che non è da tutti, senza condizionamenti e senza tanto rumore sociale (o artistico) attorno. In un primo tempo aveva dato tutto se stesso alla comunità umana entro la quale viveva, andando in giro con la sua macchina fotografica per le strade, le marine e i campi di un Salento tutt’ancora da esplorare. Chi qui scrive, bambino nella seconda metà degli anni ‘40, lo ricorda fare su e giù, sotto un sole cocente, sulla spiaggia di Lido San Giovanni a Gallipoli, con a tracolla la sua immancabile macchina fotografica.

Per Sponziello la macchina fotografica non è stata solo uno strumento di lavoro, o quanto meno non solo questo. Perché, egli l’ha usata quasi fosse un pennello che cala sulla tela e lascia segni di colore vitale. Non va dimenticato che nel suo primo lavoro come aiutante fotografo nello studio Stefanelli di Gallipoli, egli era l’addetto al ritocco, che si usava fare soprattutto ai ritratti per rimodellare parti del viso non usciti bene dalla camera oscura. Chi qui scrive conosce questa operazione di Sponziello perché eseguita su un ritratto della propria mamma. E comunque, anche in questo caso, ci viene in aiuto il sempre generoso Luigi Scorrano il quale, a proposito delle straordinarie capacità di fotografo dell’artista, ha scritto: «All’entusiasmo […] progressivamente si affianca la riflessione, il lavoro consapevole, l’acquisizione dei “trucchi del mestiere”, ma anche il desiderio di sfuggire alle convenzioni della fotografia da studio. E sarà, più tardi, desiderio pienamente realizzato quando il fotografo professionale, pur non sottraendosi alle esigenze della sua committenza, potrà più liberamente collocare i propri soggetti en plein air o scegliere di fotografare l’aria e la luce, la vicenda di luci e ombre sulla faccia del mondo: almeno di quel poco di mondo di volta in volta, e per tratti, sorpreso dallo scatto della macchina./ Si potrebbe definire la fotografia un elogio della luce. E la fotografia di Sponziello, con l’occhio dell’autore intento a disporre il soggetto entro un’atmosfera netta e vibrante insieme, cerca ed esalta la luce. Il fotografo intende quasi carpirne il segreto e accrescerne, dove sia possibile, il tasso di magicità. Oppure manipola in studio la lastra o la pellicola, in sede di ritocco e di sviluppo, per circondare di un alone luminoso le figure, per ricavarne un maggiore rilievo plastico, la vibrazione adatta a conferire al soggetto fotografato una “qualità” distintiva: insomma, la cifra personale ed unica alla quale aspira chiunque intenda non essere solo un banale registratore di quanto vede» [v. L. Scorrano, Itinerario per Cosimo Sponziello fotografo, in Cosimo Sponziello fotografo, Barbieri, Manduria 1996, p. 3].

A partire dai primi anni ’50, anche per Sponziello arrivarono gli anni fortunati della sua attività di pittore, partecipando a una serie infinita di mostre e altre occasioni d’arte. Fu così che anche per lui si aprì la strada dell’emigrazione per il Nord, e lì, per altri decenni, lavorare prima come docente a Monza (insegnò Figura disegnata nel Liceo Artistico) poi, dopo altre esperienze di docenza, come titolare della cattedra di Nudo alla Scuola Libera dell’Accademia di Brera a Milano. Nel Nord, Cosimo Sponziello non si trovò mai come un pesce fuori dall’acqua, perché sua madre era lombarda.

Quando Cosimino si stabilì a Milano (in modo permanente dal 1953) era già pittore se non proprio affermato quanto meno riconosciuto, perché aveva già alle spalle l’insegnamento di uno dei suoi maestri, il mai dimenticato Vincenzo Ciardo. All’inizio della sua carriera di pittore, Sponziello aveva molto osservato e studiato il pittore di Gagliano del Capo riprendendone il segno, il colore e la macchia lunga distesa sulla tela. Così anche lui, almeno nei suoi primi dipinti, raffigurò campi e “pagliari”, vaghe sembianze di strutture urbane e rurali del Salento.

Ad un certo momento della vita, sicuramente quando aveva già completato il suo dovere di docente, ma siamo già alla metà degli anni ’70, il pittore raccolse le energie rimaste e le concentrò in quella stupefacente condizione di artista naturalista e un po’ agreste che era la sua intima natura: tornò così in Salento, nel paese che gli aveva dato i natali, Tuglie, e venne a vivere qui, in quel villino che insisteva nella contrada Grumisi, sul dolce pendio della piccola murgia di San Simone. Qui, nella terra degli avi, così come avevano fatto i suoi predecessori e come tuttora continuano a fare molti altri salentini, Sponziello ricominciò a vivere la vita amata e sognata da sempre: alzarsi la mattina presto, quasi sempre all’alba, e respirare l’aria tra i secolari ulivi, gli oleandri dal profumo dolciastro di miele cotto, i caleidoscopici fiori di campo, i peschi dalle tenere foglie, i mandorli tra le pietre e i mandarini e gli aranci profumatissimi.

Cosimino era sì tra queste meraviglie dalla natura, ma ciò che gli interessava di più era guardare soprattutto in alto, oltre i profumi e la stessa terra: guardare i cieli di ghiaccio delle nostre albe madreperlate. Sin da bambino, egli aveva ammirato questi spazi e questi cieli, questi colori e questa terra. Era rimasto spesso, ore e ore, ad osservare i cieli delle albe e gli stessi del tardo tramonto, quando un’aura di nostalgia li avvolgeva in trasparenza. Era allora che per lui, nella contrada Grumisi, si cominciava a respirare un alone di tristezza, di tenerezza, di incanto, d’oltrepassamento. Di ciò egli proprio non si dolse mai. Anzi. La nostalgia era il tratto essenziale della sua anima di silenzioso cercatore di luci.

La prima volta che mi accadde di sentire parlare di lui fu passeggiando per le strade del borgo antico di Gallipoli con Raffaelino De Grada, mio compagno di molte avventure politiche e letterarie per circa quarant’anni. Saranno stati gli anni ‘80 quando il noto critico d’arte milanese mi parlò dell’artista, consigliandomi di andarlo a trovare in quel suo villino sansimoniano dove si era ritirato (rifugiato?) dopo il pensionamento dall’insegnamento di 24 anni all’Accademia di Brera.

Ovviamente, essendo anch’io nato negli stessi luoghi dell’arista, mi è capitato più volte di incontrarlo, magari vederlo attraversare piazza Garibaldi a passo lento con in testa un berrettino su un volto bianco di ottuagenario contrassegnato da baffi e pizzetto alla Lenin. Poche volte si fermava a parlare con qualcuno, perché non erano molte le persone del paese che si ricordavano di lui e, per la verità, egli non faceva granché per aiutarle a ricordare. Amava la solitudine. Qualche volta si fermava all’edicola a comprare dei giornali, cosa che contemporaneamente facevo anch’io. Io sapevo chi era lui, ma lui non sapeva chi ero io. Di certo, per lui questo non doveva valere molto; l’importante era per me, che di lui molto mi aveva parlato De Grada. La timidezza spesso vince il desiderio, per cui quasi sempre solo un pacato “buongiorno”. Tuttavia, ora che egli non c’è più nella realtà della vita, il suo spirito gentile, di tanto in tanto, mi viene a trovare, magari in occasioni non cercate. Ed è quanto mi è accaduto di recente a Lecce.

È qui, nel capoluogo del Salento leccese, che quasi tutti i giorni, sul calare della sera, faccio una passeggiata di tre-quattro chilometri per le vie della città barocca, attraversando le romantiche strade del cinque-sei-settecento e otto-novecento pure. Quasi sempre scelgo di percorrere una strada diversa da un’altra precedentemente calpestata. Questo perché le emozioni di conoscere le novità nell’antico che vedo quotidianamente non finiscono mai: Porta San Biagio; San Matteo; Palazzo Vernazza; Palazzo dei Conti Guidotti; Palazzo Turrisi; le Giravolte; il Rosario con al suo interno la tomba dell’immortale Galateo; Porta Rudiae; l’Ospedaletto antico; il Duomo con le straordinarie porte bronzee di Armando Marrocco e con affianco lo svettante campanile dello Zimbalo; Sant’Irene, la vera protettrice della città; l’antico Palazzo della Giustizia e, dirimpetto, quello di Sozy Carafa, oggi Municipio di Lecce; piazza sant’Oronzo con la colonna, l’anfiteatro e il Sedile; il Castello Carlo V; Santa Croce e i Celestini; Palazzo Adorno; la Giudecca; via Idomeneo; l’Arco trionfale di Carlo V; e di qui infilarmi nella lunga e antica via Palmieri, oggi con le sue tante attività culturali.

E così è accaduto che, percorrendo appunto questa via, una sera di maggio 2011, dopo aver superato piazzetta Falconieri, mi sono imbattuto nella vetrina della Galleria d’arte dell’Associazione culturale A.R.C.A., di Mario Passabi.

Emozione da batticuore: sulle pareti dell’Associazione c’erano appesi i paesaggi ghiaccio/perlacei di Cosimo Sponziello. Tanti, da non averne visti mai in così gran numero. Sono entrato e ho cominciato a godermeli uno per uno. Che gioia! Che emozione! Infinite. Era questa l’occasione che aspettavo da tempo: trovare un’esposizione delle opere di Cosimo Sponziello in un numero così elevato e finalmente osservare i dipinti come da tanto tempo desideravo.

La prima cosa che ho cercato di verificare è stato constatare come l’artista aveva trattato la tela prima di dipingerla: in quasi tutti i dipinti osservati, salvo due chiaramente influenzati dalla pittura ciardiana, mi sono accorto dell’assenza di uno strato omogeneo di colore di fondo sulla tela, per cui essa è rimasta quasi sempre vergine. È su questa bianca verginità che Sponziello ha versato i suoi olii materici tanto che, in alcuni punti, i colori sembrano svuotati direttamente dai tubetti. Da una distanza troppo vicina, non è possibile accorgersi delle vere forme dei soggetti dipinti, degli alberi, dei trulli, delle pietre, dei cieli, delle marine, degli orizzonti, ecc.; come è quanto mai difficile percepire i differenti effetti di luce, perché il materico sbalza direttamente alle pupille. Per osservare bene le variazioni di colore e gli effetti di luce nella pittura di Cosimo Sponziello, occorre che l’osservatore si ponga ad un certa distanza (scelta unicamente soggettiva); solo così egli sarà in grado di catturare gli effetti straordinari della luce. Il taglio della tela che Lucio Fontana aveva ottenuto con la lama, Sponziello lo ottenne attraverso l’inserimento nell’opera di una figura geometrica (quasi sempre un quadrato che, simbolicamente, potrebbe significare una casetta, un sole, una finestra, ma anche uno squarcio di luce nella luce del cielo).

Osservando i dipinti della mostra di Lecce, ho cercato di individuare cosa avesse davanti a sé il pittore nel momento in cui era intento a dipingere. Di certo non aveva la realtà sic et simpliciter, ma la sua metabolizzazione mentale attraverso un sincretismo uomo/natura, che si rifletteva sulla tela direttamente quasi fosse la stessa mente dell’artista il pennello o la spatola ad interagire col supporto sul quale poi si materializzava il dipinto. Il risultato di tale operazione, psichicamente non facile, era che il paesaggio dipinto non era il frutto di una visione del reale ma di una visione ideale, che qualche critico ha chiamato sogno di luce. In buona sostanza, Sponziello ha dipinto l’immagine che la sua mente aveva della realtà, non la realtà così com’era. Era questo l’effetto della nostalgia. L’artista amava dipingere l’utopia.

Il curatore della mostra, Maurizio Russo, proprietario dei quadri e studioso dell’arte di Sponziello, lauretosi a Lecce con una tesi sull’artista, mi ha detto che la formazione di Sponziello era partita dai maestri pittori Gino Moro (milanese) e Vincenzo Ciardo, mentre, sul piano pittorico/letterario, l’artista aveva avuto modo di frequentare in Salento artisti e letterati come Nino Della Notte, Aldo Calò, Lino Paolo Suppressa, Tommaso Santoro e la moglie Jole Guacci, Oreste Macrì, Luigi Gabrieli, Vittorio Bodini, Vittorio Pagano, Luciano De Rosa, Vittore Fiore, Maria Corti, altri ancora. Tutti nomi divenuti noti in Italia e all’estero.

Quasi tutti i dipinti della mostra erano monotematici nel senso che, per la maggior parte, si trattava di paesaggi in cui il dominio della luce è totale, luce radente e soffusa che quasi sempre tiene in sospensione scarni elementi di terra, panorami, orizzonti, campi, cieli. Sono questi i soggetti che ammaliavano l’artista, che lo attraevano e lo spingevano a fotografarli e dipingerli.

Paolo Vincenti, un giovane e attento studioso di cose salentine, ha scritto: «La mostra di Lecce ci dà l’occasione di conoscere meglio l’arte dello Sponziello e di avere un ampio raggio della sua parabola performativa poiché sono esposte molte sue opere degli anni Sessanta fino all’ultima produzione. Una bella occasione per ubriacarci di luce, quella della luminosità mediterranea del pittore-fotografo Sponziello» (v. P. Vincenti, Sogno di luce, in «il Paese nuovo», 22 maggio 2011, p. 7).

Ecco, l’amore per la propria terra, che è poi l’amore per la vita. È lo stesso pittore che esternò questo suo sentimento in un’intervista rilasciata ad un quotidiano salentino. Alla domanda dell’intervistatore (O. Scorrano): «Maestro, cos’è per lei il Salento?», la risposta di Sponziello fu: «Oltre a rappresentare la mia terra, le mie radici, è la fonte della mia ispirazione e i miei quadri io li intendo come invenzioni legate alla memoria. Anche quando ero a Milano, io il Salento me lo portavo dietro, felice di tornarvi ogni volta che mi era possibile. Un ritorno forzato fu con la guerra, nel 1943, e nel 1945 aprii uno studio fotografico a San Simone, la frazione di Sannicola, dove abolii i vecchi fondali dipinti, per fotografare all’aperto» (v. «La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 ottobre 1998).

L’amore di Cosimo Sponziello per il Salento è confermato anche da un altro conoscitore della sua opera, il prof. Leandro Ventura che, in una lettera inviata al sindaco di Sannicola, in occasione della mostra Cosimo Sponziello. I sogni della luce (Biblioteca comunale, 3-18 ottobre 1998), ha scritto: «Sponziello è un artista che ha contribuito a costruire la memoria dei luoghi in cui è nato e in cui oggi è tornato a vivere e a lavorare. La sua attività di pittore e – non dimentichiamolo – di fotografo ha assegnato una durata indefinibile ai paesaggi del Salento e agli istanti significativi del sue persone, della loro vita, del lavoro, della festa, della mestizia. Di tutto ciò, la sua opera consente e consentirà di trasmettere alle nuove e future generazioni un ricordo non banale. L’attività di Sponziello, che oggi trova un riconoscimento fondamentale nella sua terra, alla sua terra dà lustro perché è un pittore di grande importanza e notorietà, che da Milano è sempre tornato con le sue immagini al Salento, la terra natale che è sempre stata fonte di ispirazione forte, caratterizzante un percorso artistico che si è snodato nell’ambito del grande filone del post-impressionismo. La sua è una pittura in cui, come nelle sue fotografie, il tratto, le forme, il colore diventano luce e “la luce è gioia”. Una gioia che certo sarà trasmessa anche a chi visiterà la mostra» (v. Opuscolo della mostra, Tipografia F.lli Piccione, Sannicola, p. 2).

Nell’occasione della mostra di Sannicola, emerse un altro aspetto interessante della personalità dell’artista, aspetto raro, per non dire rarissimo: la generosità. A testimoniarla fu lo stesso sindaco Sergio Bidetti che, nella presentazione, disse: «Mi piace ricordare i mesi che hanno preceduto questa mostra, sono stati ricchi di incontri con il professore Sponziello, quando ero da lui mi attardavo affascinato ad ascoltarlo raccontare con arguzia e occhi scintillanti della sua vita. […] Ci onora la sua scelta di tornare a vivere nella nostra comunità e ci trasmette un messaggio di gioia e speranza che lega la sua poetica esistenza di oggi, tra flora spontanea e multicolori girandole poste tra le rocce, al suo impareggiabile contributo con la fotografia ad avere memoria dei luoghi e della nostra gente, proiettando tutto questo verso il futuro e le generazioni che verranno. Il professore Sponziello con emozione e partecipazione ha condiviso le nostre speranze di fare di Sannicola un paese più importante, di investire per questo nella cultura e nei giovani, ed anche per questo lo ringrazio a nome di tutta la nostra collettività. La decisione del professore Cosimo Sponziello di devolvere al Comune di Sannicola il ricavato della vendita dei quadri esposti in questa mostra, finalizzato alla nascita di una biblioteca specializzata in letteratura per bambini e ragazzi, oltre che gesto nobilissimo è anche portatore di grande speranza per il futuro» (v. Opuscolo cit., p. 1).

Ormai è certo e conclamato che nelle opere di Sponziello, il dato stupefacente è la luce che egli ha impresso sulla tela. Non sono molti gli artisti che sono riusciti a risolvere il problema della luce. Ovviamente, in ciò il maestro dei maestri è stato Caravaggio, per il quale la luce, in mezzo a tanta opacità, riusciva sempre a “fiondarla” su una particolare sezione del dipinto. La storia della luce in Caravaggio ha qualcosa di prodigioso, difficile da reiterare. Anche nei dipinti di Sponziello, però, c’è un particolare tipo di luce, da alcuni critici definita perlacea (a piace dire anche di ghiaccio), che quasi sempre domina la visione. La sensazione che si ha, davanti ad un dipinto di un paesaggio sponziellano, è quella di sentirsi immerso nell’opera, tanto da percepire sulla pelle il tipo di clima. Si tratta di un effetto straordinario, che mette l’osservatore in una condizione di straniamento epidermico/luminoso. Il pennello o la spatola di Sponziello dipingono la luce ghiacciandola col colore che s’effonde dalla tela. Si tratta di effetti difficilmente raggiungibili, che l’artista è riuscito a risolvere grazie ad una osservazione permanente della realtà alterata della mente. Si tratta di esperienze e vissuti umani che lo hanno toccato nel profondo. I cieli di paesaggi senza confine sono dipinti solo in funzione degli effetti della luce, tanto da indurre Antonio Lucio Giannone, altro esperto della materia a scrivere: «Sponziello è uno dei più acuti interpreti di un paesaggio difficile come il nostro [salentino], sul quale non si stanca di ritornare con infinite e, a volte, infinitesimali variazioni, quasi alla ricerca del suo mistero nascosto. Ciò che colpisce subito nei suoi dipinti è un cielo smisurato, incombente, minaccioso, che sembra schiacciare i pochi elementi presenti sulla terra (qualche ulivo, una casetta, sparsi cespugli, un sentiero). […] Su questo cielo si aprono squarci improvvisi di rosa o di azzurro, dai quali piove una luce quasi metafisica, che dà vita alle cose, svelandone l’insolita ricchezza dietro l’apparente povertà. Sono paesaggi intrisi di luce e di emozioni, di materia e di ricordi, nei quali Sponziello riesce a ricreare l’atmosfera, la stagione, finanche l’ora precisa, lasciando nello spettatore un senso di indefinibile nostalgia» (v. «Quotidiano di Lecce», 18 ottobre 1998).

Ecco che ritorna la nostalgia, forse dei luoghi natii, sicuramente di un tempo perduto e di atmosfere di chiostro medievale. È ancora Luigi Scorrano che, a proposito dell’assenza umana nell’opera di Sponziello, ci aiuta a comprendere questo aspetto della sua pittura: «Sponziello dipingeva il silenzio, faceva il paesaggio messaggero della propria interiorità ma anche di una riflessione sulla sua terra. Un silenzio non di negazione o di chiusura, il suo; se mai, di nostalgia scavata nella memoria di una felicità lontana e quasi perduta (individuale e collettiva) che ci si sforzi di riafferare. Non una fuga dalla realtà, dunque, né una presa di distanza dal luogo natale. La presenza dell’uomo, si direbbe, è nascosta dietro il paesaggio. Ancor più da indovinare, da cogliere per suggerimenti interni al segno pittorico: ad esempio, nella mite luce che piove su un mare appena intravisto, su una campagna che par sospesa nell’imminenza di un presentito evento» (v. L. Scorrano, Cosimo Sponziello pittore, in Cosimo Sponziello. L’uomo, l’artista, Gruppo Incontri, 5 Emme, Tuglie 2006, pp. 9-10).

Tutta la produzione immaginifica dell’opera di Cosimino Sponziello, soprattutto quella successiva all’affrancamento dall’influenza di Vincenzo Ciardo, si fonda sulla luce, sia quella che egli ha cercato al tempo della fotografia sia quella che poi ha risolto successivamente con la pittura. Tutti coloro che vivono in Salento conoscono bene la tipologia della luce salentina; quella stessa che ammalia e stupisce chi, straniero, non la conosce e la vede per la prima volta. Durante il giorno, la luce salentina subisce differenti variazioni secondo i dati della meteorologia, che possono essere: di pieno sole, quindi di luce luminosa, infuocata e accecante; abbagliante con cirri sparsi; soffice come di trasparente vestaglia da notte di donna; riflessiva con grossi nembi nell’azzurro; spessa e resistente come di nuvoloso temporalesco; plumbea come di piombo; ghiacciata come di scrosci di grandine; grigia triste come di bambino sgridato, ma anche come di pioggia che scende dal cielo a dirotto; perlacea come l’incavo di un’ostrica; soffusa come di nebbia ovattata; tenera come di neve di gennaio; piena e gonfia come di utero che dà frutto; occupata e schermata come di nubi che non permettono il passaggio dei raggi solari; chiara come l’eterna diversalità; velata come di velo di Maja.

Raffaele De Grada aveva colto nel giusto quando a Milano, nella Presentazione alla mostra dell’artista “Il mio Salento” (Galleria Carini, 5-24 febbraio 1987) aveva scritto: «quando vedo i dipinti di Sponziello ho l’impressione che egli abbia concentrato la lezione del suo Maestro [Vincenzo Ciardo] adornandola di un velo, il velo che il tempo distende dilatando nella memoria le cose viste e godute verso un avvenire di pace e di ascolto. Vorrei definire Sponziello come un romantico del postimpressionismo vibrante di Ciardo, del fauvismo delicato, signorile di Gino Moro».

Un tratto di luce c’è sempre e comunque nella pittura di Sponziello che, da buon fotografo, aveva capito la particolarità della luce salentina; l’aveva compreso soprattutto vivendo nei campi e sulle piccole rughe murgesi del feudo di Tuglie e di Sannicola, in contrada Grumisi per l’appunto. In questo luogo, l’artista, seduto per ore e ore, oppure passeggiando per i tratturi tra filari di ulivi secolari, aveva avuto modo di accorgersi del variare della luce durante tutte le ore del giorno. Per questo si alzava prestissimo al mattino, uscendo di casa per vedere nascere il sole e quindi il parto della prima luce. Ma anche il crepuscolo gli interessava; per questo, a volte, rimaneva affacciato sui moli del porto di Gallipoli, da dove la luce dei tramonti è unica al mondo.

Il suo amore per la luce l’ha dichiarato più volte lui stesso, in ultimo anche nell’intervista del 1998: «Alla base delle due [mie] attività c’è la luce. Per la pittura e per la fotografia è sempre la luce che ‘rivela’, modella, contrasta, attenua, modula la linea di un paesaggio, quella di un volto femminile che si affaccia seducente. Chi fa pittura questo lo sa e lo sa anche il fotografo. Certo, la pittura ha più spazio creativo per fare poesia. La fotografia richiede solo esperienza e mestiere, ma ugualmente non rifiuta le note poetiche. [… La pittura] è musica senza parole, non per niente le due arti sono considerate sorelle» (v. «La Gazzetta del Mezzogiorno», cit.).

Un’altra interessante pagina sulla particolare luce nei dipinti di Cosimo Sponziello l’ha scritta sempre Luigi Scorrano; questa: «per Sponziello la luce è essenziale non in senso generico, ma in un senso più profondo, perché è proprio la luce la ‘materia’ della sua pittura. […] Perché questa luce ‘essenziale’, e questa luce-materia, è essa stessa a comporre il paesaggio, a conferirgli quella singolarità e unicità vibranti nella pittura di Sponziello. Perché è la luce a ‘inventare’, quasi per forza propria ma incuneandosi nella mente e nello strumentario dell’artista, ciò che noi vediamo sulla tela. ‘Invenzioni’ nel senso profondo della parola, ritrovamento di ciò che giace nella profondità della coscienza, sono i ‘sogni della luce’./ Una luce, quella delle tele di Sponziello, che svela e modella i volumi, suggerisce le immagini, suggestiona ed intriga con la sua inalterabilità. È la luce ferma di un momento privilegiato, quello in cui la sua azione rivelatrice si fa consonanza profonda con l’emozione dell’artista e conduce alla realizzazione dell’opera./ Che cosa dipinge Sponziello? Il paesaggio salentino. Però non lo dipinge nella sua esteriore visibilità. Egli porta sulla tela solo quel che è essenziale, ma anche il più difficile da trasferire: l’anima di un paesaggio» (v. Opuscolo cit., p. 8).

Oggi, ammirando i suoi dipinti (ovviamente non solo quelli aventi come soggetto paesaggi salentini, ma anche quelli che raffigurano quelli del Nord lacustre, marino, agreste, ecc.), si ha la sensazione di percepire in essi delle luci provenienti da un nuvoloso di neve, o come da un fondo di nebbia ovattata, o come da un nuvoloso tutto pieno con i raggi del disco del sole che non penetrano la massa delle nubi ma che dal di dietro la colpiscono e la rendono ghiaccio perlaceo, di chiara nostalgia. Si percepisce anche la sensazione di una luce cascante, proveniente da un nuvoloso temporalesco, ma come di piombo, che viene giù dal cielo quasi fosse grandine, pioggia, neve. A pensarci bene, si tratta di luci magiche, mistiche, delicate, luminose, trasparenti, leggere, liriche e, pur tuttavia, anche cupe, sofferenti, tristi, pensose, contemplative e profonde come di abissi celestiali, che il pittore era riuscito a captare, immergere nei substrati corticali e da lì farle affiorare proiettandole come sogni di colori chiari (massima preferenza agli olii) sulla tela. Non a caso è stato definito anche il pittore dei grigi chiari e il pittore che dipinge i sogni della luce.

Ci sono alcuni dipinti, intitolati Paesaggio pugliese, il cui tema io conosco bene, perché si tratta di paesaggi osservati dalla contrada delle terre del Grumisi, quegli stessi da me osservati dalla stessa posizione di osservazione dell’artista. Si tratta di poesia dipinta. In essi Sponziello raffigura la piccola ruga murgese che lievemente si distende verso la linea dell’orizzonte marino di Gallipoli, con differenti toni di grigi (i più amati dal pittore), in cui tre scarni ulivi fanno da contorno ad un delicato pendio verso una striscia di mare biancastro; il cielo è una turbolenza anch’essa di grigi chiari che disvelano la vera anima dell’artista, nostalgica, triste e sognante.

Non ha torto chi pensa e scrive che le opere di Cosimo Sponziello hanno a che fare con la poesia. Osservando un suo dipinto, non ci vuole molto a comprendere che si tratta di versi distesi sulla tela in forma di colore. Si tratta di versi crepuscolari, non nel senso del movimento letterario degli inizi del Novecento, quanto di quel sentimento triste e malinconico, inquieto e nostalgico che tocca l’intimo di ogni umano nell’osservazione di un’alba che fa fatica a sorgere oppure di un tramonto con un sole che s’impicca nell’orizzonte di un mare amato.

Nei cieli dipinti di Sponziello ci sono armonie di suoni, poesia, pura nostalgia, e poi, ad un certo punto della sua vita e della sua arte, solo eterea e chiara idealità. È questo un dato messo in evidenza anche da Antonio Lucio Giannone quando, nel suo saggio “L’itinerario pittorico di Cosimo Sponziello / La strada del timo e del pettirosso”, scrive: «Il soggetto [del dipinto] è ormai poco più di un pretesto per una raffinata ricerca del colore, del colore-luce, che scaturisce dall’interno dei dipinti, i quali, sotto un’apparente monocromia, rivelano invece una sorprendente ricchezza di toni, di impasti, di materia. Anche i paesaggi salentini, privati del tutto degli elementi accessori, decorativi, descrittivi, si sono come smaterializzati e sono diventati ormai puri luoghi mentali, paesaggi dell’anima, evocati da Sponziello ogni volta con intensa, irripetibile emozione» (v. «Sudpuglia», settembre 1992, pp. 127-138).

Si diceva esserci della poesia nei dipinti di Cosimo Sponziello, e qui mi piace chiudere proprio con una poesia del pittore poeta Franco Ventura, dedicata all’artista in occasione della mostra di Sannicola del 1998: «Verdeargento antichi ulivi/ e carraie erbose/ sull’erta del Crumisi.// Agile rapivi/ i primi chiarori all’aurora/ per i tuoi cieli/ alti sui folti arbusti.// Dove planano lente le nebbie/ portasti un lampo/ della nostra luce/ per frantumarle e i mirti/ e gli ulivi ardenti/ prossimi all’abbraccio eterno/ del mare di finibus terrae.// Nuvole e pietre si dilatano/ in scaglie iridescenti;/ evapora carezze/ il mare alla scogliera/ mentre sale il giorno/ con occhi di madreperla/ verso disabitati misteri/ dove la luce è gioia,/ il paesaggio religione.// Felice stagione quella,/ intatta nella sua solarità» (v. Opuscolo cit., p. 23).

[in “Anxa News”, n. 51, Gallipoli, maggio-giugno 2011, pp. 33-34.]

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