Elsa Morante e la Storia

di Augusto Benemeglio

Fu una donna sola

Il Municipio di Roma ha intitolato a suo nome una grande biblioteca sul mare, a Ostia Lido, 2000 mq, su 4 piani, dove si può fare di tutto, laboratori multimediali, giornate interculturali, concerti, teatro, e c’è anche una sala per bambini (che lei amava particolarmente), con postazioni video e multimediali, giochi da tavolo, etc. , eppure  Elsa Morante fu una donna sola, una donna infelice, una donna piena di contraddizioni e di dicotomie. Stiamo parlando della più grande scrittrice italiana di tutti i tempi, che con La Storia,  il suo libro più famoso, avrebbe voluto cambiare il mondo.  Non vi è riuscita, ma il romanzo rimane comunque un capolavoro della letteratura italiana. Era generosissima e avara,  a seconda degli umori, appassionata e indifferente, dolce e amara, tenera e dura. In lei c’era una dolorosa gioia, e abbiamo esaurito gli ossimori.

Una conoscenza occasionale

Quando la conobbi, più di  quarant’anni anni fa (1974), in modo del tutto occasionale (allora ero un ufficiale delle Capitanerie di Porto e fui incaricato, in una domenica di targhe alterne,  di andare a prendere il Ministro della Marina Mercantile, Pieraccini, nel proprio appartamento, e tra i suoi ospiti c’era anche lei), fu proprio questo suo modo di proporsi che mi  colpì: era estremamente schiva, timida e appartata, ma allo stesso tempo desiderosa di essere riconosciuta, ammirata, apprezzata per la sua grandezza di scrittrice, ma anche per la sua bellezza  di donna. Mi sedusse quel suo voler piacermi, con gesti e movenze, ammiccamenti e sorrisi, quasi da adolescente, quel farmi domande sul mare, sulle navi, sulle ore libere dei marinai, sul senso del navigare in mare aperto, dove tutto è mistero. Ovviamente io rimasi del tutto intimidito e quasi muto. Sapevo benissimo chi era.

Una scommessa anti Mary Schelley

Elsa Morante iniziò a scrivere La storia  a 60 anni, con una disfiorita bellezza che gli aveva fatto distruggere tutti gli specchi e qualsiasi superficie che potesse riflettere il suo volto, un tempo bellissimo. Ed era ormai alcolizzata e, forse, già colpita dal male che pochi anni dopo la portò alla morte. Il romanzo l’aveva pensato già molti anni prima, in una sorta di scommessa anti Mary Shelley. Cioè voleva dimostrare a quanti le rimproveravano di essere troppo favolistica e sognatrice, lieve e irreale, troppo “romantica”, – il che negli anni ’50-60 (epoca in cui Elsa aveva trionfato al Viareggio e allo Strega con Menzogna e sortilegio e L’Isola d’Arturo) equivaleva ad un insulto, o quasi, per una letterata  – di essere in grado di scrivere “anche” un romanzo impegnativo, storico, sociale, concreto, realistico che nulla avesse a che fare con l’etereo, lo sfumato, il sognante, la favola. In realtà  La Storia  non rinnega affatto la sua disposizione al sogno e al favolistico, pur  toccando una materia e un ambiente popolari, raccontando la breve storia, (in un linguaggio popolare accessibile a tutti) di Useppe, figlio di una maestrina violentata da un soldato tedesco, e di numerosi altri personaggi, che si muovono sullo sfondo  “storico“ e reale della seconda guerra mondiale, in una Roma affamata e sgomenta.

È la più grande scrittrice contemporanea, parola di Lukacs

Come abbiamo accennato, prima di questo libro, – da molti considerato il suo capolavoro –  Elsa Morante aveva avuto  dei notevoli  successi letterari, che l’avevano consacrata  scrittrice di prima grandezza, a livello di critica letteraria,  ma non le avevano dato – come ella sperava per rendersi autonoma economicamente –  la  ricchezza. Perciò continuò a  rimanere  all’ombra, tributaria e “vassalla” del suo ormai ex marito, Moravia, allora numero uno indiscusso della narrativa italiana che la manteneva anche dal punto di vista economico, cosa che la feriva e la umiliava.

Anche per questi motivi, Elsa decise di dedicarsi, per un lungo periodo, quasi esclusivamente alla poesia pubblicando due silloge, Alibi e Il mondo salvato dai ragazzini, che non suscitarono nessun particolare interesse.  Invece come narratrice i suoi romanzi continuavano a raccogliere consensi anche a livello internazionale e ci fu chi, come Lukacs, filosofo marxista e critico letterario ungherese,  non esitò a definirla la più grande scrittrice contemporanea italiana.  Ma – sempre secondo Luckacs –  “bisognava saperla leggere e capire, perché il suo fascino più sottile  si trova in un equilibrio lieve e stupefatto fra il candore magico, evocativo, di una memoria spontaneamente portata a condensarsi in simboli e una sinuosa, febbrile capacità di penetrazione psicologica”.

Le ire dei puristi della Storia

Ma oltre a questo  lusinghiero parere,  ci furono altre attestazioni  di scrittori francesi e tedeschi, che indussero Elsa Morante a cimentarsi in quella che fu la sua opera più ponderosa e importante, La Storia, appunto, che le costò quattro anni di dura fatica e ricerche, e suscitò, non appena pubblicato, un’eco vastissima, con pareri non unanimi. Ci furono infatti furori e vampe contro Elsa da parte degli storici, “i puristi”, in particolare, che non le perdonavano il fatto di narrare la storia con un linguaggio popolare.  Lei aveva osato “abbassare” la storia al livello più infimo e populista. In effetti la Morante  aveva fatto del suo romanzo-fiume il suo messaggio testamentario ideologico e politico, inserendolo in una dimensione storico-realistica, ma usando un plurilinguismo assolutamente nuovo e un quasi “prosimetro” per raccontare modi di dire e detti proverbiali, in uno la breve e favolosa storia di un bambino innocente nato da uno stupro, sullo sfondo della seconda guerra mondiale in una città eterna molto poco fascinosa, affamata  laida e stracciona. Una sorta di apocalissi minimale.

La storia siamo noi

Io credo che quello che maggiormente colpisca il lettore è lo stile della Morante, che è immediato, discorsivo, vivo, fatto apposta per il dialogo, frutto di un intenso lavoro a tavolino, in cui dispiega tutta la glottologia di cui ella disponeva per l’uso dei vari dialetti che inserisce , con molta sapienza , nel romanzo. “La storia siamo noi”, aveva detto Elsa Morante, ben prima di De Gregori. A quel tempo era frustratissima, arrabbiata, ce l’aveva con tutti, perché era conscia del suo grande valore di scrittrice e di donna. Elsa scrisse la storia perché era infelice e voleva dimostrare, prima del finire tragico della sua vita (morì poverissima e pazza in una casa di riposo per anziani) che Lei – donna, e donna fino in fondo – non era inferiore al mondo maschilista in cui era vissuta quasi come transfuga. Si scagliò, in un’intervista, contro questo mondo violento e ipocrita, capeggiato dal suo ormai odiatissimo ex marito, Moravia, che era – disse – “un impotente e un coglione”. Elsa in fondo fece tesoro di quanto Lukacs le aveva suggerito in una lettera: scrivi per il popolo e il popolo ti capirà.

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