La natura di Lecce nella letteratura tra passato e futuro

di Antonio Errico

C’è un’ora in cui ogni città appare con il suo volto autentico, sincero, senza maschera che abbellisca o che abbruttisca, senza teatri bizzarri, senza finzioni. C’è un’ora in cui ogni città si ritrova da sola con se stessa, con il carico di tutto il suo passato, con l’ansia per ogni istante di avvenire.

Sono le tre e un quarto di un pomeriggio. Il cielo di Lecce piove e non piove. La chiesa di San Matteo invece di adombrarsi nel grigiore, per contrasto manifesta di più la sua splendenza. E’ la testimonianza dell’eternità della mano dell’uomo, della sua opera umile, anonima, superba. L’eternità è nell’armonia di quelle linee, in quella esuberanza sontuosa della pietra. E’ in quella maestosità che esplode all’improvviso, ad una svolta d’angolo. E’ nel silenzio che a quell’ora cala come un sipario sdrucito sulla scena.

Non è possibile immaginare un tempo in cui quella chiesa non sia stata lì dove si trova. Non è possibile immaginare un tempo in cui quella chiesa non sarà più dove si trova.

Forse l’eternità è questa impossibilità di immaginare l’inesistenza dell’esistente.

Il cielo di Lecce piove e non piove. Non c’è quasi nessuno a quest’ora per i vichi. Una gatta bianca come una memoria va e viene lungo un muro protetto dal balcone. Una donna apre e richiude le persiane screpolate.

Forse l’identità della città è nel tempo di quest’ora, in questa sua sospensione fra amore e disamore, fra una superbia di passato e un turbamento di postmodernità. E’ in questa sensualità di dormiveglia, in questa sorta di passione soporosa, nella sua inconfessata nostalgia di un altro tempo, di un’altra storia, un altro sentimento.

A quest’ora, nell’alternarsi rapido di grigiochiaro e grigioscuro, mentre il cielo piove e non piove, Lecce si ritrova in quello che è stata, che forse vorrebbe ancora essere. Si ritrova così: malinconicamente appassionata, un po’ triste, un po’ distratta, un po’ annoiata, un po’ persa dietro i ricordi, in fondo ad un qualche rimpianto, un po’ indifferente alla sua bellezza, forse anche perfino alla sua vita.

Il cielo di Lecce piove e non piove nel pomeriggio di novembre davanti a San Matteo.

È questa la città che ha un cuore, che ha un sogno d’avvenire. Non appartiene al passato. Appartiene al futuro perché si presenta con la sua identità autentica, che non vuole artifici ulteriori, non vuole rumori, gesti scomposti, insignificanti simulazioni.

Si potrebbe obiettare che una città così conformata può appartenere soltanto alla letteratura.

L’obiezione avrebbe un suo fondamento. Perché è vero che Lecce appartiene anche alla letteratura. Anzi, la sua natura è in gran parte quella della letteratura. Ma che cosa ci potrebbe essere di male in questo. Ci sono città la cui natura è quella dell’industria, per esempio; altre che hanno natura mercantile. Ce ne sono altre che hanno la loro natura nella letteratura. Lecce è una di queste. Che c’è di male, dunque. Ma poi: che cosa rimane di Lecce se la si priva di quella natura. Rimane il non luogo, l’anonima affollata pianura adatta al movimento di un andirivieni senza direzione e senza scopo.

Ma un’altra obiezione comunque si imporrebbe: quale letteratura è possibile, in questo tempo, per Lecce. Forse il rischio potrebbe essere quello di un riferimento al modello di una espressione del Novecento, indubbiamente grandiosa e ineludibile, ma che richiede, essa stessa, un superamento.

Lecce ha le connotazioni e le possibilità per una letteratura di questo secolo nuovo, di questo nuovo millennio. Ce l’ha dentro: nell’antropologia, nella storia, nella fisionomia della sua cultura; c’è l’ha nella passione per il passato, nell’apertura alla solidarietà, anche se non di rado diffidente per una certa aria di dismessa aristocrazia, di presunta ma bonaria supremazia.

Ma dicendo Lecce non s’intende la città soltanto; s’intende piuttosto tutta la provincia. Che a volte ha avuto più energia della città. E’ stata sempre la letteratura della provincia a stabilire una relazione strutturale con il territorio, a rivelarne la sostanza profonda, la radice concettuale, storica, semantica. Allora qui si dice Lecce e si vuol dire tutto un territorio che va dal Capo di Leuca al capoluogo. Si dice Lecce come sintesi essenziale, come nucleo di riferimento.

Lecce, dunque. Richiama uno sguardo di letteratura che scruti il luogo nella sua forma che trasmutamantenendo i tratti dell’identità.

Le tre e un quarto di un pomeriggio di novembre ancora tiepido, sotto il cielo che piove e non piove, possono essere la metafora di una soglia – una delle possibili, forse innumerevoli soglie – sulla quale collocarsi per lanciare lo sguardo. La città vuota consente allo sguardo di attraversarla senza impedimenti, per vedere con l’immaginazione quello che Lecce diventerà. Si può chiamare interrogazione del tempo a venire. Ma cosa fa, a cosa serve la letteratura, se non interroga il tempo a venire. In fondo, anche quando indaga e interroga il passato, si pone domande sul tempo che sarà.

Ci si potrebbe chiedere che cosa si può capire del tempo che sarà indagando e interrogando Lecce con gli strumenti della letteratura.

Certo, ciascuno ha una propria risposta. Per esempio si potrebbe percepire che la prossima età sarà in una condizione di sospensione.

Lecce è un luogo che rappresenta una sospensione. Un’attesa, quasi fatalista. Richiamata dal passato, procedendo verso il futuro, affezionata ai propri riti, curiosa di quelli altrui, aspetta che qualcosa accada. Poi si ritrova nel nuovo e allora con esso si confronta. Anche pigramente, però si confronta. Forse l’epoca prossima sarà allo stesso modo. Mentre ci affrettiamo, mentre ci lasciamo travolgere dalla frenesia dei cambiamenti, mentre ipotizziamo stravolgimenti dell’esistenza, delle storie, dei linguaggi, ci viene il sospetto che ci si possa ritrovare in una sospensione di esistenza e di cultura.

Come in un pomeriggio di novembre ancora tiepido, che il cielo di Lecce piove e non piove, mentre una gatta bianca come una memoria va e viene rasentando lo stesso muro, mentre una donna apre e richiude le persiane, mentre l’uomo forestiero guarda il cielo e spera di vendere i suoi ombrelli, mentre il provinciale s’incanta davanti a San Matteo e pensa che sia il caso di comprare l’ombrello, come in quel pomeriggio si resta sulla soglia del tempo ad aspettare, immaginando un lontano che forse è già straordinariamente vicino.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia “, Domenica, 25 novembre 2018]

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