Itali-e-ni 5. La sindrome di Totti

di Paolo Vincenti

“Quando ho voglia di giocare

Sono schiavo dell’artista che c’è in me

Datemi il pallone, non parlate

Poi correte ad abbracciarmi

Io sono l’ultimo egoista

Perché sono un fantasista

Faccio quello

Che vorreste fare voi…”

( “Il fantasista” – Enrico Ruggeri )

“Meno tasse per tutti, più tasse per Totti. Più tasse per tutti, meno tasse per Totti”. Così ironizzava qualche anno fa la comica (?) Sabina Guzzanti sulle politiche economiche del Governo Berlusconi. Nella sua battuta, l’attrice ventilava l’ipotesi di introduzione di una sorta di tassa patrimoniale ( proposta politica che è stata per anni cavallo di battaglia prima di Rifondazione Comunista e poi di SEL) che facesse pagare meno ai poveri e di più ai ricchi. Questo mi riporta al fuoriclasse Francesco Totti (che nella satira della Guzzanti veniva preso a simbolo dei calciatori superpagati) che in questi giorni è all’attenzione mediatica poiché non vuole lasciare la sua squadra, la Roma,  e a 39 anni suonati, non pensa ancora di ritirarsi dall’agonismo. Più che per i compensi milionari, però, il caso Totti è emblematico di una forma mentis, di una certa discrasia che invade tutto il Paese da nord a sud. Lo scollamento, cioè, fra volere e potere, fra desiderio e realtà, la pervicacia, tutta italiana, che poi diventa ostinata cocciutaggine e infine irrimediabile impudenza, di restare attaccati allo status quo.

L’Italia infatti è il paese in cui chi occupa un posto di prestigio lo mantiene per tutta la vita, e questo non soltanto nello sport, ma anche e soprattutto in politica e nell’alta finanza.  Chi detiene il potere non vorrebbe mai lasciarlo, salvo esservi costretto dalla magistratura o dal furore del popolo. Sappiamo bene infatti, senza dover citare Machiavelli, quanto sia mutevole la fortuna e quanto alterne le sue sorti. Le leve del comando, nel nostro Paese, sono tenute saldamente dalle stesse persone per anni e anni. Anche nell’imprenditoria privata, è costume perpetrare sine die il proprio comando. Le grandi industrie sono generalmente guidate da chi le ha fondate fino a quando non interviene la grande livellatrice a far giustizia, permettendo il ricambio generazionale. Nemmeno in prossimità della dipartita, i capitani d’azienda passano le consegne ai figli e alle figlie i quali, nel frattempo, logorati dall’attesa, si sono imminchioniti nell’indolenza, scannati nelle faide famigliari, oppure frustrati nel malanimo o ancora hanno fuso il cervello negli eccessi e negli stravizi. Ciò succede anche nell’effimero mondo dello spettacolo, nella musica, nell’arte, nella televisione. Spesso chi comincia bene, finisce male. Personaggi pubblici che hanno avuto una sfolgorante carriera, terminano i loro giorni nell’insuccesso o nella miseria, serbando rancore, astio, oppure si rendono protagonisti di episodi di cronaca nera. E ciò perché non seppero abbandonare il comando al momento opportuno, guadagnando una onorevole uscita di scena. Avevano iniziato fra gli osanna, gli evviva, fra le ovazioni di amici e cortigiani, e finiscono fra le imprecazioni, gli abbasso, i fischi e i fiaschi, i pomodori e le uova marce da parte di nemici ed ex beneficiati. Dalle stelle alle stalle.

Accettare l’ineluttabilità del destino è talmente straziante che artisti e attori sul viale del tramonto preferiscono dare in escandescenze, commettere gesti inconsulti, occupando così la ribalta per un’ultima volta, in occasione del loro atto estremo. Invece di ritirarsi quando Poseidone comanda, di ritornare in porto col vento favorevole, lo si fa nel più furioso temporale, quando il sole è ormai tramontato e non ci sono stelle ad indicar la rotta, nella notte più scura. A volte, non ci si ritira nemmeno nella disgrazia e si continua a lavorare esponendosi al pubblico ludibrio. Nessun senso del ridicolo è più forte della brama di potere, del presenzialismo, della smania di continuare a contare. E nonostante i cattivi auspici di Astrea, si imbroglia e non si risparmiano pratiche illegali solo per assicurarsi la continuità. Così è la sfortuna stessa a punire quell’intemperanza col più onesto castigo. Quando da ragazzi si giocava a calcio, ricordo, c’era sempre quello che si impossessava della palla e non la lasciava più fino a che non arrivava sotto la rete, perché voleva a tutti i costi segnare, far bella figura. E tutti a gridargli: “passa la palla! E passala, quella cazzo di palla!”. Ma perché in Italia nessuno vuol mai passare la palla?

MARZO 2016

Questa voce è stata pubblicata in Itali-e-ni di Paolo Vincenti e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *