I punti deboli della “secessione dei ricchi”

di Guglielmo Forges Davanzati

La richiesta di maggiore autonomia da parte di alcune regioni del Nord (Veneto, Lombardia, Emilia Romagna) è stata appropriatamente definita una mossa verso la “secessione dei ricchi”. I cittadini residenti in quelle regioni, chiamati a esprimersi tramite referendum, hanno votato a grandissima maggioranza – se non quasi all’unanimità in Veneto – a favore di maggiore autonomia nella gestione delle loro entrate fiscali. In sostanza, la richiesta è di trattenere in loco il gettito che quelle regioni ottengono via tassazione dei residenti. E’ secessione dei ricchi dal momento che in quelle regioni il Pil pro-capite è maggiore rispetto al resto delle regioni d’Italia ed è, conseguentemente, maggiore il gettito fiscale che gli Enti locali ne traggono: si calcola, a riguardo, che le tre Regioni considerate producono circa il 50% del Pil italiano. Considerando che, in Italia, al netto delle spese previdenziali, gli Enti locali contribuiscono alla spesa pubblica complessiva per oltre il 50%, si comprende come il tentativo di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna consiste in un qualcosa che somiglia molto a una secessione, dovuta a ragioni prettamente economiche: gestire autonomamente le risorse locali evitando qualunque trasferimento perequativo al Sud, in deroga rispetto a quanto previsto dalla disposizione di un fondo perequativo a beneficio delle aree deboli di cui alla riforma del titolo V della Costituzione. Si tratta di un’ipotesi che si pone in evidente contrasto con quanto disposto dalla Carta Costituzionale, ma per esserne certi occorrerà attendere la pronuncia della Corte Costituzionale. In ogni caso, al netto del profilo giuridico, con questa istanza occorre confrontarsi.

L’Italia non ha mai davvero fatto i conti con un dualismo che la accompagna dalla sua unificazione e che, nei tempi più recenti, è sistematicamente cresciuto. La richiesta di autonomia accelera per due ragioni.

  1. In una fase recessiva, la gran parte dei cittadini residenti al Nord sperimenta processi di impoverimento e reagisce provando a fermarli trattenendo nelle loro regioni le tasse che lì vengono pagate;
  2. Le imprese del Nord non trovano, nelle condizioni attuali, particolarmente profittevole la crescita dell’economia meridionale e il Mezzogiorno non dispone di meccanismi endogeni che siano in grado di attivare un percorso di crescita. L’economia meridionale ha tradizionalmente svolto la funzione di mercato di sbocco per le produzioni del Nord. Come certificato da Istat e ICE, le imprese settentrionali, soprattutto quelle più grandi e più innovative, hanno reagito alla crisi legandosi al capitale del centro del continente attraverso rapporti di subfornitura. Si tratta di quel nucleo di imprese (stimato dall’ISTAT intorno al 10% del totale delle imprese italiane) che non ha registrato contrazioni dei margini di profitto dal 2008 a oggi. Il Mezzogiorno resta un mercato di sbocco per i soli beni di consumo e lo è sempre meno. E’ ciò che SVIMEZ definisce, con riferimento al Sud, la “grande frenata”. A ragione dell’invecchiamento, dell’aumento del tasso di disoccupazione e della riduzione dei salari, i meridionali consumano meno; le imprese del Nord vendono sempre meno al Sud; i trasferimenti al Sud diventano, dal loro punto di vista, un puro costo. Per contro, hanno necessità di gestire in loco i processi formativi (potendo anche permettersi di dare ai loro insegnanti stipendi maggiori di quelli ottenuti, per le medesime qualifiche, al Sud) per disporre, sul territorio, di centri di ricerca che forniscano ricerca applicata e forza-lavoro qualificata.

Non a caso, la cosiddetta autonomia differenziata è già in atto, da anni, nel settore della formazione e nelle Università in particolare.

E’ in atto, infatti, da anni un attacco alle Università meridionali, che si gioca attraverso tecnicismi difficilmente comprensibili (anche agli addetti ai lavori) e che si realizza nella sostanziale indifferenza dell’opinione pubblica, non adeguatamente informata o non informata per nulla. Ciò che definiamo attacco è mostrato dalla distribuzione, su scala regionale, dei cosiddetti punti organico, ovvero della possibilità, assegnata alle sedi universitarie, di assumere. Il Ministero discrimina fra Università ‘virtuose’ e non sulla base fondamentalmente delle spese per il personale: le Università con minori spese per il personale sono premiate, ovvero possono assumere più ricercatori delle Università con maggiori spese per il personale. Si tratta di una logica controintuitiva, dal momento che ci si aspetterebbe che l’Università – in quanto luogo di produzione di conoscenze, di trasmissione di conoscenze, di ricerca scientifica – non debba essere gestita come si gestisce un qualunque altro comparto della pubblica amministrazione. Non perché debba essere una ‘torre d’avorio’, ma perché il suo ruolo è strategico per la crescita economica, culturale e civile di un Paese.

La logica che è alle base di questa scelta – mai messa in discussione dal primo provvedimento del 2012 – si fonda sull’equiparazione di un’Università a un’azienda ed è finalizzata al contenimento dei costi. Di fatto, le politiche formative in Italia nell’ultimo decennio sono state sempre pensate nell’ottica del risparmio: il risultato è stato raggiunto, con un dimagrimento dell’Istituzione, per la prima volta nella sua Storia, di 1/5, per numero di studenti, docenti e personale amministrativo. Negli ultimi dieci anni, il numero di immatricolati si è ridotto del 4.7%; il numero di ricercatori di oltre il 19% e di oltre il 19% anche il numero di professori.

La contrazione è stata selettiva a danno delle sedi meridionali. La linea teorica che giustifica queste scelte risiede nella convinzione che le Università italiane producano laureati con troppe conoscenze di carattere generale e poche competenze, e che questi siano, per conseguenza, difficilmente “occupabili”. E si fa strada l’idea che occorra accrescere il numero di immatricolati favorendo il loro indebitamento nei confronti delle banche, secondo un modello già sperimentato nei Paesi anglosassoni. L’obiettivo è accentrare le risorse creando poli di eccellenza che forniscano alle imprese del Nord ricerca di base, applicata e forza-lavoro qualificata per generare innovazioni.

La secessione dei ricchi conviene davvero ai ricchi? Qui occorre interrogarsi su due aspetti, uno tecnico (o apparentemente tale), l’altro di natura macroeconomica. Il primo attiene alla definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP), ovvero alla quantificazione di indicatori che avrebbero dovuto essere costruiti e utilizzati a seguito della riforma federalistica della costituzione – la riforma del titolo V del 2001. Di fatto, non esistono o comunque vanno riformulati sulla base dell’ipotesi del ‘federalismo’ differenziato domandato dalle tre regioni del Nord. Si tratta di indicatori che dovrebbero stabilire la qualità delle prestazioni relative alla tutela dei diritti civili e sociali, nel rispetto dell’articolo 120.II della Costituzione, che stabilisce che occorra preservare “la tutela dell’unità giuridica o dell’attività economica [fra Regioni]”. Insomma, il percorso che porta alla secessione dei ricchi è, sul piano giuridico, un percorso a ostacoli di deroga ai principi costituzionali. In più, come messo in evidenza da autorevoli commentatori, non è del tutto chiaro cosa si intende per “residuo fiscale”: in prima approssimazione, è la differenza fra quanto lo Stato incassa tramite tasse sui singoli territori e quanto lo Stato trasferisce loro in termini di spesa pubblica. Dal punto di vista della contabilità nazionale, questa definizione va incontro a un duplice problema. In primo luogo, in uno Stato unitario, il ‘patto fiscale’ non è territoriale, ma nazionale; in secondo luogo, non si comprende come vengano imputati – nel calcolo del ‘residuo fiscale’ – i titoli del debito pubblico. Questi ultimi sono detenuti principalmente da residenti al Nord, con la conseguenza che i vantaggi economici delle tre regioni secessioniste verrebbero a dipendere in modo cruciale dalla dinamica del debito pubblico, e non necessariamente e non sempre in senso a loro favorevole (se si riduce il loro valore, si dovrebbe ridurre il residuo fiscale, vanificando, in tutto o in parte, i vantaggi economici del federalismo).

L’aspetto macroeconomico è altrettanto rilevante. Le imprese del Nord stanno scommettendo su maggiore integrazione con il grande capitale europeo. Questa strategia è rischiosa, almeno nel medio-lungo termine. Un rallentamento della crescita nei Paesi core del continente (Germania e Paesi satelliti), rallentamento peraltro già in atto, potrebbe innestare una spirale recessiva anche per il Nord, che è dentro una catena globale del valore nella quale esistono Paesi leader e aree relativamente più povere: il Nord e le sue imprese sono fra queste ultime.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, 3 febbraio 2019]

Questa voce è stata pubblicata in Economia e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *