Quei versi dell’Infinito che portiamo dentro di noi

 di Antonio Errico

Duecento anni fa, nel 1819, Giacomo Leopardi scrisse “L’infinito”.

Quando Giacomo Leopardi scrisse “L’infinito” aveva vent’anni e un’esistenza già straziata. Quella sinfonia impetuosa e pacata, quella riflessione leggera e profonda sullo spazio, sul tempo, quell’inabissamento nell’infinito silenzio, quella brezza di enjambement, quel vuoto rigonfio di suoni, quell’affiorare morbido di sensi, rappresenta una dimensione di congiungimento dell’umano con il sovrumano, del transeunte con l’eterno, della finitudine che cerca una consolazione nell’idea o nella suggestione di un infinito, oppure nella sua figurazione, nella sua trasfigurazione, nella sovrapposizione di desiderio e di spaurimento.

Ciascuno di noi si tiene i versi dell’ Infinito dentro: in profondità, in superficie, forse compatti, forse confusi, stratificanti o incerti o raggrumati nell’impasto degli anni.

Forse li avrà incontrati una sola volta in un giorno di scuola media, forse una volta sola in un giorno di superiore, o forse li avrà letti decine di volte, centinaia, per studio, per passione, attraversando la loro sperimentazione dell’incognita e dell’immenso, confrontandosi con la rappresentazione dell’arcano, oppure della solitudine, oppure dell’ansia di sconfinamento.

Ciascuno di noi ha il proprio Infinito dentro, un proprio concetto o sentimento della siepe, dell’ultimo orizzonte, dell’immensità in cui il pensiero potrebbe o vorrebbe sperdersi, annegare. Ciascuno ha una propria, unica, imparagonabile, assoluta concezione della condizione del naufragio e del mare in cui si naufraga, e della dolcezza che talvolta anche il naufragio fa assaporare.

Tutto può accadere, leggendo l’Infinito. Anche l’incomprensione. Tutto può accadere, meno che l’indifferenza. Quale che sia la competenza del lettore e l’intensità della lettura, c’è sempre almeno un verso, anche uno soltanto, che s’inchioda nelle strutture della memoria. Almeno il primo verso; almeno l’ultimo: Sempre caro mi fu quest’ermo colle; E il naufragar m’è dolce in questo mare. Tutti gli altri versi sono portati da questi due: dal primo e dall’ultimo. Dalla loro musicalità sublime. Se Giacomo avesse detto, come probabilmente chiunque altro avrebbe detto rispettando la consuetudine della costruzione: questo colle ermo mi fu sempre caro, la storia della letteratura sarebbe diversa da quella che è. Ma ha detto “Sempre caro mi fu quest’ermo colle”, combinando le sette parole in un modo che non dà possibilità di nessuna variante, e la letteratura ha scritto una pagina ineludibile. Se Giacomo avesse detto che in questo mare il naufragare mi è dolce, sarebbe stato come chiunque altro; invece ha detto “E il naufragar m’è dolce in questo mare”, ed è diventato Leopardi. Non solo per questo verso, certo. Ma anche per questo.

In uno dei suoi tanti saggi su Leopardi, intitolato “Finitudine e infinito”, Antonio Prete sostiene che il naufragio costituisce la conseguenza dell’impossibilità per il pensiero di rappresentare l’infinito. Questo naufragio è anche naufragio nella lingua che si è avventurata prima in una finzione nel pensiero, poi in una finzione che osava la comparazione fra l’oltretempo e il tempo, fra l’assoluta assenza e la viva presenza, fra l’irreversibile e il qui-presente e risonante.

Ciascuno di noi ha il proprio Infinito dentro e una siepe nel pensiero che impedisce allo sguardo dell’intelligenza di raggiungere un orizzonte di sapere. La siepe è il nostro limite di cognizione, la delimitazione del territorio della nostra esperienza di conoscenza che comincia e si conclude nel perimetro angusto di un’esistenza, nella costante mortificazione delle sensazioni e nella umiliazione della ragione, nella spaventosa constatazione che l’incomprensibile resiste alla potenza di qualsiasi scienza, che l’indicibile resta qual è nonostante ogni assalto di metafora.

Ma Giacomo ci dice che una possibilità ci può essere. Una sola possibilità: straordinaria. Una immaginazione, una finzione per andare oltre la siepe, per osare il pensiero dell’impensato. A questo serve la poesia, probabilmente; a questo e a nient’altro. Serve ad andare oltre la siepe, ad immaginare una realtà che supera il tempo e lo spazio, e le misere possibilità che la realtà ci concede. Probabilmente la poesia serve a fingere di conoscere l’inconoscibile, a immaginare di ricondurre nella propria condizione ordinaria la straordinarietà dell’infinito. Probabilmente serve a fare il dono di una dolcezza ai nostri irrimediabili naufragi quotidiani.

Il 23 luglio del 1820, nello “Zibaldone”, Giacomo diceva di “una tendenza nostra verso un infinito che non comprendiamo”.

Poi puntualizzava: “ Il piacere infinito che non si può trovare nella realtà, si trova così nella immaginazione, dalla quale derivano la speranza, le illusioni”.

Allora, sacrificando ogni criterio di ermeneutica, qualcuno potrebbe anche ipotizzare che quella rappresentazione dell’Infinito che fa Leopardi, sia sostanzialmente la narrazione di una ricerca del piacere, la messa in scena di un bisogno di illusione, l’espressione di una speranza che altrimenti resterebbe inconfessata.

D’altra parte, quella dolcezza di naufragio si carica di una matura, dolceamara sensualità, lascia intravedere il senso di un’estenuazione, di un consapevole abbandono al mistero dell’infinito.

Aveva vent’anni quando scrisse i quindici endecasillabi sciolti.

Forse mentre li scriveva, per qualche istante gli si lenivano i dolori, si liberava dai risentimenti che aveva nei confronti di se stesso.

Cominciò con la dolcezza di un affetto, dicendo “sempre caro”. Finì con la dolcezza di un lasciarsi andare, di un consegnarsi con serenità all’oblio e al mare quieto e misterioso dell’infinito.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, domenica 17 febbraio 2019]

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