Conversazione con  Antonio Prete

di Gianluca Virgilio

Innanzitutto il titolo Se la pietra fiorisce riprende il penultimo componimento della raccolta Che la pietra fiorisca (pp. 112-113 ). Un retore direbbe che esso contiene un impossibile, poiché va da sé che la pietra non può fiorire. Nella raccolta si incontrano altre espressioni che riportano al fiorire: le “siderali fioriture”  della poesia Del fiorire (p. 34), “il fiore che si apre all’alba” in Rispondenze (p. 75). Puoi spiegare le ragioni di questo titolo?

Il titolo fa certamente riferimento al legame forte tra la poesia e l’impossibile -la poesia è la lingua dell’impossibile, come dell’invisibile, dell’estremo, e dell’indicibile- ma ha anche un’allusione a un verso di Paul Celan: E’ tempo che la pietra accetti di fiorire. Anche qui, nella poesia del grande poeta che ha descritto il tragico del Novecento, la notte europea dei campi di sterminio, la pietra che fiorisce è sfida dell’ impossibile, e sogno di una rinascita, nel cuore del gelo e della distruzione. Ma non è estranea anche, nella scelta del titolo, l’espressione leopardiana che fa da sottotitolo alla Ginestra, “il fiore del deserto”. La poesia da sempre ha richiamato l’immagine del fiore. Mostrare come questo fiore possa nascere anche nel deserto o dalla pietra è ancora oggi il compito del poeta.

Hai intercalato undici prose tra i versi. E’ inevitabile che ti chieda: come mai? E qual è il discrimine tra poesia e prosa nella tua pratica di scrittura?

La poesia e la prosa si guardano, dialogano, trascorrono una nell’altra. Mi piace mettere in scena il loro dialogo. Dopo Baudelaire, che si chiedeva quale poteva essere il ritmo adatto alla modernità, alla sua vita, e lo cercava in qualcosa che fosse oltre la separazione tra verso e prosa, è aperta la via della ricerca delle forme. Penso che in quella che chiamiamo prosa possa abitare la poesia.

Nei primi versi della raccolta (in Dissonanza)  inviti il lettore ad assumere un punto di vista “dislocato”: “Disloca il punto d’osservazione, / porta il pensiero fino all’orlo di una nuvola, / e ancora più oltre, di là dal cerchio lunare”: quale ruolo gioca nei tuoi versi questo punto di vista “dislocato”?

Sì, dislocare il punto di vista è essenziale per poter vedere quel che è nascosto alla vista quotidiana, consueta. Inoltre il punto della lontananza permette di uscire dalla dimensione antropologicamente centralizzante. Si tratta sempre di assumere un altro sguardo, o lo sguardo dell’altro.

Si leggono nei tuoi versi numerose rispondenze (per usare il titolo di una tua poesia di p. 75), tra l’alto e il basso, il terrestre e l’astrale. Posso fare alcuni esempi: già nella poesia incipitaria Dissonanza, leggiamo: “Il grido della ferita è disarmonia / delle ellissi. L’ offesa all’animale / è imperfezione nel cielo. / Per ogni pena terrestre, lentamente, / si  scompone la geometria delle costellazioni”; e in Rosa dell’infinito: “Un fagiano, l’improvviso sfrascare, / il volo verso la linea dei lecci. / Quale nodo o legge lo accorda / al vortice infiammato di un astro / che deflagra e s’inabissa?” (p. 21). Ma vedi anche le poesie a p. 27, 42, 61 ecc. Puoi chiarire il senso di queste corrispondenze?

Le rispondenze tra cose lontane e incomparabili tra di loro, estranee le une alle altre, esistono come una rete sottile, sotterranea, che appare nella lingua della poesia. Perché da sempre compito del poeta, lo diceva Leopardi, è comparare tra di loro le cose più lontane, e incomparabili, le più nascoste. E questo, aggiungeva sempre Leopardi in un passo dello Zibaldone, è anche il compito del filosofo. Poesia e filosofia si uniscono in questo sguardo.

Gli animali sono molto presenti nei tuoi versi: il cane in Cade tempo dal cielo (p. 18, “animali d’ogni specie” nella prosa Corteo meridiano (p. 20), il fagiano in Rosa dell’infinito (p. 21), un cavallo nella prosa L’incontro (p. 23), la chiocciola in Confidenza a Orione (p. 31), ecc. Non è un caso che tu abbia scritto L’ordine animale delle cose (Nottetempo 2008). Puoi dire quale senso abbia la presenza animale nei tuoi versi?

La presenza animale per me è una vicinanza, una prossimità, necessaria, perché ci fa sentire che siamo viventi tra viventi, che apparteniamo anche noi al mondo animale, anche se di quel mondo ci siamo autonominati signori e dominatori. L’animale ha uno sguardo sul mondo che muove dall’innocenza, non dal potere e dal dominio. Ha un rapporto con la natura di prossimità e dialogo costante, respira con la terra, nella terra, davvero vivente che non si è staccato da tutto ciò che è vivente. Mentre l’uomo si è allontanato da questa percezione. La sapienza animale ha molto da insegnarci. E attraverso lo sguardo animale possiamo spogliarci dei nostri vizi di civiltà. Come ricordi, ho dedicato agli animali un libro di narrazioni, che in questi mesi stanno traducendo in francese. Ma è un mondo di presenze che continua a colpirmi, e dunque anche i miei prossimi lavori ospiteranno animali.

Vorrei che mi parlassi di una parola chiave del tuo universo poetico: l’analogia. In questa raccolta le intitoli un componimento a p. 32, e poi la parola ritorna, accompagnata da due aggettivi, in Armonia (p. 38): “questa universale analogia”. E un tema che tu hai analizzato a fondo sin da Il demone dell’analogia. Studi di poetica da Leopardi a Valery(Feltrinelli 1986). Puoi spiegare cosa essa sia?

L’analogia la intendo non solo come figura della proporzione, e della comparazione, ma anche come relazione tra un elemento visibile e uno nascosto, tra qualcosa che ci appare dotato di senso, descrivibile, e qualcosa che si sottrae alla significazione, e si chiude nell’enigma. Questa relazione, come ha intuito e narrato Mallarmé, trascorre nella poesia, nella lingua della poesia.

Hai intitolato una poesia a Baudelaire (p. 78), dedicandola a Yves Bonnefoy. Baudelaire è uno dei poeti, forse il principale insieme a Leopardi, che ti ha accompagnato nell’elaborazione della tua poetica. Ricordo solo la traduzione dei Fiori del male (Feltrinelli 2003). Chi è il poeta francese nella trasfigurazione poetica che ne fa Antonio Prete in Baudelaire?

Baudelaire mi ha a lungo accompagnato quando lo traducevo e quando ho scritto saggi sulla sua poesia e sulla sua critica. Una presenza assidua, dunque, coinvolgente, amicale, a un certo punto. Per vent’anni ho portato con me dappertutto Les Fleurs du mal, per farne una versione poetica nella nostra lingua italiana. Per questo anche nei miei versi è presente. Il sonetto che gli ho dedicato appartiene al genere che i francesi chiamano tombeau. E l’ho dedicato a Bonnefoy perché anche lui ha scritto un Tombeau Baudelaire e perché tante volte abbiamo insieme parlato del grande poeta, che è un nostro comune amico, per così dire.

Una poesia s’intitola Della bellezza (p. 22) e in un verso di Rosa mutabilis (p. 73) scrivi che “la poesia sfiora, tremando, verità e bellezza”. Non sfugge al lettore, dunque, l’accostamento dei tre termini: poesia, verità e bellezza. La poesia, si deduce, avvicina la verità e la bellezza. Ma che cos’è nella poesia di Prete la bellezza?

Quel verso finale ha naturalmente un riferimento a Keats, a un verso in cui il giovane poeta inglese unisce verità e bellezza. La bellezza per me è la forma musicale dell’apparire, il mondo come forma, come forme. Quando le forme si mostrano in armonia, in grazia, nel sorriso dell’apparire, nel lampo, rarissimo, della loro presenza di luce, allora possiamo dire che c’è bellezza. La bellezza è il fuggitivo, il lampo nel fuggitivo. Il senso dell’appartenenza, anche da parte nostra, a questo lampo di luce nel fuggitivo delle cose, e del mondo.

In Sul silenzio (p. 81) scrivi del “sogno della poesia”, la “mutabilis rosa” (una metafora da spiegare). Mi sorprendo a pensare che non è in questione il compito o il ruolo o la funzione della poesia (e quindi dei poeti), quanto il sogno della poesia, in senso soggettivo e oggettivo: la poesia come sogno, ma anche come foriera di un sogno nel quale l’impossibile(di nuovo) diventa reale. Cosa puoi dirci in proposito?

La rosa mutabilis è una rosa particolare, che esiste in botanica, una rosa che cambia colore nel corso del suo fiorire. Mi sembra una buona metafora per la poesia, per la sua multiformità e variabilità e luminosità linguistica, ma anche -e questo è un assai antico senso- della vita, che appunto fiorisce e sfiorisce. La poesia è portatrice di un sogno, il sogno dell’impossibile. Sì, occorre sognare l’impossibile, in una vita che tende a chiudersi intorno all’utile, alla merce, all’oggetto d’uso, alla ripetizione di gesti, di forme. L’impossibile, cioè quello che è al limite dei sensi, che respira nell’immaginazione, può abitare con discrezione, la nostra esistenza. L’impossibile è anche fonte delle poche cose buone che si possono fare. Quel che di bello è stato compiuto nella storia della cultura e della civiltà è nato da una sfida: dare forma e presenza e realtà a quello che si crede impossibile.

Mi sembra di rinvenire nella tua poesia una notevole vena autobiografica. Da La partenza (p. 46) e da Su una foto di mia madre (p. 50), per citarne solo due dedicate a tua madre, a Quel primissimo tempo (p.60), dove ricorre la figura paterna; e poi ancora Da un vecchio album milanese (p. 104)), per finire con la poesia, l’unica in dialetto copertinese, Matrima, lu ientu (p. 114), ecc. La domanda è: che ruolo gioca l’autobiografia (intendo proprio il modo in cui guardi alla tua vita) nell’opera poetica di Antonio Prete?

La poesia è anche la lingua in cui siamo più scoperti, perché è la lingua dell’interrogazione di sé, del viaggio nella terra della propria interiorità. Da lì nascono le ricordanze, nascono volti e figure che salgono da lontano e chiedono una parola, una presenza, un ritmo. La poesia combatte l’irreversibilità del tempo, piega quell’irreversibilità nel nuovo tempo, che è il tempo del dire poetico, e così quel che non c’è più torna a vivere nella lingua. Così accade con il proprio vissuto. In fondo la poesia è anche, sempre, una rappresentazione della parte più nascosta di noi, di quel che riusciamo a vedere di questa parte. Ma l’io nella poesia è poi sottoposto a molte metamorfosi, entra nelle forme nuove, diventa anche l’altro: je est un autre, io è un altro, diceva Rimbaud.

 [Intervista rilasciata il 23 giugno 2012 in occasione della presentazione a Galatina di Se la pietra fiorisce].

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